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Se il Pd si smarca e punta sull’Europa alla Macron

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«Cari amici, non ci sono amici»: Renzi avrebbe potuto citare Aristotele, ieri in Direzione, per fotografare il momento che il Pd attraversa. Si decidono alleanze, candidature, collegi, ma c’è poco di amichevole nelle decisioni che Matteo Renzi è chiamato a prendere. Anche perché il cuore della sfida è altrove. E non ci sono amici, che si siano legati indissolubilmente al segretario: le minoranze interne di Orlando e Emiliano avranno le loro quote di candidati, sulla base dei risultati delle scorse primarie, e sulla base dei sondaggi accreditati in queste ore si chiuderà l’accordo con le liste minori: +Europa di Emma Bonino e Bruno Tabacci, Insieme con socialisti verdi e prodiani, Civica popolare dei moderati guidati da Beatrice Lorenzin. Ma ben poco di queste diverse forze, personalità e formazioni rimarrà vicino a Renzi, se le cose non dovessero andare per il verso giusto. Renzi questa battaglia deve vincerla altrove. Contano dunque i nomi, contano le liste, ma conta di più, per il partito democratico, riuscire a imporre all’attenzione del Paese il senso della partita che ha annunciato in Direzione: «insistere sull’Europa come punto di riferimento, senza le fughe dei ‘boh euro’ o ‘no euro’ che mettano in discussione l’appartenenza a questa grande storia».

È qualcosa di diverso da una rivendicazione dei risultati dell’azione di governo. Che d’altra parte non è mai stata premiata lungo tutto il corso di questi anni: non c’è stato un governo o una coalizione che sia riuscita a bissare il successo di un’elezione, confermandosi al governo dopo il voto. Non è mai riuscito né al centrodestra né al centrosinistra. Ci vuole dunque dell’altro. E il terreno scelto da Renzi è effettivamente quello che meglio traccia una linea di demarcazione fra il partito democratico e le altre coalizioni. Perché la Lega nutre una chiara ostilità nei confronti dell’ideologia europeista, non solo delle politiche, e anche i Cinque Stelle nutrono diffidenza (ricambiata) nei confronti di Bruxelles. C’è poi il precedente di Macron, che è riuscito a conquistare l’Eliseo su posizioni profondamente europeiste, contro l’euroscetticismo di Marine Le Pen. Replicare quello schema è dunque l’ambizione di Renzi.

Per riuscirci, occorre però una mobilitazione politico-simbolica di cui finora il discorso sull’Europa è stato privo. Renzi ne è consapevole, ed è per questo che ha insistito sull’elezione diretta del presidente
della Commissione, con «l’accorpamento in una stessa figura del ruolo del presidente della Commissione e del presidente del Consiglio». Ma che una simile proposta di riforma delle istituzioni europee riesca ad infondere quell’«elemento emozionale» che ci vuole per vincere le elezioni è abbastanza improbabile.

Che cosa significa Europa? Regole sulle banche, moneta unica, vincoli di bilancio? Agli occhi di una larga parte del Paese, l’Europa ha questo volto. Mettergli a fianco un’idea di libertà, una speranza di progresso, una condizione di prosperità si è fatto sempre più complicato. È difficile immaginare un altro terreno sul quale i democratici possano far valere il loro profilo politico-programmatico, ma è altrettanto difficile immaginare che questo terreno sia largo a sufficienza.

Eppure è chiaro che il nodo della collocazione dell’Italia nell’Unione europea è essenziale per l’implementazione di qualunque, seria politica economica. Immaginare che, nell’attuale reticolo di norme, interessi e rapporti che ci legano al continente, si possa vivere in una specie di sogno autarchico è del tutto vano. Oppure serve soltanto a alimentare un concetto distorto e anzi finto della sovranità nazionale, come fanno i cosiddetti sovranisti.

Dopodiché però siamo alle solite: può riuscire il partito democratico di Renzi a portare su posizioni di europeismo spinto la maggioranza del Paese, attaccando l’inaffidabilità dei Cinque Stelle da una parte, l’implausibilità della coalizione di centrodestra dall’altra? Porre questa domanda oggi, dopo una Direzione dedicata alle più prosaiche vicende delle deroghe per i ministri o alla mappa dei collegi sicuri, quasi sicuri o meno sicuri è forse incongruo. Ma non sempre la soluzione dei problemi politici si trova nella feconda bassura dell’esperienza, tra grassi portatori di voti e timorosi deputati uscenti; qualche volta bisogna pur provare ad appenderla al cielo di un’idea.

(Il Mattino, 18 gennaio 2018)

L’Europa à la carte dei 5 Stelle

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Ora Luigi Di Maio pensa che non sia più il momento di uscire dall’euro. Non è ultimo dei repentini mutamenti di rotta del Movimento Cinque Stelle, e non sarà certo l’ultimo. Semplicemente, sta accadendo che per il Movimento la possibilità di andare al governo del Paese si avvicina, e le posizioni più dirompenti si mutano in più realistiche valutazioni di opportunità. Ieri bisognava lasciare l’euro, oggi non più. Ieri bisognava indire un referendum per far decidere gli italiani, oggi il referendum viene derubricato a “extrema ratio”: non una cosa che bisogna fare per rispettare religiosamente la sovranità del popolo – anzi: l’espressione diretta della sua volontà –, ma l’ultima delle strade che a malincuore un governo pentastellato percorrerebbe, se proprio nulla in Europa dovesse cambiare.

Si può leggere questo evidente cambiamento di linea politica in due modi: come una prova della definitiva maturazione del Movimento, della progressiva marcia di avvicinamento alle istituzioni e dello stemperarsi dei più accesi ardori populisti e antisistema, oppure come ennesima dimostrazione dell’inaffidabilità di una formazione politica, che riesce a dire tutto e il contrario di tutto, a giocare più di una parte in commedia, a mutare il proprio profilo a seconda delle circostanze, delle conveniente, dei sondaggi.

Di Maio giustifica questa svolta così: l’Europa del 2013 non è l’Europa del 2018. Il che è vero, naturalmente. Si può però ipotizzare che anche l’Europa del 2023 sarà diversa da quella di oggi. Oppure, senza aspettare tanto, che l’Europa del 2021, quella che dovrà dotarsi di un nuovo bilancio, sia ancora ben lungi dall’avere un profilo, e non è detto affatto che, quando l’avrà, somiglierà all’Europa che oggi Di Maio vede cambiata. Oppure ancora che l’Europa delle prossime elezioni europee, quelle del 2019, sarà diversa sia da quella delle precedenti elezioni del 2014, che, di nuovo, dall’Europa odierna. Cosa dobbiamo attenderci allora, dai Cinque Stelle, dinanzi a tutte queste scadenze? Quante svolte ci saranno ancora?

Il fatto è che l’ancoraggio europeo non può non costituire una scelta strategica fondamentale, durevole e di lungo periodo. In grado di reggere dinanzi ai cambiamenti di ciclo politico. Oggi Di Maio scopre una Germania più debole, per via delle difficoltà della Merkel nel formare un governo. Ma se, dopo il congresso dei socialdemocratici, le trattative in corso sfoceranno nella riedizione della Grosse Koalition fra Cdu e Spd, Di Maio cosa farebbe: tornerebbe a ventilare la possibilità di un’uscita dalla moneta unica? Mentre nota l’impasse politico in Germania, Di Maio, peraltro, non mostra affatto di accorgersi che in Francia è stato eletto Macron, sulla base di una forte vocazione europeista, rilanciata con accenti ispirati nello scorso settembre, con l’ormai celebre discorso alla Sorbona: su questo, il candidato premier dei Cinque Stelle non dice nulla, e dunque non fa capire se, referendum sull’euro a parte, ha in animo di condividere e sostenere l’impegno del Presidente francese per un rilancio del percorso di integrazione europeo.

In realtà, il referendum non è l’unica cosa che i Cinque Stelle dovrebbero mettere da parte, se volessero fare dell’ultima presa di posizione di Luigi Di Maio qualcosa di diverso da un furbesco appeasement con l’establishment, pronunciato per motivi principalmente elettorali.

Perché mentre Di Maio lascia scivolare molto sullo sfondo l’arma fine-di-mondo del referendum (che sarebbe solo consultivo, ma non consulti decine di milioni di persone se poi non vuoi fartene nulla di un tale consulto), i Cinque Stelle in Europa continuano a sedere nel gruppo politico guidato da un certo Nigel Farage, il leader dell’Ukip, fra gli attori principali della Brexit. Proprio la vicenda della collocazione nel Parlamento europeo è stata massimamente indicativa: prima corrispondenza di amorosi sensi con l’antieuropeista Farage, difeso a spada tratta contro la cattiva stampa di cui godrebbe immeritatamente; poi, per un attimo e con una giravolta davvero sorprendente, in realtà semplicemente opportunistica, con i liberali dell’ultraeuropeista Guy Verhofstadt: una posizione che più antipodale non si potrebbe. Quindi daccapo, come il figliuol prodigo, con il focoso leader britannico, insieme al quale i grillini continuano a votare, trovando nell’euroscetticismo il più ampio dei comuni denominatori disponibili a Strasburgo.

Forse l’unica cosa certa, in questo disinvolto ondeggiare, è che Di Maio non ha molta voglia di confrontarsi su questi temi, e preferisce sgombrare il terreno da insidie e polemiche, che distoglierebbero l’attenzione dell’opinione pubblica dai cavalli di battaglia del movimento. Col che però si dimostra che non è certo l’europeismo, e nemmeno l’antieuropeismo, la ragione per cui Di Maio vuole andare a Palazzo Chigi. Ma può la questione dell’integrazione europea rimanere ai margini del dibattito pubblico, o essere trattata.

(Il Mattino, 10 gennaio 2018)

Tutto è bene quel che finisce bene. La pratica «firme per la presentazione delle liste» può essere archiviata grazie all’aiuto dei centristi di Bruno Tabacci, e la strada verso un accordo politico con il partito democratico si presenta adesso in discesa. Che non ci fosse, però, solo un problema tecnico dietro le fibrillazioni degli ultimi giorni è parso palese, quando la Bonino ha tenuto a precisare che in base alla legge vigente la presentazione in coalizione non richiede la condivisione di un programma politico. È così: basta vedere del resto il centrodestra, dove sono addirittura i due principali partiti, Forza Italia e la Lega, a doversi misurare con differenze programmatiche importanti, benché sia ormai data per fatta la coalizione.

