Archivi tag: Epifani

Dal Pci al Pd, il partito divora i propri dirigenti

canen

Riavvolgiamo il film. Perché il partito democratico, con meno di dieci anni di vita, ha già una storia movimentata da raccontare. I segretari del Pd sono stati, finora, cinque: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani e, da ultimo, Matteo Renzi. Mai si è trattato di una semplice successione: a un leader fortemente legittimato dal percorso congressuale ha sempre fatto seguito una figura di compromesso, chiamato a gestire le dolorose dimissioni del predecessore, successive a una disavventura elettorale. Così è stato nel passaggio dal Veltroni a Franceschini, così anche nel passaggio da Bersani a Epifani: così potrebbe andare oggi, se Matteo Renzi presentasse davvero, in Direzione, le dimissioni da segretario del partito, in vista dell’indizione di un nuovo congresso.

Ma anche se così non fosse, resta il fatto che nei partiti democratici la soluzione inventata per scongiurare dilanianti lotte di successione, cioè la monarchia ereditaria, non è praticabile.  Non ci sono figli primogeniti, e i figli che ci sono amano sempre meno i padri.

Veltroni è il primo, nel 2007. Il partito democratico è appena nato, e l’ex segretario dei DS vince le primarie con un consenso largo, superiore al 75%. Unici avversari di peso sono Enrico Letta (11%) e Rosi Bindi (12%), ma il grosso della Margherita e dei DS si schiera con Veltroni. Più per necessità che per convinzione. La sorte del governo Prodi, sostenuto da una coalizione debole, eterogenea e rissosa, è già segnata, e Veltroni appare a molti l’unico dotato di un carisma più ampio rispetto alla base elettorale di provenienza. Questo è sempre stato un cruccio dello schieramento progressista: scegliere uomini che guardino al di là del recinto storico della sinistra. Così è stato per Prodi e l’Ulivo, in uno schema che prevedeva ancora un accordo di coalizione, e così è con Veltroni, che ha l’aura del democratico senza aggettivi (cioè senza connotazioni marcate di sinistra) prima ancora che i democratici nascano. Lui intona il mantra della «vocazione maggioritaria» e butta giù Prodi perché convinto di poter vincere marcando la discontinuità con il passato.

Infatti perde. Finisce (in compagnia dell’Italia dei Valori), dietro di quasi dieci punti rispetto alla coalizione di centrodestra.

Alla guida del partito Veltroni resiste un altro annetto, sempre più logorato dagli avversari interni, primo fra tutti D’Alema, che non gli perdonano di avere accelerato la caduta di Prodi e la fine della legislatura. La sconfitta alle regionali in Sardegna, a inizio 2009, è il secondo colpo che lo manda al tappeto.

Segretario diviene Franceschini, fino ad allora vice di Veltroni. Ma ci sono le elezioni europee a giugno: un po’ per questo, un po’ per timore di lacerazioni interne, Franceschini viene eletto dall’Assemblea nazionale e le primarie rinviate in autunno.

Sarà sfida con Bersani (e Ignazio Marino candidato di complemento). Vince Bersani, cioè vince la ditta. Ma quattro anni dopo è già l’addio. Anche questa volta ci vogliono due scosse per buttar giù il segretario. La prima sono le elezioni, che Bersani riesce a non vincere (il Pd scende al 25%). La seconda il naufragio delle candidature al Quirinale prima di Franco Marini, poi di Romano Prodi. Viene rieletto Napolitano, ma per Bersani è troppo: «uno su quattro ha tradito», ripete come un povero Cristo nel Getsemani, e tra i sospettati ci finiscono i renziani, che ne vogliono minare la leadership, ma pure D’Alema, che il segretario non aveva voluto lanciare nella corsa al Colle.

Il Pd riparte daccapo. Renzi, che aveva perso un anno prima la sfida con Bersani, diviene la sola carta da giocare. Il mantra è la rottamazione, e funziona. Renzi prende il 67% (Cuperlo il 18%, Civati il 14%). Il vento in poppa lo sostiene fino allo scorso anno, quando pure lui subisce la legge dei due rovesci. Il primo sono le amministrative; il secondo, micidiale, il referendum del 4 dicembre.

