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Erri, l’assoluzione e le parole sbagliate

Acquisizione a schermo intero 20102015 153225.bmpLe parole pronunciate da Erri De Luca prima della sentenza meritano un commento, ed è una fortuna – anzi: una gran bella notizia – che lo scrittore napoletano sia stato assolto dall’accusa di istigazione al sabotaggio: la vicenda processuale finisce in un nulla di fatto, e rimane la possibilità di discutere delle parole. Poiché le parole sono importanti – come De Luca non manca di sottolineare – non sarà una discussione inutile.

De Luca ha detto ieri due cose: la prima è che c’è la Costituzione, la quale all’articolo 21 afferma il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Persino a De Luca è tuttavia chiaro che oltre alla Costituzione c’è il codice penale, ma per lo scrittore l’articolo che lo doveva riguardare è di dubbia costituzionalità. Pure, egli non ha voluto che fosse dai suoi avvocati sollevato formalmente  il dubbio: la Costituzione – ha detto – «si difende al piano terra della società», l’eventuale ricorso avrebbe portato la discussione in una camera di consiglio in cui non si sarebbe sentita la voce del popolo. E sia.

La seconda cosa che ha poi detto concerne il verbo incriminato: sabotare. De Luca ha orogogliosamente ribadito il suo pensiero: la TAV va «intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua». E ha rivendicato la parola «nel suo significato più efficace e ampio», ricorrendo al quale ha ritenuto di avere tutto il diritto di esprimere il suo «sostegno verbale a un’azione simbolica». Qui però casca l’asino (cascava pure prima, ma qui casca di più).

Nonostante la puntigliosa difesa delle parole, De Luca, infatti, le cambia un po’. Un’astuzia che non gli fa onore. Nell’appassionata difesa non violenta di ieri, per la quale ha pensato bene di scomodare persino Mandela e Gandhi, ha infatti furbescamente derubricato il sabotaggio da lui appoggiato verbalmente ad «azione simbolica»: una cosuccia dimostrativa, insomma. In passato, De Luca ha fermamente sostenuto tutt’altro, che cioè quando è minacciata la nostra salute «qualunque forma di lotta» è lecita: mica solo la lotta simbolica. D’altra parte, il sabotaggio simbolico, condotto con azioni simboliche, magari da grandi uomini simbolici come lui, non avrebbe bisogno di accampare la legittima difesa, cosa che invece De Luca fa, come se si trattasse di opporre eroicamente violenza (di inermi cittadini) a violenza (dei poteri dello Stato). Bisognerà allora che De Luca dia una nuova intervista – siamo certi che le occasioni non gli mancheranno – in cui chiarire se il sabotaggio che sostiene verbalmente è un sabotaggio simbolico o un sabotaggio reale, o forse simbolico in tribunale e reale in Val di Susa.

Ma il significato della parola che ha inteso usare è quello «più efficace ed ampio». La qual cosa deve significare: prendete il vocabolario, notate pure che una stessa parola ha accezioni diverse, alcune proprie altre meno proprie, e lasciate a me di prendere quello che più mi aggrada: quello ampio. Il che ci sta. Non però fino al punto di fare come Humpty Dumpty, quel bizzarro personaggio delle storie di Alice che cambiava i significati alle parole come gli pareva e piaceva. Neanche uno scrittore se lo può permettere. Nemmeno uno scrittore assurto a simbolo. I significati, infatti, sono pubblici, e lo stesso vocabolario (come la lingua) è un’istituzione sociale. E dunque: se capita che il codice chiami sabotaggio un certo tipo di azioni, e provi a darne una definizione stretta – proprio per sottrarre al capriccio l’incriminazione di una condotta – appellarsi ai significati più ampi e parlare di azioni simboliche quando si finisce sotto processo è un po’ ciurlare nel manico, si sia o no scrittori. Se De Luca sosteneva azioni simboliche, come oggi dice, chiedeva evidentemente ai sabotatori di non essere preso troppo alla lettera: solo che non aveva l’onestà intellettuale di dire la cosa così, con questa chiarezza. Lui ha buttato lì la parola sabotaggio, nel significato ampio, e pazienza se altri l’hanno intesa o la intendono in un’accezione più stretta. Lui dice oggi che se ne viene simboleggiando, e pazienza se altri lo prendono in parola. Questa sarà anche libertà di parola, ma somiglia anche ad un piccolo imbroglio.