Ciò detto, la domanda è tuttavia: che cosa c’è nel programma politico della lista +Europa, che la Bonino guida e anzi impersona, che potrebbe entrare con difficoltà in dialogo con i democratici? Non certo i temi europei. La lista +Europa vuole rappresentare la punta più avanzata dello schieramento europeista, quella che darebbe ogni volta ragione a Bruxelles piuttosto che a Roma. O che perlomeno rifiuta di considerare le istituzioni europee come il capro espiatorio sopra il quale scaricare tutto il peso delle contraddizioni che la politica italiana si porta dietro fin dai tempi di Maastricht: sempre europeisti a parole, spesso inadempienti nei fatti. Ma su queste posizioni c’è in realtà una convergenza di fondo col Pd, che non dubita affatto della necessità di una maggiore integrazione, che non ha alcun dubbio sulla irreversibilità della scelta per la moneta unica, e che dunque può consentirsi più o meno dialettica con la Commissione e i partner europei dentro una cornice che non viene mai messa in discussione: quella dei Trattati, e del modo in cui progredire in vista di un rafforzamento delle politiche comunitarie. Se mai, al centrosinistra manca in questo momento la capacità di trasformare il capitolo Europa nel capitolo decisivo, discriminante fra le forze politiche. L’opinione pubblica appare abbastanza disinteressata, al punto che nel centrodestra possono stare tranquillamente insieme le posizioni pro e contro dei popolari e dei populisti, di Forza Italia e Lega, senza il timore di subire uno scotto in termini elettorali. E gli stessi Cinquestelle, partiti lancia in resta contro l’Euro con la proposta di un referendum, oggi relegano la faccenda a margine rispetto alle battaglie principali che conducono: in nome dell’ambiente, del reddito di cittadinanza, della lotta contro gli sprechi e i privilegi. Chi vota centrosinistra dà sicuramente un voto europeista, e l’alleanza con la Bonino ne dà ulteriormente conferma, ma la capacità di mobilitazione su questi temi non appare, al momento, davvero dirimente.

Che altro, allora? Che cos’altro significa “più Europa”? Due cose, essenzialmente. Una è legata allo storico impegno dei radicali sul tema dei diritti civili, e alla figura stessa di Emma Bonino, che da commissaria europea si è molto impegnata sul fronte dei diritti delle persone migranti. Anche su questi temi c’è una consonanza di fondo coi democratici, sebbene sentir parlare la Bonino non è proprio come sentir parlare il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ma il Pd è stato, in questa legislatura, il partito del testamento biologico, del divorzio breve, delle unioni civili, e da ultimo anche dello ius soli, sebbene non sia riuscito a far approvare la legge. Un denominatore comune, anche in questo caso, c’è.

L’altro asset che la lista +Europa getta nella battaglia elettorale viene invece dalla sua componente liberale e liberista. E qui le cose filano forse meno lisce. Nelle scorse settimane, Emma Bonino ha formulato la proposta di congelare la spesa pubblica al livello nominale del 2017 per tutta la durata della prossima legislatura, per avviare in questo modo una significativa riduzione del deficit. Dato l’aumento della spesa pensionistica nel prossimo triennio, questo significa prevedere tagli di spesa di 10 miliardi il prossimo anno, 24 il secondo e 33 il terzo. «Doloroso ma sopportabile», a giudizio della leader radicale. Difficile però che il Pd voglia promettere una politica economica all’insegna del dolore sopportabile, mentre gli altri fanno a gara a immaginare tagli alle tasse e nuovi aumenti di spesa – sulle pensioni (Berlusconi), sul reddito di cittadinanza (Di Maio), sugli investimenti pubblici (entrambi) –. E più complicato è anche immaginare che una simile piattaforma culturale e programmatica – sia davvero congeniale al partito democratico. Ma questo è un problema che, passata la sbornia elettorale, qualunque governo sarà chiamato ad affrontare: se per essere europeisti bisogna essere anche rigoristi, per rifarsi una reputazione presso gli altri Paesi europei (ed i mercati), o se invece “più Europa” può significare provare a spostare il fulcro dell’impegno europeo dal rigore finanziario alla correzione delle diseguaglianze economiche e sociali. Pensare di contrastare la ventata nazionalista e populista che scuote il continente solo con una più austera disciplina di finanza pubblica è una mossa molto rischiosa: non è detto che riesca.

(Il Mattino, 5 gennaio 2018)

 

Sud & storia. Ma la memoria non è una sola

Penone

G. Penone, Continuerà a crescere tranne in un punto (1968)

«Ricordo che quando andai a Caprera, in Sardegna, nel periodo in cui lavoravo al film, il custode della casa – museo di Garibaldi volle mostrarmi la pallottola che avevano estratto dalla gamba del Generale. E mi disse che quella era la pallottola con cui i Borboni avevano sparato a Garibaldi. I Borboni, mi disse: non l’esercito italiano».

In procinto di girare il suo prossimo film, Mario Martone ha accettato volentieri di tornare a riflettere sul Risorgimento italiano, al quale ha dedicato un film importante, bello e teso, «Noi credevamo», uscito nel 2010. L’occasione è la proposta di una giornata in memoria delle vittime meridionali dell’unificazione nazionale, che, su proposta del Movimento Cinque Stelle, ha avuto il voto di quasi tutto il consiglio regionale pugliese, compreso quello del Presidente Emiliano.

«Una proposta assurda, figlia di una grande confusione, di tutto quello che denunciavo quando ho fatto «Noi credevamo». Noi italiani abbiamo un rapporto falsato col passato. Abbiamo tutta una serie di incrostazioni, di letture sbagliate della storia che chiaramente inquinano anche il nostro presente. E questa proposta ne è la dimostrazione. Ma proprio perciò le ho raccontato del custode di Caprera: perché mostra come per il senso comune Garibaldi non potesse essere stato ferito dall’esercito italiano (come in realtà fu). Questo vuol dire che la realtà storica è semplicemente ignota o incomprensibile per larga parte degli italiani.

Martone non sceglie esempio casuale. Il suo film si chiudeva proprio con i fatti del 1862, quando tra i monti dell’Aspromonte avvenne lo scontro a fuoco tra i volontari garibaldini e l’esercito regolare intenzionato a bloccare il generale che tentava di risalire nuovamente la penisola per conquistare Roma. L’Unità d’Italia era stato il capolavoro politico di Cavour, non certo la vittoria di Garibaldi. E il film racconta fin dal titolo quante contraddizioni, quante disillusioni e anche quali fallimenti furono vissuti in quegli anni all’ombra delle grandi imprese risorgimentali.

«Nel senso comune manca un’idea dei contrasti che vi furono allora. Non è entrata l’idea che le visioni dell’Italia durante il Risorgimento sono state non semplicemente diverse, ma contrapposte – da un lato i monarchici, dall’altro i repubblicani; da un lato i moderati, dall’altro i democratici –. Queste cose naturalmente ci sono nei libri di storia. Ma nel senso comune questa verità non è passata. Gli italiani hanno un loro pantheon di signori con la barba, che mette insieme indistintamente Vittorio Emanuele, Giuseppe Garibaldi, il conte di Cavour, Mazzini. È ovvio che in questa fase di populismi, di demagogia dilagante, diventino un unico avversario da abbattere in blocco. Ma è una falsificazione della realtà storica. Non ci si rende conto così che Mazzini e Cavour non possono trovarsi insieme in uno stesso Pantheon. Furono acerrimi nemici. Avevano idee politicamente opposte: su come costruire l’Unità d’Italia, come affrontare il rapporto col Meridione, come affrontare tutti gli aspetti della vita civile».

Martone parla con grande rispetto del lavoro storiografico. E racconta di quanto lui stesso, insieme a Giancarlo De Cataldo, hanno potuto attingere dai libri di storia nella preparazione del film. Ma il punto che evidentemente gli preme non riguarda la mera accuratezza della ricostruzione storica, quanto piuttosto “l’uso della storia per la vita”, cioè nel presente, nell’Italia di oggi.

«Dovunque son andato, in giro nel Mezzogiorno, per presentare il film (eravamo a ridosso del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia) ho sentito le critiche, la rabbia, il fastidio verso le celebrazioni, a volte l’odio. Era ed è molto doloroso. Ma domando: tutto questo può mai trasformarsi in una nostalgia per i Borboni? Non significa tornare indietro, e dico: indietro rispetto non tanto ai dibattiti sul passato, ma ai dibattiti sul nostro presente? D’altra parte, cosa vuoi dire a un ragazzo del Sud oggi, cosa dire a generazioni completamente sfiduciate, quando gli racconti cosa è successo allora? Io penso che si tratta non di alimentare nostalgie per il regime borbonico; semmai, di fargli conoscere Pisacane, di farlo appassionare alla sua storia. Ma per questo il blocco unico del Pantheon ufficiale non aiuta. Pisacane era un repubblicano, stava per dir così sul lato opposto rispetto a quelli che hanno fatto l’Unità d’Italia con i Savoia. E lo stesso Garibaldi: tutti ricordiamo il suo famoso “Obbedisco!”. Voleva dire: mi piego per ragioni di opportunità politica. Fu la scelta giusta, che altro doveva fare? In quel momento le condizioni storiche portavano a questo, e la liberazione di Napoli significò la consegna del Regno a Vittorio Emanuele II. Ma Garibaldi aveva tutt’altro animo, era anche lui un repubblicano. E del resto la vera impresa eroica di Garibaldi fu la Repubblica romana. La Repubblica romana è la vera luce del risorgimento.  Allora io farei una giornata della memoria: ma per ricordare le vittime della Repubblica romana, le vittime di un sogno che è stato calpestato.

Le armi borboniche, in effetti, erano puntate contro la Repubblica romana. Ma voglio ricordare cosa ha scritto Alessandro Leogrande a proposito del suo film: “Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da «criminali» al sevizio dei piemontesi «simili ai nazisti», e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale».

«Ma certo. Il sentimento dell’unità d’Italia è stato un sentimento straordinario, costruttivo, moderno. Sputare su di esso è orribile. Che modo di ragionare è quello di dividere geograficamente, invece di confrontarsi politicamente? Altro però è chiedersi, come io ho provato a fare, quali opposte visioni si scontrarono. Altro è lo scontro politico interno al processo risorgimentale, che – io credo – si prolunga ancora adesso. A che serve allora una generica giornata per le vittime meridionali? Dentro l’unificazione hanno convissuto non uno, ma due sentimenti unitari. Mazzini è morto da clandestino. Cavour aveva deciso per tempo in quale piazza doveva andare eseguita la sua condanna capitale. Quella piazza è a Genova, e oggi c’è invece un monumento a Mazzini. Ma il sentimento che animava i repubblicani – i Mazzini, i Garibaldi, i Pisacane – non si misurava nel senso dell’annessione ma nel senso dell’unione».

