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La pesca a strascico del pesce rancido

imagesA sorpresa, tra le carte dell’inchiesta sulla Cpl Concordia, che mesi dopo avrebbe portato all’arresto del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, spunta una telefonata fra Matteo Renzi e il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi. Che spunti a sorpresa lo dice lo stesso giornale che la pubblica, il Fatto quotidiano. A sorpresa, nel senso che non si capisce cosa c’entri con quell’inchiesta il giudizio che Matteo Renzi rende sull’allora premier Enrico Letta. Non si capisce perché c’è, in realtà, molto poco da capire: infatti l’una cosa non ha assolutamente nulla a che vedere con l’altra. Però la sorpresa non finisce qui: non è sorprendente solamente che in quelle carte finiscano simili conversazioni; è sorprendente pure il fatto stesso che spuntino fuori. L’unica cosa che non si può dire davvero sorprendente è proprio il giudizio di Renzi: che non ama Letta (ricambiato) e lo considera un incapace. In breve, pensa già alla sua sostituzione. Siamo nel gennaio 2014, e di lì a poco il sindaco di Firenze prenderà effettivamente il posto del premier, ma, intercettazioni o no, le modalità piuttosto brusche in cui il passaggio di consegne avviene non lasciano dubbio ad alcuno: fra i due non corre buon sangue. Sicché le parole di Renzi al generale Adinolfi tutto sono meno che sorprendenti. Ci piace leggerle, tuttavia, per quella gioia maligna di cui spesso si alimenta la nostra maniera di seguire, da spettatori, lo spettacolo dei potenti, ma di fatto non dicono nulla che l’opinione pubblica non sapesse già. Non ci si può invece non stupire di quel che capita nel nostro paese: che intercettazioni non solo prive di qualunque rilievo penale, ma prive anche di qualunque attinenza coi fatti e le circostanze oggetto di indagine, finiscano prima nei faldoni dell’inchiesta, poi sulle prime pagine dei giornali. Succede insomma che se io indago su Tizio (in questo caso Tizio è il generale Adinolfi) posso tirare dentro chiunque abbia a che fare con Tizio, a prescindere non solo dalla rilevanza per l’indagine, a prescindere anche dal non avere l’indagine seguito alcuno, a prescindere dalla pertinenza fra i fatti oggetto d’indagine e tutto ciò che nel frattempo emerge, a prescindere da qualunque rispetto della privacy, della riservatezza o della sfera della libertà personale. A prescindere da tutto.

In questa circostanza, che ha del clamoroso, accade che la Cassazione ordini di trasferire  l’inchiesta da Napoli (dove era stata condotta dai magistrati Borrelli e Woodcock) a Modena (dove ha sede la Concordia), e che conversazioni, peraltro intercettate nell’ambito di un altro procedimento su Adinolfi (nel frattempo prosciolto da ogni accusa), vengano – oplà! – allegate agli atti trasmessi a Modena, e per questa via rese così di dominio pubblico. Si chiama strascico, perché, proprio come nella pesca a strascico, in questo modo si può tirar dentro la propria rete qualunque cosa, specie marine protette e specie non protette. Solo che la pesca a strascico è vietata; le intercettazioni a strascico invece no, e anzi sono tanto più praticate quanto più è pregiato il pesce che si vuole acchiappare.

In quelle carte c’è così finita pure un’altra conversazione, che tira in ballo Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, all’epoca dei fatti Presidente della Repubblica. A Roma comanda lui, si dicono in sostanza gli interlocutori, che pensano quindi di agire sul padre attraverso il figlio. Di nuovo: rilevanza penale? Nessuna. Pertinenza? Nessuna. Legame con inchieste in corso? Nessuno. Si tratta solo di strascico a tutto andare, col quale si buttano fuori opinioni espresse nel corso di una chiacchierata privata, non diversamente da come può capitare a chiunque di parlar male o bene di un amico, di un collega che non si sopporta, di un altro che ha fatto carriera e di un altro ancora che va a letto con tutta la città. Di opinioni così, infarcite di luoghi comuni, dicerie, confidenze, non importa se fondate o meno, sono piene le nostre conversazioni, in cui per fortuna non dobbiamo morderci la lingua. Finché almeno qualcuno non ci intercetti.

Ma c’è tuttavia in quelle carte qualcosa che l’opinione pubblica debba sapere, e che faccia notizia? Non c’è materia giudiziaria, questo è assodato; c’è almeno materia giornalistica? Chi ha pubblicato lo scambio di opinioni pensa di sì, perché evidentemente ritiene non faccia differenza se e come quelle opinioni siano espresse. Basta che i pesci siano grossi. Così, carpite o meno, dette di volata o pensate seriamente, cambia poco. E invece cambia tanto, anzi cambia tutto, perché la maggior parte delle cose che diciamo in privato non saremmo disposti a sostenerle in pubblico, se ne dovessimo difendere per davvero la veridicità.