Basta: De Luca andava assolto perché il fatto non sussiste, e perché non si fa una gran figura a inseguire in tribunale simili peripezie verbali. Ma la discussione sulle parole vale per smascherare le pose dello scrittore, che avrebbe benissimo potuto (e certo ancora potrebbe) mostrare tutta la sua solidarietà ai manifestanti della Val di Susa senza sentire conculcata la libertà di parola: sua e di nessun altro. E le tirate sulla Costituzione possono pure esserci risparmiate, tanto più che dell’articolo del codice penale che fa inorridire De Luca i giuristi discutono da gran tempo, senza aver bisogno di testimoni attempati che dimostrino quanto sia difficile inquadrare le condotte sotto la fattispecie in questione. E anche questa idea che le questioni costituzionali siano roba da legulei, che non c’entrano nulla col parlar franco di uno scrittore o con le pratiche di resistenza di un popolo, beh: suona come uno spaventoso passo indietro sul piano della civiltà giuridica, anche se forse piace agli inventori di simboli.

Insomma, dica De Luca quel che vuole, scandisca pure forte le sue parole contrarie, ma lasci perdere tutto il resto: la libertà la Costituzione e i poteri dello Stato, che stanno decisamente su un altro piano. Lo Stato, quello Stato violento che lui combatte, lo ha mandato assolto.

(Il Mattino, 20 ottobre 2015)

I predicatori della violenza

Acquisizione a schermo intero 28012015 163437.bmpCi risiamo. La domanda è: «La violenza può ancora essere uno strumento politico?». E la risposta giunge forte e chiara: «Sempre. Da una parte e dall’altra». Sempre; non ogni tanto, non sotto un regime dittatoriale, non per legittima difesa: sempre. Una risposta così drastica non poteva venire che da uno scrittore autentico, anzi dal più autentico degli scrittori, da Erri De Luca, in tutte le librerie col suo ultimo libro e quest’oggi a processo per l’invito al sabotaggio dell’Alta Velocità in Val di Susa. Naturalmente, il processo è una cosa, l’intervista di ieri al Corriere un’altra. Il processo non potrà dimostrare che le parole dello scrittore hanno provocato azioni violente e illegali di cui De Luca sia responsabile, e perciò finirà giustamente con l’assolverlo da ogni accusa; l’intervista, invece, dimostra a sufficienza come De Luca la pensi, a proposito dell’uso della violenza e del suo rapporto con la politica. E cioè: peggio, molto peggio di come possa pensarla Luca Persico, la voce del gruppo musicale dei 99 Posse, che in rete aveva scritto: «Onore a chi lotta. Più bastoni meno tastiere!». Era una risposta (decisamente sopra le righe) al pestaggio subito da un ragazzo cremonese per mano degli attivisti di Casa Pound, ma Persico ha poi cercato almeno di metterci una pezza: ha definito infelici le sue parole, e ha aggiunto che non intendevano affatto istigare alla violenza.

Erri De Luca no. Lui tiene il punto. Sollecitato dal giornalista, proprio non gli riesce di prendere le distanze: né dalle parole di Persico, né tantomeno dalle sue proprie. Sabotaggio aveva detto, e sabotaggio ha da essere. Poi ricorre alla solita furbizia (dopo tutto c’è un processo che lo aspetta) e prende a chiamare sabotaggio ogni e qualunque cosa, in modo che non si capisca più se l’uso della parola sia metaforico e letterale, e il sabotaggio fisico o simbolico, materiale o ideale. E così non indietreggia ma mistifica, non ritratta ma imbroglia.

Ora, i funambolismi di De Luca, che non si spinge fino a dire di condividere le parole di Luca Persico ma non riesce nemmeno a dire che non le condivide, anzi tiene a precisare che le comprende, anzi le infiocchetta persino con la citazione della Marsigliese – la quale non invita forse i cittadini a prendere le armi? E così siamo a posto: se lo dice la Marsigliese, lo può ben dire chiunque! – quei funambolismi da indomabile reduce degli anni Settanta e della violenza politica di quegli anni ricordano vecchi tic ideologici che nell’intervista si vedono bene. Si vedono tutti. Cosa De Luca vuole farci capire, infatti? Che lo Stato è violento, e forse è il più violento: «Esiste una violenza pubblica che scatena reazioni inevitabili». Esiste, e non è possibile subirla senza reagire. L’assalto alla Polizia che non ha impedito il pestaggio del ragazzo di Cremona va dunque rubricato sotto la voce: reazione inevitabile. E sotto la stessa voce vanno rubricate anche le violenze in val di Susa. Reazione è la frase di Luca Persico, e reazione era pure l’istigazione al sabotaggio per la quale va a processo.