Lei ha detto che nel senso comune c’è solo una versione semplicistica, e in fondo agiografica, del Risorgimento. A me colpisce quanto poco il cinema (che sa entrare nell’immaginario collettivo di un popolo) si sia occupato di Risorgimento. Non c’è paragone, mi pare, con l’epopea resistenziale. Ci sono i film di Visconti, c’è un film di Rossellini, i Taviani di Allonsanfàn, Florestano Vancini, i film in costume di Luigi Magni e naturalmente anche qualcos’altro. Ma non mi pare ci sia la costruzione di una vera e corale narrazione risorgimentale.

«Che i film non siano stati tanti dimostra quel che dicevo, la difficoltà di rapporto del nostro Paese con la sua storia e con l’unità d’Italia. L’Ottocento risorgimentale avrebbe potuto dar luogo a una vera e propria mitologia: come gli americani sono riusciti a fare con il West, trasformando in un mito (mito universale, che vale anche per noi) la nascita di una nazione. Ma un mito va affrontato prendendolo di petto. Cosa che noi non abbiamo fatto. Abbiamo invece costruito il nostro Pantheon posticcio. E alla costruzione ha ovviamente dato un contributo decisivo il Ventennio fascista. Ma più in generale io continuo a domandarmi se non rimanga vero che la complessità dei fatti risorgimentali rimanga fuori dalla coscienza collettiva. Come se certe cose non si potessero dire. Come se certi conflitti non si potessero esplicitare. Ed è un problema del nostro Paese, per cui o i conflitti si affrontano con le armi in mano oppure li si rimuove e non li si riesce fare terreno di una dialettica vera, reale.

Tra le cose che nel senso comune passano in maniera distorta c’è anche, a me pare, il rapporto con il Mezzogiorno. O forse è vero che questo rapporto è stato profondamente distorto nell’ultimo quarto di secolo. Il film vede le cose dalla prospettive meridionale, inizia e finisce il suo racconto al Sud. Lei trova che anche su questo tema delle divisioni d un Paese troppo lungo vi sia una vulgata che si tratta di mettere in questione?

Temo di dire cose note. Il processo di unificazione è stato un processo di annessione. È un fatto: si è sviluppato in questo modo. Basti pensare a un episodio, la vicenda più amara per Garibaldi, che spiega tutto. Mi riferisco al fatto che la stragrande maggioranza dei garibaldini, i famosi Mille, sono stati di fatto abbandonati; non furono stati arruolato nell’esercito italiano. È stata la cosa che più di ogni altra ha devastato l’animo di Garibaldi, che più gli ha provocato delusione ed amarezza. Se di unità si trattava, chi ha combattuto dallo stesso lato doveva ritrovarsi anche dopo l’Unità d’Italia. Non fu così. Questo dice tutto sul modo in cui è avvenuto il processo unitario. Che è avvenuto a danno del Sud: neanche su questo – mi pare – ci sono più molti dubbi. Ovviamente la mia prospettiva è quella di un uomo del Sud. I protagonisti del mio film sono cilentani. Ma tengo a dire: non è un punto di vista non anti-unitario, ma è il punto di vista di chi racconta la possibilità di un’unità diversa. Che sarebbe potuta essere e che non è stata. E la celebrazione della giornata delle vittime meridionali dell’unificazione sarebbe di offesa per tutti i meridionali che hanno sacrificato la loro vita per la causa unitaria.

Le chiedo ancora qualcosa a partire dal suo film. Dalle cose che vi mancano. Da un lato i grandi eventi, le grandi battaglie, il 1860. La visione laterale fa sì che i momenti cruciali della storia – che so: l’incontro di Teano – non vi compaiano. Qual è il senso di questa scelta? L’altra cosa che manca è la città. Dico la città del Mezzogiorno, Napoli. Per chi conosce il suo rapporto con Napoli, per chi conosce la sua filmografia – a partire al primo film, Morte di un matematico napoletano – è un taglio che colpisce. Nel film si vedono salotti piemontesi (o parigini) e campagne meridionali.

«Ho cercato, insieme a Gianfranco di Cataldo, di portare ad evidenza tutte le zone d’ombra del processo risorgimentale. Perciò non ci sono le pagine famose. Perfino la Repubblica Romana, che pure è centrale per lo svolgimento del film, non c’è. Ho cercato invece di portare sulla scena i conflitti che ai miei occhi di cittadino italiano mi sono sempre parsi nascosti.

D’altro lato, è vero: il Sud certamente è campagna. È una scelta sociale. Il Sud era ben altro che il Paese di Bengodi che i nostalgici borbonici vogliono farci credere. Vigevano leggi di carattere feudale dal punto di vista sociale. Condizioni sociali e di vita faticosissime. Io non discuto quale fosse stato il bilancio e la prosperità del Regno. Mi domando però quali sperequazioni ci fossero al suo interno. Questo era il contenuto sociale dell’idea che del processo di unificazione avevano i repubblicani, ai quali guardo nel film. Quanto questo contenuto poteva stare a cuore dei monarchici? Nulla. Basta invece leggere la Costituzione  della Repubblica Romana, difesa da Garibaldi e Mazzini, per trovarvi cose come il suffragio universale, le terre ai contadini. C’era un’idea di un vero progresso sociale che doveva accompagnare il moto risorgimentale. C’era l’idea di uguaglianza. Con la sconfitta dell’idea unitaria repubblicana è questo il sogno che svanisce. Riportandoli a una dimensione di nostalgia borbonica, noi certo non onoriamo le vite dei meridionali che si sono battute per questo sogno. Ma a questo sogno è dedicato il film».

A proposito del titolo, “Noi credevamo”. Quello che colpisce non è solo la declinazione al passato, che accentua la dimensione del disincanto e della disillusione (lè la chiusa del film: “Eravamo tanti. Eravamo insieme. Noi credevamo”). Ma anche la scelta di un soggetto plurale, collettivo, che sembra essere il soggetto politico mancato, disatteso, di tutta la vicenda nazionale.

«Ma quel noi è vivo ancora adesso. Come sa, il titolo viene dal libro di Anna Banti, così come una robusta parte del film (poi il film racconta molte altre cose, per cui non è una messinscena del romanzo). Ma Noi credevamo implica anche un presente.

Siamo noi, oggi, quelli che credevano ieri?

Ma certo. Il punto in questione siamo noi oggi. Che cosa vogliamo fare del nostro passato e del nostro futuro. riusciamo a recuperare un rapporto sincero, onesto, pieno col passato? Farlo però significa anche recuperare una prospettiva politica: che ha perso, che è stata sconfitta.

Un’ultima domanda vorrei farle. E riguarda il giudizio sulla politica che viene fuori dal film. Non dico sui singoli protagonisti, ma sulla politica nel suo insieme. Uno degli elementi su cui si gioca il film è la contrapposizione fra gli ideali che vivono nella clandestinità, nella cospirazione, nella lotta armata, e il piano lontano, distante, cinico, dei giochi politico-diplomatico-militari. L’impressione è che l’agire politico, schiacciato sulla dimensione della “politique d’abord”, ne esca con le ossa rotte.

«Lei pensa a Francesco Crispi»

Ecco, non voglio dire che la sua figura è più complessa di come compare nel film, non sono uno storico, ma mi interessa una riflessione su questa contrapposizione. Anche dal punto di vista del ragazzo che oggi vede il film .

«Il ragazzo che oggi vede il film non è scoraggiato da ciò che vede, ma da ciò che ha intorno a sé. Il problema non è all’interno del film ma all’interno della politica italiana ed europea. Ecco: partiao dall’Europa. È molto evidente nel difficilissimo rapporto che c’è tra come è governata l’Europa negli alti livelli finanziari, politici, e la sostanza di vita dei cittadini europei. Si ripropone a livello europeo qualcosa che ha attraversato la nostra storia italiana: una sorta di costrizione dei vasi di comunicazione fra i bisogni delle persone e l’elaborazione politica che soffoca il sogno europeo. I vasi continuano a essere molto stretti.

Ciò che portava alla disillusione allora porta alla disillusione oggi. La sperequazione è la stessa. Anche oggi possiamo chiederci: è l’Europa un continente povero? Non che non lo è. Il problema è la distribuzione della ricchezza. Il problema è quello che accade fra la Germania e la Grecia. Come vede, il discorso si riapre. Ed è qui che si infilano le semplificazioni populiste. Ma per rifiutarle occorre vedere il problema in tutta la sua verità e complessità, mettendo in luce i conflitti che attraversano la realtà politica europea, non solo italiana. Glielo dice uno che ama l’idea di un Europa unita. A maggior ragione bisogna allora battersi contro l’idea di un’Europa unita per annessione.

A maggior ragione bisogna provare a declinare un’idea di eguaglianza a livello europeo, e far passare un’idea dell’unificazione non come un’annessione tedesca, ma come qualcosa che spinge da tutti i lati».

Qualcosa che spinge da tutti i lati. In tempi di disaffezione dalla politica, di disincanto e di scarsa partecipazione alla cosa pubblica, questa immagine della vita civile e politica come una cosa mossa da tutti i lati mi sembra davvero uno dei migliori antidoti alle volgarizzazioni populiste e alle nostalgie neo-borboniche. E chissà, magari si ritroverà anche nel prossimo film che Martone si appresta a girare.

(Il Mattino, 11 agosto 2017)

Il diritto di un codice

burri rev

A. Burri, Bianco plastica B5 (1965)

Mettere centomila persone in uno, due stadi di calcio si può fare. Ma se già abbiamo difficoltà ad assicurare la sicurezza di un normale deflusso dagli impianti in occasione di certi eventi sportivi, figuriamoci se quella può mai essere la soluzione per dare accoglienza ai migranti. Mario Calabresi, nel suo editoriale su Repubblica di ieri, voleva dare un’idea delle proporzioni del fenomeno migratorio rispetto alla popolazione italiana complessiva, ma l’immagine che ha scelto non è molto felice. Quella di stipare i migranti in uno stadio sembra anzi un’idea “concentrazionaria” da Paese sudamericano negli anni Settanta, e dimostra che non sempre, quando si parla di accoglienza, si parla davvero e per intero di politiche di accoglienza, di gestione controllata di flussi migratori, di strategie di medio-lungo periodo per fronteggiare un fenomeno che, da qualunque lato lo si guardi, non ha nulla di passeggero. Accoglienza non è salvataggio degli uomini in mare, e nemmeno mero deposito e magazzinaggio di uomini: è tutto quello che viene dopo, e per cui purtroppo il nostro Paese non si è dimostrato, finora, seriamente attrezzato.