Non sappiamo ancora se quest’oggi Renzi manterrà le redini del partito o si tufferà in una nuova battaglia congressuale: quel che sappiamo è che la vicenda del Pd è comunque attraversata da un grande scialo di personale politico, che si consuma più rapidamente di quanto non accadesse un tempo. Non ci sono più i segretari a vita di una volta, questo è chiaro. Ma colpisce pure la debolezza del collante. L’addio di Civati o di Fassina nella stagione renziana valgono quanto l’addio di Rutelli con l’avvento di Bersani. E la ventilata scissione di D’Alema – con la nascita di ConSenso dalle ceneri della battaglia referendaria – vale quanto il varo dell’associazione Red, sempre ad opera di D’Alema, durante la segreteria Veltroni. Di questi movimenti si possono dare due spiegazioni.  Si può pensare che sono inevitabili in un partito che non riesce ad essere un vero soggetto collettivo, ma solo una macchina per selezionare rappresentanti. Con la conseguenza che quelli che non ce la fanno non trovano altre ragioni per restare e se ne vanno (o, se restano, remano contro). Oppure si può pensare che la politica non è uno sport per signorine, e tradimenti e regolamenti di conti sono per questo all’ordine del giorno. Nel Pd ma non solo. Come andò infatti con Alessandro Natta, che perse la segreteria del partito comunista mentre era ancora in ospedale, ad opera dei rottamatori d’allora, Occhetto, D’Alema e gli altri quarantenni? E cosa capitò a Achille Occhetto? Lui che si era spinto oltre le colonne d’ercole del ‘900, imponendo il cambio del nome ai comunisti, fallì a sorpresa il quorum dell’elezione a segretario durante il congresso del 1991, grazie a un’accorta regia dei suoi secondi, Veltroni e D’Alema in testa? I quali poi lo lasciarono lì, mezzo morto alla guida del partito, salvo presentargli il conto dopo la sconfitta con Berlusconi, nel ’94.

Insomma: con questa lista di precedenti, c’è poco da star sereni. La minoranza lo sa e sposta ogni volta un centimetro più su l’asticella delle sue richieste. Forse però oggi sapremo se questo gioco continuerà ancora a lungo, o se Renzi ha infine deciso di saltare.

(Il Mattino, 13 febbraio 2013)

La tattica dei conti rinviati

Immagine

Con l’accordo su Guglielmo Epifani il partito democratico prova a fare un primo passo dopo la crisi in cui è precipitato all’indomani delle elezioni. L’Assemblea Nazionale di oggi dovrebbe infatti votare il nome sul quale le diverse componenti del Pd hanno faticosamente trovato un’intesa, anche se, visto lo stato di salute del Pd, non si può escludere che qualcos’altro accada durante i lavori dell’Assemblea.

Un primo passo, ma in quale direzione? Tutta la discussione che è seguita alle dimissioni di Bersani è stata infatti condotta in cerca di un nome che non comportasse immediatamente scelte nette, che il Pd, evidentemente, in questo momento non è in grado di sostenere. Si è pensato perciò che di qui al prossimo congresso bisognasse affidarsi non a un segretario a pieno mandato, ma ad una figura la meno divisiva possibile, meglio se debole e politicamente non ingombrante, meglio ancora se disponibile solo per questa fase di transizione verso il congresso, e indisponibile a proseguire oltre. Alla fine la scelta è caduta su Epifani, figura più che dignitosa, con una storia sindacale e politica importante; ma basta guardare ai nomi circolati nelle ore che hanno preceduto l’accordo per rendersi conto di quali siano state le preoccupazioni e i motivi che hanno ispirato la scelta. In cerca di un traghettatore, di un reggente, o di una qualunque cosa non somigliasse a un segretario politico, il Pd ha provato a  accordarsi su nomi come quelli di Roberto Speranza o di Enzo Amendola, che indicavano una continuità netta con la segreteria uscente, ma avevano il pregio di non essere esponenti di primissima fila. Speranza, in realtà, essendo già stato promosso a capogruppo alla Camera, aveva ogni buona ragione per non avventurarsi in un incarico a tempo, da consumarsi preferibilmente entro una scadenza ravvicinatissima: era il primo a non crederci, insomma, e a non volerlo. Amendola, segretario dimissionario del Pd campano che non ha certo brillato nel risultato elettorale, poteva essere tuttavia il prescelto per la sua funzione semi-istituzionale di coordinatore nazionale dei segretari regionali – una carica, peraltro, che solo l’ubriacatura ideologica federalista, che in questi anni ha tramortito l’Italia (non solo il Pd), può spiegare, ma che non ha lasciato tracce visibili nell’organizzazione di partito: nonostante questo, o forse proprio per questo, è stato per qualche ora fra i papabili. Anche perché nel frattempo cadevano le candidature di Vannino Chiti o di Anna Finocchiaro, nomi questi di maggiore peso e sicuramente meglio profilati. Ma per la singolare legge della proporzionalità inversa fra peso politico e opportunità che in questo momento di disorientamento il Pd ha creduto di applicare, non potevano fare al caso. Alla fine il pendolo si è fermato sul nome di Epifani. Qualcuno deve essersi reso conto che anche all’autolesionismo c’è un limite.