Reazione inevitabile, e reazione ovviamente giustificata. Violenza l’una, e violenza l’altra: sempre, da una parte e dall’altra, la violenza può intervenire e di fatto interviene come strumento politico. Erri De Luca tiene a dire che il suo passato di militante di Lotta Continua non c’entra nulla col processo, e ha ragione. Però le parole dell’intervista c’entrano, e come: un militante di Lotta Continua avrebbe ben potuto farle proprie allora, come De Luca le fa proprie ancora oggi. Sono passati – quanti anni? Quaranta? Cinquanta? – e lo Stato democratico non ha guadagnato agli occhi dell’inflessibile scrittore un solo grammo di legittimità in più. Non c’è la minima confidenza nelle istituzioni parlamentari, nello Stato di diritto, nei tribunali e nelle leggi. Nella maniera in cui De Luca descrive il comportamento delle forze di polizia, che difende i cantieri della Val di Susa, e quelli dei manifestanti che vogliono sabotarli, non c’è alcun cenno al fondamento si legittimità dell’una azione a differenza dell’altra. Al diritto con il quale agiscono gli uni, e all’assenza di qualunque spazio giuridico per il sabotaggio compiuto dagli altri. Allo stesso modo: all’aggressione subita non si risponde per le vie di legge, ma evidentemente nell’unica, inevitabile maniera che De Luca conosce:  inneggiando ai bastoni, rispondendo colpo su colpo, pestando a propria volta. Luca Persico ha capito di avere passato il segno con quella provocazione; Erri De Luca no, perché in tutta la sua storia intellettuale deve essergli rimasta l’idea che diritto e legge sono solo violenza organizzata. Sono, in ultima analisi, fascisti. E, se è così, va bene: ma che almeno ci risparmiasse la pensosità dello scrittore estremo responsabile delle sue parole. Forse la violenza è inevitabile, ma che ci eviti almeno di farci pure la morale.

(Il Mattino, 28 gennaio 2015)

Le parole sbagliate non portano in cella

ImmagineDi qui al 5 giugno tocca stare con Erri De Luca. È una settimana, si può fare. Tocca stare con lui perché per quel giorno è fissata l’udienza preliminare nel procedimento in cui lo scrittore napoletano è imputato per istigazione a delinquere. La sua incitazione al sabotaggio del progetto Alta Velocità in Val di Susa non è infatti passata inosservata: ha anzi innescato un processo penale, e il 5 giugno si va in udienza. D’altronde, il contesto ambientale in cui il cantiere va avanti è ancora surriscaldato abbastanza perché il delicato invito di De Luca a invadere, occupare o danneggiare scientemente l’opera – questo è il sabotaggio, secondo il codice attualmente in vigore – ricevesse l’attenzione della magistratura. È lecito tuttavia dubitare che De Luca si augurasse il contrario, che cioè sperasse in qualche superficiale alzata di spalle, o che non lo si prendesse seriamente, magari con la scusa che quelle dello scrittore sono ardite metafore, o forse solo parole in libertà, dette con leggerezza e prive di peso. Parole, insomma, da non prendersi alla lettera, frutto magari dell’estro poetico e  letterario di un artista, e non attentamente ponderate. Forse a processo sarà proprio questa la linea difensiva di De Luca. Ma se invece egli tiene alla sua arte, oltre che alla coerenza delle sue parole, deve essere ben contento che qualche magistrato, avendolo sentito spronare i più esagitatori oppositori della Tav perché passassero alle vie di fatto, abbia ritenuto di processarlo.

Comunque sia, i suoi amici non sono affatto contenti (e noi con loro). È orribile, essi dicono, che uno scrittore sia in stato d’accusa per un reato d’opinione. Per il giorno dell’udienza, sono così previste pubbliche letture delle opere di De Luca: a Roma, a Napoli, a Bari e in molte altre città. L’argomento pare essere il seguente: se le parole di De Luca sono pericolose, allora ci autodenunciamo, prendendo le parole dai suoi libri e leggendole a gran voce. È un buon argomento: i libri non si bruciano, gli scrittori non si mandano in carcere. Questo, almeno, in un orizzonte giuridico liberale di cui De Luca probabilmente manca di riconoscere o di rispettare qualche elemento basilare, visto che consiglia azioni di sabotaggio per fermare l’Alta Velocità. In quell’orizzonte, è effettivamente possibile che uno scrittore mostri a parole di fregarsene altamente della legalità democratica. Ma in tal caso la cosa migliore che ai pubblici poteri conviene fare è di fregarsene altamente delle intemperanze verbali dello scrittore. Anche solo per evitare che assuma pose da martire della libertà. Quelle che, peraltro, ha già cominciato eroicamente ad assumere, annunciando che in caso di condanna non ricorrerà in appello. Probabilmente De Luca, gran cultore di cose bibliche, immagina di avere nello Stato il suo personalissimo gigante Golia da abbattere (cioè da sabotare) fiondandogli contro le sue parole dure come pietre. Lo faccia pure: ognuno ha le sue ossessioni. E fino al 5 giugno ci asterremo finanche dal giudicarle. Ma appena si chiuderà con un nulla di fatto la vicenda processuale, come ci auguriamo vivamente, torneremo a pensare che incitare al sabotaggio è un pessimo modo di usare la libertà di opinione che in uno Stato liberale (e solo in uno Stato liberale)  è e deve essere garantita a tutti.