Però Calabresi ha ragione su un punto: il problema non sono, non possono essere le Ong. Ragioniamo per ipotesi: se domani mattina dal Mediterraneo scomparissero d’incanto tutte le navi che oggi prestano soccorso in mare, gli arrivi dall’Africa subsahariana, dalle regioni più povere del mondo, dai teatri di guerra africani e del Medio Oriente si arresterebbero? È illusorio crederlo. Piuttosto, la pressione demografica, che si esercita su Paesi gravati spesso da condizioni politiche, economiche e ambientali assai difficili, continuerebbe a spingere uomini, donne e bambini a tentare altre vie e a inventarsi altri mezzi e maniere per lasciare le loro terre in cerca di migliore fortuna. Né si farebbe miglior figura a dire che però, in questo modo, sarebbero risparmiati i porti e le città italiane. Mentre chiediamo all’Europa di impegnarsi in uno sforzo comune e condiviso, e ci rammarichiamo degli egoismi degli altri Paesi (ma – sia detto per inciso – questi altri Paesi non hanno affatto, in generale, una presenza di stranieri inferiore alla nostra, e noi non siamo affatto sotto minaccia di un’invasione), non si può fondare una politica nazionale solo sul modo in cui deviare i flussi verso altre mete, altri porti e altre città. In ogni caso, pure in questa ipotetica disinfestazione del nostro mare, non si riuscirebbe certo ad interrompere, estinguere, troncare la migrazione in corso. Ed è per questa ragione che non si vuol spedire la palla in tribuna quando si chiede invece all’Unione europea di fare fronte comune. Da un lato, l’Europa tutta non sarà più senza stranieri, senza cioè una quota significativa di popolazione extra-europea, il fenomeno è strutturale e la xenofobia non è una soluzione. Dall’altro, l’Europa prima ancora che l’Italia deve anche sapere, e non può fingere di non sapere, che la rotta centrale del Mediterraneo, che porta i migranti in Italia, è anche quella più costosa in termini di vite umane.

Ma una politica nazionale ci vuole. E accogliere tutti non è una politica: questa è una proposizione “grammaticale”, un’istruzione sull’uso della parola “politica”. Che comporta sempre una qualche correlazione fra fini e mezzi, fra possibilità e realtà, fra fatti e parole. E, certo, anche fra quello che siamo e quello che vogliamo essere. Ora, è comprensibile che un’organizzazione non governativa, in ossequio ai propri principi (che trovano fondamento in norme e convenzioni sovranazionali), agisca secondo finalità strettamente umanitariee e provi a salvare il maggior numero di persone. Ma lo è altrettanto che uno Stato, nelle proprie politiche, tenga conto delle conseguenze di quell’agire. Che denunci l’effetto perverso per cui all’aumentare delle possibilità di salvataggio in mare dei migranti aumenta anche il numero di imbarcazioni che gli scafisti mettono in acqua, lucrando sulla disperazione dei migranti e sulla buona fede dei soccorritori. Ma se non si può chiedere alle Ong di spezzare un simile circolo vizioso, non vuol dire che lo Stato italiano non debba cercare di spezzarlo. Il codice Minniti è un tentativo del genere. Si tratta peraltro di un codice di autodisciplina (che quindi viene liberamente sottoscritto), prova a dare regole comuni alle azioni di salvataggio in mare, e prevede, in certi casi, presenza di polizia giudiziaria: non per militarizzare le Ong, ma per la conduzione di attività di indagine sul traffico di esseri umani.

Entro questi limiti, il tentativo ha senso. Non lo ha più, ed anzi prende un senso perfino sinistro, se ad esso si affida una sorta di prova muscolare con cui dimostrare che non vogliamo più stranieri sull’italico suolo. Non sono troppi, gli stranieri, e non sono nemmeno pochi: sono invece fatti entrare nel peggiore dei modi possibili. Per mani clandestine, a rischio della loro stessa vita, in balia di mercanti senza scrupoli. Ammassati nei barconi, ammassati nei centri di accoglienza, ammassati nelle periferie delle nostre città. E chissà: magari in futuro in uno stadio. Masse, insomma: che perciò fanno numero, e fanno paura. Ma se chiudere ogni via è impossibile, oltre che ingiusto, aprirne di regolari, e controllate, è, invece, una strada percorribile. E per farlo bisogna, credo, aprire un poco anche le nostre menti.

(Il Mattino, 9 agosto 2017)

A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

Se la vendetta sfida la civiltà

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Quanto peggiorerebbe la nostra vita se la risposta al terrorismo di matrice islamista fosse anch’essa di natura terroristica? Non più soltanto livelli di sicurezza più elevati o proclamazioni dello stato di emergenza, leggi antiterrorismo e inasprimenti di pene, ma un’escalation di terrorismo islamofobo, diretta contro la comunità musulmana?  Da ieri questa eventualità, terribile e angosciosa, si è fatta possibile. Ieri un uomo, Darren Osborne, ha lanciato il suo veicolo contro una folla formata da fedeli musulmani, in una zona a nord di Londra, Finsbury Park. Il furgone ha mietuto una vittima, e fatto una decina di feriti, alcuni dei quali gravi. Odio, risentimento e spirito di vendetta. Ma cosa accadrebbe, se questi sentimenti e stati d’animo si diffondessero come un virus tra la popolazione? Cosa accadrebbe se la risposta al camioncino lanciato sul London Bridge, qualche settimana fa, o all’autocarro che fa strage sulla promenade des Anglais di Nizza, lo scorso anno, fossero altre automobili, lanciate questa volta contro fedeli all’uscita di una moschea? Quasi nelle stesse ore in cui Londra veniva nuovamente insanguinata, a Parigi, sugli Champs-Elysées, un uomo ha provato a farsi esplodere lanciandosi con la sua auto, piena di bombole del gas, contro una camionetta della polizia: l’attentato è fallito e il conducente è morto, ma in Francia è scattato nuovamente l’allarme. Nel giro di ventiquattro ore, siti di informazione e giornali hanno registrato i fatti come un bollettino di guerra: a Londra un inglese di mezza età ha attaccato la folla di fedeli musulmani, durante il Ramadan, mentre a Parigi, un cittadino francese radicalizzato, noto peraltro ai servizi di intelligence, gettava un’altra volta nel terrore la capitale: metropolitana chiusa, area transennata, colonne di mezzi della polizia, sirene e agenti. A Parigi un atto terroristico compiuto probabilmente nello spirito della jihad armata; a Londra, un atto terroristico compiuto invece contro i musulmani. Nello stesso arco di tempo, nel cuore dell’Europa.

Ora, la ragione fondamentale dell’essere europei, per tutta la seconda metà del Novecento, è stata la pace. Non vi è significato più forte e più riconoscibile nell’ideale europeista di questo legame che l’Europa, dopo gli orrori delle guerre mondiali, ha saputo conquistare con la pace, la democrazia, il diritto. Noi europei siamo quelli che hanno messo da parte odi e rivalità nazionali e religiose, ostilità politiche e ambizioni di potenza ed egemonia sul continente, per costruire insieme condizioni di vita e ordinamenti collettivi fondati sulla pace. Abbiamo vissuto la caduta del Muro di Berlino come un passo decisivo nella costruzione della casa europea perché l’89 significava la fine della guerra fredda che aveva diviso l’Europa in due blocchi. E abbiamo patito le contraddizioni di una costruzione politica ancora insufficiente quando si sono incendiati i Balcani, e nuovi conflitti si sono riaperti nel cuore del continente. Infine, sappiamo ormai riconoscere, dopo i processi di decolonizzazione seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, i germi pericolosi che a lungo hanno allignato nell’idea del “buon europeo”. Come possiamo ora pensare che il futuro dell’Unione, il suo destino e il suo senso, si disperda tra paure, scoppi di violenza, focolai di terrore?

Eppure il crinale lungo il quale ci muoviamo è estremamente sottile. Darren Osborne, per ora, è solo un nome balzato drammaticamente agli onori della cronaca per una violenza stupida e insensata. Ma il senso delle cose non si decide mai una volta per tutte. Un gesto isolato, un episodio circoscritto non cambia il corso degli eventi. La vita scorre uguale. Ma noi oggi non sappiamo affatto se tale resterà. Non lo possiamo sapere. Non sappiamo se altrove non vi sia chi non pensi di fare altrettanto. Non sappiamo neppure se non vi sia chi soffia sul fuoco, chi magari cerca di esasperare le opinioni pubbliche dei paesi europei, di suscitare sentimenti di frustrazione della popolazione di fronte al diffondersi endemico di attentati terroristici, per far precipitare tutto in una spirale sempre più intensa di violenza. Darren Osborne non avrà fatto troppi calcoli e probabilmente non ha nessuno dietro di sé. Un atto individuale non ha ancora un significato collettivo. Ma se in futuro qualcuno proverà a fare invece qualche calcolo, a spostare gli equilibri politici del continente – e non solo – usando le ragioni del conflitto, i meccanismi della ritorsione, il contrappasso della vendetta?

Non sarebbe una guerra giusta, così come quella islamica non è una guerra santa, almeno ai nostri occhi. Sarebbe piuttosto una guerra strisciante, tenuta dentro i confini slabbrati della pace ma all’ombra di conflitti sempre più cruenti, e endemici, e globali. Una guerra in cui precipiterebbe e andrebbe in frantumi l’ideale stesso della modernità, e il suo corredo di valori, abitudini, stili di vita, nato e coltivato in questa parte del mondo. Cosa ci guadagneremmo, allora? A cosa potremmo mettere fine, e cosa invece si prolungherebbe indefinitamente se ci lasciassimo trascinare sul piano che gli attacchi terroristici ogni volta propongono: il numero delle vittime, le modalità dell’attentato, la cultura e l’identità religiosa come motivo di scontro? Non sarebbe questa ritornata barbarie la fine stessa del sogno europeo come lo abbiamo coltivato negli ultimi decenni?

(Il Mattino, 20 giugno 2017)

La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

Primarie Pd, le idee per scegliere

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Primarie a bassa intensità, noiose, clandestine. Primarie scontate, primarie con rito abbreviato, primarie spopolate: definite in molti modi, rappresentano comunque l’appuntamento più largo e partecipato che in questo modo offre la vita interna dei partiti italiani. E dunque vale la pena darci un’occhiata, provare a orientarsi tra i profili e i programmi dei tre cavalieri – Renzi, Orlando, Emiliano – che in singolar tenzone si contendono la guida del partito (e, a norma di statuto, anche la premiership).