Epifani, cioè il capolista del Pd a Napoli, insieme a Enrico Letta: a giudicare dalle responsabilità alle quali sono chiamati, si direbbe che da queste parti il Pd sia andato benone! E invece non è così, ma il fatto è che questa decisione non consegue ad un’analisi del voto, men che meno da una discussione sulle strategie adottate e su quelle da adottare, ma solo dall’intenzione di rinviare tutto al congresso. Al momento, non è nemmeno chiaro quali decisioni l’Assemblea prenderà sui nodi rimasti aperti, cioè sui tempi e le modalità di svolgimento del congresso. Il tratto politico più evidente che si accompagna alla scelta di Epifani – salvo sorprese dell’ultima ora, o dell’ultimo militante del Pd che dei primi prende a fidarsi sempre meno – è la continuità con la precedente segreteria. E in effetti, nonostante il tourbillon di nomi circolati, da questa esigenza di continuità il Pd non si è mai discostato.

Sembra incredibile, ma è così. Il Pd di Bersani si è comportato – e scegliendo ancora la continuità si sta comportando – come quel corridore che, tagliato il traguardo, continua la corsa ancora per qualche metro, prima di fermarsi del tutto. Solo che, quando vince, quello è il tempo in cui piovono gli applausi del pubblico; ma piove ben altro quando invece ha «non vinto». Un’espressione, quella usata da Bersani, che con qualche cattiveria si potrebbe tradurre così: il Pd ha perso a sua insaputa.

E davvero ha proseguito poi, nelle settimane successive, nell’insaputa generale. Come se non sapesse che con Grillo non avrebbe potuto mai stringere accordi, Bersani lo ha perseguito per più di un mese. Come se non sapesse che, se una possibilità c’era di fare un accordo coi Cinque Stelle, passava per un suo passo indietro, ha invece chiesto per sé l’incarico. Come se non sapesse che nessuno avrebbe creduto a un accordo su Franco Marini che non si ripercuotesse sul governo, ha sostenuto che si poteva dialogare con Berlusconi sulla presidenza della Repubblica in uno spirito puramente istituzionale, salvo essere smentito da Marini medesimo, che in un’intervista ha dichiarato il contrario. Come se non sapesse che, a quel punto, ripiegare su Prodi avrebbe comportato una piroetta di 360º, che nessun partito può compiere come un sol uomo in poche ore, ci ha provato lo stesso, portando il Pd alla disfatta.

Come se non sapesse tutto questo, e come se non fosse urgente dotarsi di una piattaforma politica chiara – perché si può fare il governo anche con Belzebù, ed anzi lo si è fatto, ma dentro una strategia politica e non in stato di necessità, senza avere più il coraggio di rivendicare nulla – l’Assemblea è chiamata ad avallare una linea di continuità non per convinzione, ma per mancanza di alternative.

Così succede che le alternative si formano, ma fuori dall’Assemblea. Renzi, infatti, si tiene alla larga. E D’Alema sta a Barcellona, e non sa se arriverà, anche perché ormai, così dice, ha il «core business» all’estero. E se è vero quello che ha raccontato Peppino Caldarola, che D’Alema rinviò a gennaio la presentazione del suo ultimo libro per non fare ombra a Bersani nel duello con Renzi, forse si può dire che, oggi, le ombre tornano ad allungarsi: il rinvio è finito, e quello che dovrebbe essere un primo passo ha invece il sapore dell’ultimo, fatto inutilmente dopo la «non vittoria» sulla linea del traguardo.

Il Mattino, 11 maggio 2013