(Il Mattino, 30 maggio 2014)

Accettare le regole della legalità senza zone d’ombra

ImmagineDei tanti modi in cui il vicesindaco Sodano poteva cercare conforto alla sua posizione, quello che ha scelto non è certo il migliore. Poteva, come ha fatto, spiegare le circostanze e raccontare di come, durante un consiglio comunale a Pomigliano, avvenne il parapiglia che gli è costato una denuncia e una condanna in primo grado per minacce, violenza ed aggressione ad una vigilessa. Poteva, come ha fatto o farà, ricorrere contro la sentenza di primo grado, e giudicare strumentale l’intera vicenda penale che seguì i tafferugli. Poteva, come ha scritto, rivendicare la battaglia politica condotta allora, da consigliere di opposizione, per fermare nuovi insediamenti di centri commerciali. Tutto questo poteva farlo e lo ha fatto, con coerenza rispetto al suo proprio passato e alle sue idee: gliene si può dare atto. Quello che sarebbe stato meglio non fare, tuttavia, è affiancare la sua vibrante protesta di allora alle proteste di oggi contro il Tav, in Val di Susa, e mettere le une e le altre sotto il denominatore comune della disobbedienza civile, e sotto questo nobile cappello citare non solo don Milani o la filosofa Hannah Arendt, ma pure Erri De Luca, che del sabotaggio dell’Alta Velocità è diventato ormai l’autentico paladino.

Il conforto, infatti, il vicesindaco di Napoli non lo ha trovato solo nelle ardue teorie sul diritto di resistenza, ma nel magistero esercitato da De Luca nelle aule universitarie milanesi, dove ha solennemente detto che  «l’essere incriminati di resistenza è un titolo di onore cittadino e va rispettato. Ogni volta che c’è un nuovo arresto, si allarga l’albo dei resistenti. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciar passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza».

Ora, lasciamo perdere che sotto «l’insulto, l’infamia, l’oppressione e la violenza» che indignano De Luca stanno le decisioni magari sbagliate ma democraticamente assunte dall’autorità pubblica, così come sta pure l’azione della forze dell’ordine e della magistratura, che hanno il dovere di fermare quanti in Val di Susa trasportano molotov, fionde, cesoie e altro materiale: tutto quello che in altra, recente occasione De Luca ha giudicato «necessario» per l’opera di sabotaggio dei cantieri. Lasciamo perdere pure l’allarme dei servizi di intelligence, e se sia vero che la pericolosità delle azioni antagoniste sia cresciuta, e, ancora, se la lotta abbia assunto un significato politico generale, di contestazione globale al «sistema» piuttosto che di tutela della salute e dell’ambiente. Lasciamo perdere tutto ciò che, però, Tommaso Sodano dovrebbe invece tenere presente, essendo ormai un uomo delle istituzioni: De Luca, infatti, lui può anche dire, con ghigno beffardo, che non conosce la lettera inviata da Napolitano al quotidiano La Stampa (dopo il pacco bomba al cronista della Val di Susa), perché non segue «la letteratura delle autorità», ma Sodano, che è un’autorità, quella letteratura non ha il dovere di seguirla un po’ di più?

Ma – ripeto – lasciamo perdere. E stiamo alla celebrazione del diritto di resistenza dello scrittore partenopeo, alla «medaglia al valor civile» per i resistenti arrestati. Ora, è la logica che ci soccorre: De Luca dice che essere arrestati è un onore, ma come la mette allora Sodano, che non si sente affatto onorato dalla condanna comminatagli? La disubbidienza civile, se proprio ad essa vogliamo richiamarci, comporta infatti che si affrontino le conseguenze dei propri atti, non invece che ci si ribelli ad esse. Sodano può ben dire che nulla, nella sua storia personale e politica, ha a che fare con la violenza: non c’è motivo per non credergli. Ma allora cosa c’entrano con la sua appassionata difesa i sabotaggi della Val di Susa e il rifiuto dell’autorità dello Stato? Certo, la legalità democratica può rivelarsi insufficiente, ottusa, persino ingiusta, ma se non se ne contesta la legittimità – come fa Erri De Luca, e come un vicesindaco di una città problematica come Napoli non può fare – bisogna accettarne le regole. Si può obiettare civilmente («civilmente»: sottolineiamolo, perché è importante) ma poi bisogna scegliere in quale albo si vuole essere iscritti: in quello che continua ad aggiornare Erri De Luca, a parecchi decenni di distanza dalla sua esperienza in Lotta Continua, o nell’albo degli amministratori di una città che con la legalità è meglio scherzi il meno possibile. Questa scelta sarebbe di conforto che Sodano la facesse con maggiore chiarezza.

(Il Mattino, 7 ottobre 2013)