Sinistra

Ci sono quelli che dicono che la distinzione fra destra e sinistra non ha più molto senso. E tuttavia il partito democratico (che con Renzi segretario ha definitivamente aderito al socialismo europeo) continua a definirsi come un partito di sinistra, e tutti e tre i candidati condividono questa collocazione. Cambiano però gli aggettivi qualificativi, che sono necessari per apprezzare le differenze. La sinistra di Orlando somiglia alla tradizione socialdemocratica, e l’insistenza sul tema dell’uguaglianza fa sì che “democratico” sia senz’altro l’aggettivo da scegliere per la sua proposta programmatica. Quella di Renzi è invece una sinistra liberale, con più robusti innesti di liberalismo nelle proposte economiche, nell’idea di modernizzazione, nell’insistenza sul tema dello sviluppo. Emiliano, infine, è l’unico che non disdegnerebbe affatto l’aggettivo populista, che prova a presentarsi come l’uomo che lotta contro l’establishment e i potenti («il Pd dei banchieri e dei petrolieri»).

Populismo

A proposito di populismo, detto che per Emiliano non sembra affatto che sia un vero avversario, e che anzi ci andrebbe volentieri a braccetto, Orlando e Renzi usano entrambi la parola per denunciare un pericolo per le istituzioni democratiche, o perlomeno per le politiche di cui il Paese avrebbe bisogno. Orlando lo considera un «rischio mortale» per il Pd e, pensando a Emiliano ma anche a Renzi, denuncia le dosi di populismo entrate nelle vene del partito (ad esempio sul tema dei costi della politica, che Renzi riprende e che Orlando invece non cavalca mai). Per Renzi, al di là di stile, tono e qualche volta argomenti, la vera risposta al populismo stava però nella riforma costituzionale, cioè nel passaggio ad un sistema politico e istituzionale semplificato e più efficiente.

Legge elettorale e sistema istituzionale

Sul primo punto, in cima all’agenda dei prossimi mesi, siamo al ballon d’essai delle dichiarazioni quotidiane. C’è molto tatticismo, e il sospetto fondato che alla fine non cambieranno le cose. Ci terremo probabilmente la legge uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, con piccoli aggiustamenti. Renzi, comunque, punta tuttora a correttivi maggioritari; Emiliano si dichiara per un maggioritario con collegi uninominali, e tutti e due vogliono togliere i capilista bloccati. Orlando proviene da una cultura di tipo proporzionalista, ha sposato nella sua mozione la proposta Cuperlo con il premio di lista ma è disponibile ora al premio di coalizione. La riforma costituzionale, dopo il referendum, è invece divenuta un terreno completamente minato: nessuno ci cammina più su. Nella mozione congressuale di Renzi c’è un cenno alla riforma del titolo V (autonomia regionale), in Orlando nemmeno quello. Ma è giusto ricordare che Renzi e Orlando stavano dalla stessa parte, mentre Emiliano ha osteggiato fragorosamente il programma di riforme del governo, e ha votato no al referendum.

Alleanze

Insieme alla legge elettorale sta il punto politico: le alleanze. Gli ultimi giorni si sono giocati su questo tema: Orlando agita contro Renzi lo spauracchio dell’accordo con Berlusconi. Renzi ribatte che Orlando la coalizione con Berlusconi l’ha già fatta. Ma in realtà il tema non può essere declinato concretamente in assenza di una legge. Se rimane un impianto proporzionale, le alleanze si faranno dopo il voto, non prima: secondo necessità. Non è chiaro infatti come si possa evitare l’accordo con il centrodestra senza un meccanismo maggioritario sul modello del tanto deprecato (e dalla Corte costituzionale bocciato) Italicum. Le discriminanti sembrano in realtà altre. Orlando non ha difficoltà a riprendere il dialogo con i fuoriusciti del Pd, Renzi invece ne fa una questione di coerenza: con Pisapia e il suo campo progressista sì, ma come si fa a stringere un’alleanza con D’Alema e Bersani, che il Pd lo hanno rotto? Che senso ha dividersi il giorno prima e allearsi il giorno dopo? Quanto a Emiliano, guarda con interesse agli elettori grillini, e si capisce che cercherebbe alleanze da quella parte.

Unione europea

Dici Europa e li trovi tutti d’accordo: sembra quasi una gara a chi si dice il più europeista di tutti (anche se tutti aggiungono subito dopo che così com’è l’Unione non va). Emiliano, i cui toni populisti non sembrerebbero andare a braccetto con il sogno europeista, innalza addirittura il vessillo degli Stati Uniti d’Europa; Orlando ne fa prioritariamente una questione di policies e punta alla costruzione del “pilastro sociale” che mancherebbe all’Unione; Renzi tiene insieme le due cose e soprattutto prova a rilanciare l’iniziativa politica per cambiare l’Europa, proponendo di affidare alle primarie la scelta del candidato alla Presidenza della Commissione. In realtà, con la probabile elezione di Macron (apprezzato da tutti e tre) e un possibile, rinnovato asse franco-tedesco, gli spazi per i giri di valzer si riducono: Renzi batte i pugni a Bruxelles, Emiliano dice che lo fa troppo poco, e Orlando dice che lo fa inutilmente. Questioni di immagine, più che di sostanza.

Mezzogiorno

Il Mezzogiorno c’è nei programmi di tutti e tre. Ma nessuno dei tre candidati lo ha scelto come terreno sul quale marcare una vera differenza rispetto agli altri due. Neppure Emiliano, che pure è governatore di una regione meridionale, la Puglia. Tutti e tre pongono la questione meridionale come una questione nazionale. Tutti e tre sono consapevoli che l’Italia non potrà mai crescere oltre lo zero virgola se a crescere non sarà anzitutto il Sud. Ma nessuno dei tre ha chiesto un solo voto per il Sud, e alla fine il risultato che prenderanno in Campania o in Sicilia, in Puglia o in Calabria dipenderà molto di più da dinamiche di tipo localistico, che dal profilo programmatico che hanno assunto. E al dunque: Renzi voleva portare il lanciafiamme a Napoli, ma poi non lo ha fatto. Orlando invece a Napoli ci ha fatto il commissario, e chiamarsi fuori non può; Emiliano infine s’è preso lo sfizio di strizzare l’occhio a De Magistris appoggiando pochi giorni fa «l’insurrezione pacifica contro Salvini». Tant’è.

Migranti e sicurezza

Tutti e tre i candidati subiscono la pressione dell’opinione pubblica e tendono a declinare i due temi insieme. Tutti e tre si coprono – come si suole dire – su quel fianco sul quale tradizionalmente i partiti di sinistra si mostrano più scoperti. Così Emiliano spende parole sull’accoglienza e sul bisogno di manodopera straniera della sua Puglia (non proprio un argomento di sinistra), ma nel confronto televisivo tiene a ricordare che lui, da magistrato, girava con la pistola nella tasca dei pantaloni. Renzi fa la polemica con l’Unione europea che scarica sul nostro Paese il peso maggiore nell’accoglienza, ma si allinea alle posizioni più dure in tema di legittima difesa (non proprio una posizione di sinistra); Orlando vuole superare il reato di immigrazione clandestina, ma difende la sua legge che accelera l’esame del diritto d’asilo, togliendo il grado di appello (legge assai poco amata a sinistra). In compenso, nessuno di loro indietreggia di fronte al compito di salvare le vite umane in mare e difendere le Ong.

Economia

Per tornare a trovare differenze più accentuate fra i tre candidati, bisogna allora tornare a guardare ai temi dell’economia e della società. La più chiara di tutte: Orlando e Emiliano sono per una patrimoniale, mentre Renzi la esclude. Il programma economico e sociale di Renzi è per il resto tracciato nel solco di quello seguite dal suo governo. E cioè il jobs act, poi gli 80 euro, «cioè la più grande operazione distributiva che sia mai stata fatta», poi la riforma della pubblica amministrazione e quella della scuola. Orlando in realtà faceva parte del governo e Renzi non ha mancato di ricordarglielo, ovviamente. Ciò non toglie che Orlando ha criticato la politica dei bonus, che vanno a tutti, ricchi e poveri indistintamente, e provato a riprendere il tema più classicamente socialdemocratico della redistribuzione dei redditi («sradicare in tre anni la povertà assoluta»). Emiliano ha forse il programma più a sinistra: critica l’abrogazione dell’art. 18, vuole tassare le multinazionali del web, vuole una forma universale di sostegno al reddito. E però vuole pure la riforma dell’IVA, finanziandola con il recupero dell’evasione dell’imposta.

Partito

Come sarà il partito democratico dal 1° maggio? Se vince Renzi, è l’accusa degli altri due, sarà quello che è stato finora: un partito fortemente segnato dalla leadership di Matteo, tinto di prepotenza e poco inclusivo. Emiliano era sul punto di andarsene, poi è rimasto ma continua a dipingere Renzi quasi come un pericolo. Orlando ha finito la campagna elettorale arrivando a dire che o vince Renzi o vince il Pd. In effetti, Renzi è arrivato alla guida del Pd sull’onda della rottamazione, non mancando di aggiungere che preferiva farsi dare dell’arrogante piuttosto che farsi fermare dai veti incrociati dei maggiorenti del partito. Nella sua mozione, però, gli accenti sono mutati: cita Gramsci, propone non un partito pesante ma un partito pensante, ne mantiene il tratto aperto e contendibile, fondato sul modello delle primarie, ed è soprattutto l’unico che prova a tratteggiare un modello nuovo di militanza. Emiliano chiede invece di cambiare lo statuto e l’identificazione fra candidato premier e segretario nazionale, Orlando propone invece le primarie regolate per legge.

Le persone

Le differenze, tutto sommato, ci sono. Ma sicuramente si disegnano con più nettezza se si guarda alle rispettive personalità. Orlando è quello più “strutturato”, che prova a incarnare la serietà della politica; Emiliano fa quello fuori dalle righe, che sta tra la gente e fuori dal Palazzo (pur essendoci seduto dentro); Renzi vuole essere ancora l’uomo delle riforme, che ha cominciato e vuole continuare. Uomo della mediazione Orlando, uomo della declamazione Emiliano, uomo della rottamazione Renzi. Correzione di rotta per Orlando, rivoluzione gentile per Emiliano, cambiamento per Renzi, bandiera finita nella polvere dopo il 4 dicembre. Non se ne è parlato molto, ma il senso dato a quel voto è un vero discrimine fra i tre. Un no sacrosanto per Emiliano; una severa lezione, per Orlando; uno stop imprevisto dal quale ripartire per Renzi. Solo il voto di oggi potrà indicare la strada. E questo, dopo tutto, è il bello della democrazia (non quella diretta).