Ma perché questa elementare distinzione fra il dire tanto per dire e il sostenere quel che si dice, e cioè l’impegno con la verità, che sta all’origine della civiltà occidentale, è venuta completamente meno, e sui giornali anche la voce più incontrollata viene riportata e fa notizia indipendentemente non solo dal suo valore di verità, ma anche dall’essere stata proferita o meno in spirito di verità? Perché ad esempio dobbiamo perdere la libertà e il diritto di dire oggi tutto il contrario di quel che pensavamo ieri: almeno al bar, almeno tra amici, almeno quando stiamo per i cavoli nostri? Non è barbarie, questa: condurre il dibattito pubblico sulla scorta di atti di indagine sottratti al loro corso, dove non hanno potuto avere alcun seguito, ma utilizzabili ancora nello spazio mediatico per menare fendenti contro l’uno o l’altro? Qualcuno ha detto che la libertà di opinione è la libertà di mentire, più fondamentale, in una democrazia liberale, persino dell’ottavo comandamento. Ma se quella libertà viene conculcata sotto l’impero delle intercettazioni, è lecito o no, di grazia, chiedersi chi comanda davvero, e con quale legittimità?

(Il Mattino, 11 luglio 2015)

Enrico Letta, Don Rodrigo e il Conte zio

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Enrico Letta non ha l’età del conte zio: e dico non dello zio Gianni Letta, ma del conte zio dei Promessi Sposi, quello che manda a chiamare il Provinciale per scongiurare «un monte di disordini, un’iliade di guai» ed invitarlo a «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire». Enrico Letta non ha l’età e probabilmente neppure la voglia di scegliere una strada simile, di cercare soltanto di evitare cozzi, scansare il chiasso, e «allontanare il fuoco dalla paglia». Ma siccome non sono pochi i focolai che si accendono qua e là, il rischio che debba sottrarre materia all’azione di governo per evitare lo svilupparsi di incendi esiste.

Esiste e si palesa ad ogni nuovo decreto, in cui, a torto o a ragione, ai primi posti delle decisioni del governo figurano materie oggetto di rinvio, o di un’azione più prudente e meno incisiva di quella che sarebbe forse necessaria.

Ma è nella natura di un governo di larghe intese, si dirà. Essendo sostenuto da forze diverse e contrapposte, che nell’ultima campagna elettorale e per un tempo lungo quanto la seconda Repubblica si sono considerate alternative, il governo deve necessariamente cercare un punto di mediazione, che possa andar bene agli uni e agli altri. Il che è vero, naturalmente.

Ma la mediazione può essere trovata in più modi. Si può cercare di accontentare tutti, o invece di non scontentare nessuno. Si può chiedere ai partiti di mettere da parte elementi divisivi o di bandiera, per consentire all’azione di governo di dispiegarsi lontano dai condizionamenti di parte. Oppure si può rimanere bloccati proprio dalle opposte rivendicazioni. Si può insomma agire, oppure non agire. Agire, e chiedere consenso intorno ai risultati della propria azione. Oppure sopire, solo per non perdere il consenso così difficilmente raccolto all’atto di nascita del Dicastero.

Il fatto è che al governo non ci sono solo partiti politici diversi, non solo il berlusconismo e l’antiberlusconismo, oppure la destra e la sinistra (e il centro). Ci sono anche forze che, volenti o nolenti, sono impegnate anche in una ridefinizione profonda della propria fisionomia politica e programmatica: sicuramente perché si trovano al governo con gli avversari di ieri, ma anche (e anzi soprattutto) perché quasi nulla del loro recente passato può essere traghettato nel futuro prossimo. Sia questo un governo di pacificazione, oppure di servizio, o anche solo di emergenza, si può già  escludere che, «dopo», in un dopo non si sa quanto lontano o vicino, si tornerà alla stessa dialettica di «prima».

La cosa è forse meno evidente nel centrodestra, dove la sindrome di accerchiamento giudiziario rende di fatto impossibile, per il momento, qualunque ragionamento diverso da un prolungamento della lunga stagione berlusconiana (di lotta o di governo non è dato sapere) È invece abbastanza evidente nel centrosinistra, che è entrato in questa ulteriore fase di transizione avendo bruciato con la sconfitta di Bersani l’ennesima leadership, e in cerca dunque di una nuova. Una ricerca che si somma alla necessità di dare un nuovo profilo ideale e culturale al Pd, e che di sicuro non terminerà prima del congresso. Con il rischio, dunque, che si accentui la necessità, per le diverse anime del partito, di posizionamenti distinti lungo le diverse linee di faglia che l’azione di governo dovrà fronteggiare. Che si tratti del lavoro, del confronto con le istituzioni europee, della ristrutturazione della spesa pubblica o anche solo degli F-35, probabilmente non c’è ancora – e forse non ci sarà fino al congresso – un solo Pd: a meno che Letta non metta davvero tutti a tacere, grazie ai risultati del suo governo. Tutti a tacere, però: non tutto sopire, come voleva il conte zio.

Il Presidente del Consiglio non ha infatti l’età né lo spirito del personaggio manzoniano; ma neppure, diciamolo, il carattere del nipote, il funesto Don Rodrigo. Ora non è che ci dobbiamo augurare di avere al governo un prepotente come quel volgare signorotto, molestatore di innocenti fanciulle: non sia mai! Ma quando il conte zio lo descrive con condiscendenza – giovane, vivo: «si sente quello che è», «ha sangue nelle vene» – viene da pensare che qualcosa del genere servirebbe al governo. Al governo, e pure al Pd, se Letta vuole tenere in mano le redini della situazione. 

(Questo articolo è stato pubblicato in prima sul Mattino il 27 giugno 2013)