(Il Mattino 30 aprile 2017)

La nuova gauche senza complessi

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Il voto francese mostra alcune cose con una certa chiarezza.

La prima: gli elettori hanno apprezzato con Emmanuel Macron un’offerta politica nuova, non strutturata in una formazione politica di tipo tradizionale, fondata sulla capacità di aggregazione di una singola personalità.

La seconda: i partiti storici sono stati nettamente battuti, tanto a sinistra quanto a destra. Le conseguenze si sono fatte subito sentire. Fillon ha già presentato le dimissioni e dunque non guiderà il centrodestra alle prossime elezioni legislative, mentre a sinistra l’ex premier Manuel Valls ha dichiarato che il partito socialista è giunto alla fine di un ciclo, e forse alla fine della sua storia. Mi piacerebbe parlare di una ricostruzione, ha aggiunto, ma forse è presto: per ora siamo «in una fase di scomposizione, di demolizione, di decostruzione».

La terza cosa: la vittoria di Macron è stata certamente favorita dalla sua collocazione al centro dello spettro politico, dove lo spazio si era fatto più ampio che mai, dopo la vittoria di Hamon su Valls, nelle primarie del partito socialista, e quella di Fillon su Alain Juppé, a destra. Per l’elettorato francese, i due partiti tradizionali si erano dunque spostati verso le estreme, con un riflesso identitario che ha potuto forse rassicurare la base dei rispettivi schieramenti, ma non ha pagato nella competizione. L’uno e l’altro si sono fatti simili ai candidati più estremisti, e alla fine dall’uno e dall’altra sono stati scavalcati: Mélenchon ha umiliato Hamon a sinistra; la Le Pen ha superato Fillon a destra. Una débacle, insomma.

Il quarto punto riguarda la geografia politica della Francia, che esce dal voto di domenica: la Le Pen ha le sue roccaforti nel Nord Est e nel Sud della Francia; Macron vince nel Nord Ovest e nelle città, prima fra tutte Parigi.

Il quinto punto riguarda invece l’assetto istituzionale, che non ostruisce ma anzi rende possibile il passaggio da una Francia all’altra: dalla Francia di socialisti e gollisti alla Francia di macronisti e lepenisti. Anche in una fase di profonda trasformazione del sistema politico il Paese non rischia l’ingovernabilità.

La sesta istruzione che viene dal voto riguarda le piattaforme politiche uscite vincitrice dal primo turno: non potrebbero essere più distanti. E alla fine gli elettori hanno tenuto aperte entrambe le vie: quella europeista e quella antieuropeista. Per Macron, fuori dell’Unione non c’è salvezza. Per Marine Le Pen, c’è salvezza solo fuori dell’Unione europea. Non v’è dubbio che qui vi è un discrimine molto preciso: non si può dir male dell’Europa e votare Macron, come non si può dirne bene e votare Le Pen. Tutti gli altri temi della campagna elettorale presentavano molte più sfumature di quanto non ne presenti il tema europeo: per Macron, la Francia è la Francia solo in Europa; per la Le Pen l’Europa può passare, la Francia eterna resta.

Settima e ottava istruzione (a sinistra): vi può dunque essere un europeismo senza complessi, senza ipocrisie, senza colpi al cerchio e alla botte insieme. Ma ne viene anche, per conseguenza, una linea di frattura molto chiara e incomponibile con la sinistra radicale, che votando Mélenchon dichiara di vedere in Macron una novità puramente cosmetica, una mera riverniciatura delle politiche neoliberali di questi anni, una perpetuazione sfacciata dell’establishment con gli stessi mezzi anche se non con gli stessi volti. Mélenchon che prende quasi il 20%, surclassando il partito socialista di Hamon, significa: i contenuti sociali di una formazione di “vera” sinistra non possono più stare su una linea di continuità con le politiche dell’Unione. (En passant, una lezione che viene dalla storia: la sinistra che ragiona in termini di “vera” o “falsa” sinistra, perde sempre). Nei confronti dell’Ue, Mélenchon ha in effetti toni più vicini a quelli della Le Pen che a quelli di Macron: non a caso non ha detto una sola parola di sostegno per Macron, neppure turandosi il naso, in chiave repubblicana e antifascista. Il pericolo non è la destra populista e xenofoba, in definitiva, ma la megamacchina del finanzcapitalismo, per dirla con l’aspro neologismo coniato da noi da Luciano Gallino.

Il punto numero nove riguarda invece la destra nazionalista e sovranista di Marine Le Pen. Che ha conseguito un risultato storico, che forse può crescere ancora, ma che non ha sfondato e difficilmente sfonderà al secondo turno. In ogni caso, più che dire che non vi sono più la destra e la sinistra risulta che anche di destre, come di sinistre, ce ne sono due. E che anche a destra, almeno in Francia, non riescono a sommarsi, ma anzi si contrappongono duramente l’una all’altra. È questo che rende più facile parlare perciò di altri tratti discriminanti: apertura e chiusura, progresso e conservazione, globalizzazione sì o no, modernizzazione o rifiuto della modernità.

Il decimo punto, infine, è in realtà meno chiaro di tutti gli altri, e riguarda il possibile raffronto con la situazione italiana: Macron è il Renzi francese? E chi è l’emulo della Le Pen in Italia: Salvini, la Meloni o anche Grillo? È evidente che certi significanti tornano, e potranno essere decisivi nel prossimo futuro: europeismo, populismo, riformismo. Quello che però non torna – o almeno non coincide – è il confronto sul piano istituzionale ma anche l’articolazione dell’offerta politica. Noi non abbiamo il semipresidenzialismo francese, e questo fa la differenza. E spiega forse per esempio perché Renzi non ha scelto la strada solitaria di Macron. Contano poi i tempi: ci sia riuscito o no, il Pd è nato proprio per avviare quei cambiamenti nel campo della sinistra che il partito socialista francese è costretto ad affrontare solo ora. D’altra parte, a destra, dopo che c’è stato Berlusconi non c’è quasi più nulla che possa dirsi legato alle famiglie politiche del Novecento.

Ma non legato al Novecento, non legato all’establishment, non legato alla vecchia politica è anche il Movimento Cinquestelle, qui da noi. La sfida all’europeismo e alla modernizzazione viene dunque da un’altra parte, e per questo il risultato è molto meno scontato di quanto, stando ai primi sondaggi, non sarà per Emmanuel Macron, al secondo turno delle presidenziali in Francia.

(Il Mattino, 25 aprile 2017)

C’è la paura dietro il monito dell’Europa

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Si può uscire dall’Unione europea? Non a norma di trattati, ma a norma di buon senso? Da ieri la Brexit è realtà. La trattativa tra il Regno Unito e l’Unione Europea durerà due anni, ed è difficile fare previsioni. Difficile persino sapere come sarà il mondo, fra due anni, figuriamoci se si può formulare qualche pronostico attendibile su chi vince e chi perde con la Brexit.

Questo è il momento in cui ascoltare gli economisti solo a una condizione: che si ricordino che l’economia è una scienza morale, una scienza del comportamento umano, e che proprio perciò la formalizzazione matematica dello scambio economico non sempre ci prende: le ragioni di quello scambio, infatti, non sempre sono razionali e non sempre sono economiche. Nel caso della Brexit, è più facile vedere il ruolo che hanno giocato fattori come la tradizione nazionale degli inglesi o la paura di fronte ai fenomeni migratori, che non il puro calcolo economico dei costi e dei benefici. Con l’economia si mescolano la storia, la sociologia, la psicologia e, naturalmente, la politica. A cui toccherà ora interpretare il voto: recuperando l’antica proiezione marittima dell’isola, riverniciando la special relationship con l’America di Trump, difendendo la vocazione finanziaria della City, e magari indovinando la giusta miscela fra amicizia con gli altri popoli europei e un atavico senso di superiorità. Ma insomma: pensare di disporre di una teoria generale del cambiamento storico per prevedere se il Regno Unito andrà lentamente a fondo o invece tornerà a prosperare sui mari di tutto il mondo è abbastanza vano.

Gli inglesi, dal canto loro, abituati a pensare che quando si interrompono le comunicazioni fra i due lati della Manica è il continente a rimanere isolato, hanno sufficiente orgoglio nazionale per non farsi impressionare da qualche numero, buttato lì con nonchalance per cambiare il “sentiment” del Paese in base alle stime sul prezzo che Londra dovrà pagare. Se dunque il Presidente della Commissione europea, Juncker, pensava di fiaccare il morale dei sudditi di Sua Maestà, sentenziando ieri che presto, ahiloro, si pentiranno, ebbene: si sbagliava di grosso.

A pensarci bene, però, quella dichiarazione sembra rivolgersi non tanto all’opinione pubblica britannica, quanto a quella europea. Può darsi infatti che Londra si pentirà, ma questa è cosa che sicuramente si vedrà soltanto in futuro. All’Unione serve invece oggi, subito, di scongiurare analoghe tentazioni fra i suoi Paesi membri, di frenare i movimenti antieuropeisti che punteggiano la cartina dell’Europa, ormai non solo nelle periferie del continente – in Grecia, in Italia – ma anche nel cuore stesso dell’Unione: in Francia, in Germania.

La partita sul futuro dell’Europa è infatti molto più aperta, incerta, di quella che riguarda il futuro degli inglesi. Che, certo, devono, misurarsi con risorgenti spinte indipendentiste, in Scozia e in Irlanda, ma che se non altro hanno, per leggerle, gli strumenti della storia.

L’Unione no. L’Unione esiste da soli sessant’anni, e ha conosciuto finora un solo verso: al riparo dell’ombrello della NATO, ha sperimentato una grande crescita sia economica che civile, e il progressivo allargamento dei suoi confini. A piccoli passi, costruendo una nuova architettura istituzionale, l’Unione ha finora proceduto così. La Brexit inverte il segno di questa storia, e non basta certo una frase di Juncker per assicurare che si tratta solo della scellerata cocciutaggine di un popolo ostinato.

Con il suo monito, il Presidente della Commissione ha parlato in realtà alle paure, non alle speranze degli europei. Chi se ne va, si pente… Si rimane allora seduti tutti intorno allo stesso tavolo, perché guai a lasciarlo, perché non si sa bene cosa c’è fuori, e cosa dunque potrà mai succedere qualora anche noi prendessimo cappello e andassimo via.

Messa così, è messa male per la vecchia Europa. Messa così, l’Unione europea di Juncker sembra reggere solo in forza di una specie di azzardo morale.

L’azzardo morale è quella situazione in cui un soggetto osa quello che non oserebbe se dovesse pagare il conto delle sue decisioni. In altre parole: finché si pensa che fuori dai trattati c’è il caos, l’Unione può reggere anche vivacchiando. Ma qualora questa supposizione dovesse venir meno, lo stallo in cui è finito il progetto europeo non potrebbe più durare.

Il progetto europeo significa, beninteso, molto di più della moneta unica e degli istituti finanziari che debbono sorreggerla. Gli inglesi non ce l’avevano e dunque non poteva essere l’euro a dargli una ragione in più o in meno per uscire o restare. Ma per noi no, per noi non è così. E se l’euro è nato per ragioni politiche ben prima che per ragioni economiche – per tenere dentro una cornice europea la Germania riunificata dopo l’89 – la domanda a cui Juncker e la leadership del continente deve rispondere non è se per gli altri il conto sarà più salato che per noi, ma quali sono, se ancora vi sono, le ragioni profonde per tenere insieme, sotto un unico tetto, i popoli europei.

(Il Mattino, 30 marzo 2017)

Sociale, troppo poco per la nuova civitas

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Non bisogna sottovalutare dichiarazioni di principio e ricorrenze: non scandiremmo la nostra vita secondo un calendario civile, se le date non contassero nulla. Non bisogna sottovalutare neppure le parole, che in certi momenti contano quasi quanto le cose. E tuttavia il programma enunciato ieri a Roma dai leader europei sconta una certa usura del vocabolario con cui declina gli obiettivi da realizzare. Indica, certo, un orizzonte di progresso economico e sociale, che in questi anni si è distribuito tuttavia in maniera diseguale tra le diverse regioni del continente; afferma e fa propria la necessità di lottare contro la disoccupazione, la discriminazione, l’esclusione sociale e la povertà, ma non chiarisce se le politiche conseguenti si ritiene che debbano essere adottate per un principio di equità e giustizia sociale, o per correggere gli indirizzi fin qui adottati di politica economica. Nobile intenzione la prima, ma più incisivo proposito il secondo. Il nodo però non viene sciolto, mentre su altri terreni le poche righe impiegate riescono ad essere chiare e nette.

Sull’affermazione del principio di parità fra uomini e donne, in particolare: dal modo in cui viene riproposto, si comprende benissimo che ha la forza di principiare effettivamente linee di intervento contro le discriminazioni e le diseguaglianze di genere.

Dove infine la dichiarazione appare più lontana dal prefigurare in concreto il contenuto dell’Europa sociale di domani è nel formulare l’impegno perché nell’Unione di domani i giovani possano trovare un lavoro in tutto il continente. Una così pronunciata mobilità della forza lavoro non solo non è alle viste, ma sembra possa interessare una fascia esigua di lavoratori, in grado di spendere le proprie abilità e competenze su un mercato più ampio. La fascia può ampliarsi, ed è anzi auspicabile che si allarghi, ma è chiaro che quell’obiettivo promette un dinamismo che non interessa allo stesso modo il laureato e il diplomato, il professionista autonomo e il dipendente pubblico. Punta alla mobilità di un fattore produttivo, più che alla sua protezione.

Forse non c’è altro modo per riprendere un sentiero di crescita, ma l’impressione è che la dichiarazione di Roma stabilisca comunque un ordine di priorità fra le iniziative comprese nella strategia Europa 2020. La crescita è anzitutto intelligente e sostenibile; soltanto poi solidale.

Quello però è il vero tasto dolente della costruzione europea nata nel 1992 con il Trattato di Maastricht, che declinava il patto di stabilità e crescita, in vista dell’introduzione della moneta unica, sulla base di parametri di carattere economico-finanziari – anzitutto il rapporto tra deficit e Pil non superiore al 3%, e il rapporto tra debito e pubblico e Pil non superiore al 60% – privi di un qualunque contenuto sociale.  Prendeva quel Trattato a riferimento i Paesi virtuosi, sui quali gli altri dovevano regolarsi, ma tra le virtù celebrate dal Trattato non ve n’era alcuna che fosse riferita a parametri a carattere sociale, come per esempio il tasso di occupazione.

C’è un punto almeno che questa impostazione trascurava, e che i successivi passi per “andare oltre Maastricht” non mi pare abbiano recuperato, se non molto parzialmente. Esso riguarda il profilo stesso della cittadinanza. Al quale appartiene anche un contenuto sociale, conquistato dai popoli europei, secondo tragitti storici diversi, lungo tutto il Novecento. Sicché, nel momento in cui si provava a costruire intorno alle stelle della bandiera dell’Unione un nuovo senso di appartenenza alla “civitas” europea, priva inevitabilmente del principale collante storico, quello nazionale, doveva apparire imprescindibile far crescere, non far diminuire la dimensione sociale della cittadinanza. Dalla dichiarazione di Roma io mi sarei dunque aspettato una più convinta presa d’atto che contano, certamente, le regole dell’economia, ma contano pure le regole della politica: non tutto quello che può apparire astrattamente preferibile, sul terreno della razionalità economica, è anche politicamente praticabile. Questa è del resto la ragione per cui di razionalità economiche ce n’è più d’una, e troppo a lungo è sembrato che Maastricht e l’euro fossero solo la traduzione sul continente della cura che oltre Manica e dall’altra parte dell’Atlantico aveva preso il nome, negli anni Ottanta del secolo scorso, di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Ovvero: non esiste la società, esistono solo gli individui; lo Stato è parte del problema, non della soluzione. Questi slogan può darsi anche che possano funzionare: dove però esiste un contesto istituzionale già consolidato, e spazi di democrazia condivisa. Dove invece queste condizioni mancano, il risultato somiglia troppo da vicino a ciò che negli anni è diventata, agli occhi dell’opinione pubblica, la tecnocrazia europea, la burocrazia europea, l’Europa dell’euro: non uno svuotamento della politica, ma una politica priva di quel contenuto sociale senza il quale nessuna solidarietà europea può veramente stabilirsi.

(Il Mattino, 26 marzo 2017)

La tentazione di abolire i Parlamenti

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La critica – radicale, definitiva, inappellabile – che Michelle Houellebecq rivolge, sul Corriere della Sera, all’indirizzo della democrazia rappresentativa richiede, per essere discussa seriamente, un passo indietro. Di quasi tremila anni.

Houellebecq parla alla vigilia delle elezioni presidenziali in Francia – alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, istitutivi del primo nucleo di comunità europea – e non si limita a prendere le distanze dall’offerta politica del suo Paese («mi asterrò con particolare entusiasmo»), ma, nel formularla, vi mette il carico da novanta, esprimendo un rifiuto completo e senza sfumature delle istituzioni parlamentari come tali, dell’idea che democrazia possa ancora voler dire rappresentanza – oggi, in un tempo in cui la tecnologia sembra rendere possibile l’utopia della democrazia diretta. Questo è il suo primo argomento. Il secondo è invece che non è vero, se mai lo è stato, che il popolo è ignorante, e che dunque non può prendere direttamente decisioni politiche che richiedono particolari competenze. Il terzo infine è che solo il popolo è legittimato a decidere, e nessun’altra istanza è più democratica di quella che al popolo rimette le decisioni su ogni e ciascuna materia su cui occorra deliberare.

Nessuno di questi tre argomenti contiene – bisogna pur dirlo, con tutto il rispetto per il più famoso scrittore francese vivente – una critica particolarmente originale della democrazia moderna. Che non ricorre affatto all’escamotage della rappresentanza solo perché non si riesce a sentir tutti su ogni argomento. Che non si dota di organismi parlamentari solo per togliere la parola al popolo, di cui non si fida. E che infine non costruisce percorsi di legittimazione costituzionale solamente per limitare in chiave oligarchica l’esercizio del potere politico. Per tutto questo, si potrebbe rinviare Houellebecq a qualche buon manuale di diritto costituzionale, per regolare le questioni su ciascuno di questi punti, e intanto domandargli chi diavolo sceglierà – quale Staff, quale Garante, quale Blog – gli argomenti da sottoporre a referendum popolare, e chi governerà nel frattempo, tra un referendum popolare e l’altro.

Così replicando, si mancherebbe l’essenziale. Da quando i moderni hanno costruito la libertà politica grazie all’invenzione dei parlamenti, eletti con voto libero, universale e segreto, al fianco degli istituti democratici è subito spuntata, infatti, la critica dei fautori della democrazia diretta: niente di nuovo sotto il sole. Prima di essere una piattaforma dei grillini, Rousseau era effettivamente un filosofo di questa fatta.

Ma l’essenziale – cioè il vento populista che gonfia le vele di Houellebecq – non lo si coglie senza tornare indietro, di tremila anni. A Omero, al secondo canto di quel primo, immenso monumento della cultura europea e occidentale, che è l’Iliade. Sono i versi in cui, dinanzi ai capi achei riuniti, prende la parola Tersite, l’unico soldato semplice a cui Omero presti una voce distinta in tutto il poema. Dunque: parla Tersite, ed è un atto d’accusa spietato, condito di ingiurie e improperi, contro i capi achei che hanno portato i loro uomini sotto le mura di Troia per una guerra di cui solo loro, i capi, si ingrasseranno spartendosi il bottino. Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersiet, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.

Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana.

Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.

Nella sua lunga conversazione, Houellebecq dice ancora un’altra cosa importante, sull’assenza di una cultura europea: ci sono solo culture locali, e poi una «cultura globale anglosassone.» C’è del vero, in questa affermazione, che meriterebbe un lungo discorso. Ma intanto: quella di Agamennone, Tersite e Ulisse non è una storia che appartenga a una cultura locale, e nemmeno alla cultura globale anglosassone. Se Europa fosse anche solo il luogo in cui queste storie si continuano a leggere, studiare e raccontare non sarebbe piccola cosa. Come non lo sarebbe costruire un quadro istituzionale europee che, certo, non risolvesse i suoi problemi picchiando con lo scettro i Tersite che provano a prendere la parola, ma neppure lasciando che lo scettro cada dalla mano di Ulisse e da ogni mano. Perché, quando cade, qualcuno che lo raccoglie nuovamente c’è, e di solito non è un Tersite, ma qualcuno che lo stringe molto più forte di prima.

(Il Mattino, 25 marzo 2017)

 

Europa, la svolta. La storia si rimise in cammino

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«Mister Gorbaciov, apra questa porta! Mister Gorbaciov, tear down this wall! Abbatta questo muro!»: la porta non si aprì – non era quello l’«apriti sesamo!» che  doveva cambiare il mondo – né crollarono i tre metri e mezzo di cemento grigio e filo spinato che attraversavano tutta Berlino, lungo la frontiera che dal 1961 separava la Germania dell’Ovest dalla Germania dell’Est, le democrazie capitalistiche dell’Occidente dal socialismo reale dei paesi d’oltrecortina, l’Alleanza atlantica dal Patto di Varsavia. Però la frase pronunciata dal presidente americano Ronald Reagan dinanzi alla porta di Brandeburgo è rimasta, giustamente, nella storia. Era il 12 giugno 1987 e di lì a poco il Muro sarebbe caduto veramente. Ma erano davvero in pochi a pensarlo, allora. O almeno: pochi potevano immaginare il modo in cui un intero ordine politico si sarebbe sbriciolato quasi per caso in una notte sola: alle ore 23.17 del 9 novembre 1989, quando il comandate delle guardie di frontiera della Germania dell’Est diede l’ordine di aprire Checkpoint Charlie, il luogo di confine delle due Germanie nel cuore della Berlino spezzato dalla Guerra Fredda.

Poche ore prima si era seduto dinanzi alla stampa il compassato portavoce del Politburo, Günther Schabowski, ed aveva annunziato la decisione del Comitato Centrale di eliminare le restrizioni sul rilascio dei passaporti. Per la prima volta, ogni cittadino della Germania dell’Est poteva averne uno. Il tono dell’annuncio era, al solito, quasi anodino, ma si trattava di una bomba. Era quello l’«apriti sesamo», anche se il ligio portavoce non lo sapeva. Quando infatti sarebbe entrato in vigore il nuovo regolamento? Il povero Schabowski non ne aveva la più pallida idea. Guardò le carte, mise e tolse gli occhiali perplesso, poi fece di testa sua e bofonchiò: «In base alle mie informazioni, immediatamente». Ab sofort: da subito. La bomba era esplosa.

I tedeschi dell’Est, che nei giorni precedenti erano già scesi in piazza, a milioni, per chiedere riforme democratiche e libertà di stampa, si precipitarono di nuovo per le strade: sempre più numerosi, sempre meno esitanti, sempre più sfrontati dinanzi alle guardie mute che presidiavano il confine. Alla successiva domanda – «che ne sarà del Muro di Berlino?» – Schabowski, nella conferenza stampa del pomeriggio, non aveva saputo rispondere; di fronte alle decine e decine di migliaia di berlinesi che si dirigevano a sera verso Checkpoint Charlie, ai riflettori delle tv occidentali che si accendevano dall’altra parte del Muro, ai tedeschi dell’Ovest che gridavano «Venite! Venite!», neanche il comandante delle guardie seppe bene cosa fare. Infine decise: fece alzare le sbarre. Il Muro non c’era più.

Quando però aveva davvero cominciato a vacillare? Forse con l’elezione di Mikhail Gorbaciov alla guida dell’URSS, nel 1985, e la sua destabilizzante «perestrojka», la politica di riforme che doveva trasformare radicalmente il sistema economico sovietico e introdurre maggiore trasparenza, «glasnost», nella vita pubblica di un Paese ormai sclerotizzato. O forse con il rilancio della corsa agli armamenti voluta dal 40° presidente degli Stati Uniti d’America, il californiano Ronald Reagan, determinato a vincere la Guerra Fredda e a sconfiggere definitivamente il comunismo. O magari con l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla, e l’appoggio dato dalla Chiesa polacca al sindacato clandestino Solidarnosc: la ribellione degli operai di Danzica, guidati da Lech Walesa, era stata schiacciata nel 1981 dal colpo di stato del generale Jaruzelski, ma aveva mostrato al mondo che i regimi socialisti erano ormai giganti dai piedi d’argilla, privi di qualunque credibilità e consenso presso la popolazione, tenuti in piedi solo dall’esercito e dai metodi polizieschi dei vari partiti comunisti al potere.

In realtà, se c’è un concetto che è difficile maneggiare, nel raccontare la storia, è quello di inizio. Le date servono a mettere un punto, ma i periodi storici non cominciano mai da lì. Non funziona come nei romanzi: non c’è un incipit. Ci sono invece molteplici processi: alcuni più veloci, altri più lenti; alcuni più incisivi, altri meno, così che la figura di un mondo nuovo, che a volte si disegna all’improvviso, come a Berlino la notte del 9 novembre, erompe a partire da un concorso di cause che è vano voler ridurre a una soltanto. Tutti ricordano quella formidabile notte: le persone che si arrampicano sul muro, quelli che ballano, quelli che con il martello provano a scalfire il mostro di cemento, e i tedeschi dell’Ovest che abbracciano quelli dell’Est, e fiumi di birra che scorrono. La potenza simbolica di quelle immagini, l’emozione che suscitarono fu enorme: finiva la Guerra Fredda, finiva il comunismo, finiva la divisione fra le due Germanie. Per qualcuno finiva addirittura la storia: Francis Fukuyama non avrebbe mai scritto, nel 1992, il suo discusso saggio sulla fine della storia, nel quale si celebrava la definitiva vittoria della democrazia come sistema politico e del capitalismo come sistema economico, se il Muro non fosse venuto giù, se quella vittoria non l’avesse vista celebrata sotto la porta di Brandeburgo; se il canuto Honecker, presidente della DDR, non fosse stato costretto a lasciare Berlino per fuggire a Mosca; se il dittatore romeno non fosse stato deposto, poi fucilato; se il Presidente Husák e il segretario Miloš Jakeš, in Cecoslovacchia, non fossero stati costretti dalla «rivoluzione di velluto» a lasciare il Paese; se insomma non fosse crollato l’ordine di Jalta, uscito dalla seconda guerra mondiale, e cambiata, insieme alla Germania riunificatasi nel giro di appena un anno, la geografia politica dell’Europa intera.

Se però vogliamo proprio trovare un inizio della fine allora bisogna dire: dicembre 1988, alle Nazioni Unite Gorbaciov annuncia il ritiro unilaterale di 250.000 uomini dall’Europa orientale. La superpotenza non ha più i soldi. Da quel momento, con la rinuncia alla dottrina interventista del PCUS – quella che aveva portato i carri armati russi a Budapest nel ’56, a Praga nel ’68 – prendono forza, in tutti i paesi del blocco sovietico, le spinte disgregatrici. Tutti ricordano il Muro, ma nel maggio dell’89 era stato il primo ministro ungherese, Miklós Nemeth, scontrandosi col partito, ad annunciare che non avrebbe più sostenuto le spese per mantenere in funzione la barriera elettrificata al confine con l’Austria. Il Muro c’era ancora, per Honecker sarebbe durato ancora cent’anni, ma passando per l’Ungheria diveniva già possibile raggiungere l’agognato Occidente.

I percorsi della storia sono strani. Come è difficile stabilire un inizio, così lo è anche capire come le cose andranno a finire. A fianco di Nemeth, a chiedere a gran voce di seppellire il comunismo, c’era Viktor Orbán: allora giovane leader democratico, paladino delle libertà civili, oggi padrone indiscusso del Paese, a cui ha impresso una forte torsione con serissime limitazioni dei diritti, che preoccupano l’Unione europea. Evidentemente, le vie per conquistare e mantenere la democrazia non sono sempre rettilinee, e certe soluzione autoritarie tornano volentieri ad affacciarsi.

E in Italia? La fine del socialismo reale non poteva non ripercuotersi sul nostro paese, imperniato su due grandi partiti, uno dei quali, il PCI, aveva sì reciso il cordone ombelicale con i comunismi dell’Est e sperimentato una via nazionale e democratica, ma rimaneva permeato di culture, simboli e modelli legati al blocco sovietico. Anche l’Italia franò. Ma il colpo di maglio dell’inchiesta milanese di «Mani pulite» è venuto dopo, nel ’92; le cause internazionali hanno preceduto quelle endogene; la perdita di funzione storica ha preceduto la débâcle morale. Non a caso, troncando un dibattito ormai avviato da mesi, solo tre giorni dopo la caduta del Muro, Achille Occhetto, da poco segretario del PCI, si dichiarò pronto a cambiare anche il nome del partito, cosa che accadrà, senza rinunce o abiure, due anni dopo. Da quel giorno, nomi e partiti in Italia non hanno mai smesso di cambiare, in una girandola ininterrotta, e il sistema politico italiano non ha più ritrovato un assetto stabile.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia. La nostra.

(Il Mattino, 16 marzo 2017; numero celebrativo per i 125 anni del quotidiano)

 

 

Maggioranza e minoranza, ecco dove il Pd si è spaccato

Massimo Adinolfi, Nando Santonastasopd

Nuovi gruppi parlamentari, e presto anche nuovi soggetti politici: la scissione nel Pd è ormai cosa fatta. Ma fatta perché o per cosa? Ragioni di posizionamento politico, lotte di potere, ambizioni personali contano, ovviamente. Ma hanno comunque bisogno di un vocabolario per articolarsi, di un lessico per dirsi e per spiegarsi. Siccome non sono più disponibili i vecchi schemi ideologici, la scissione cammina sui temi e le politiche di questi anni, tra antiche velleità e nuove ambizioni. Dopo dieci anni, il partito democratico non ha ancora chiaro quale debba essere il suo complessivo orizzonte culturale: se deve spingere di più sul pedale dell’innovazione, o recuperare parte del bagaglio teorico abbandonato nel corso degli anni, se essere più testardamente socialdemocratico o più spregiudicatamente liberale, se puntare di più su apertura, speranza e futuro, o se invece offrire più sicurezza, protezione, assistenza. Se reinventarsi o ritrovarsi. E se, più prosaicamente, rivendicare o ripudiare le politiche fatte stando al governo. Il dibattito apertosi dentro il Pd, soprattutto dopo il referendum del 4 dicembre, prosegue ora anche fuori, con la scissione, anche se non così fuori e lontano come appaiono le posizioni di Sinistra italiana. In ogni caso, era giusto parlare di maggioranza e minoranza, come abbiamo fatto, perché la ricerca di spazio e di identità della sinistra non è cominciata con la scissione, e non finisce con essa. Di sicuro nel vocabolario della crisi entrano tanti, forse troppi disitnguo che hanno segnato, irrimediabilmente, la storia interna del maggiore partito italiano negli ultimi anni. Rari i momenti di scelte condivise, fino allo scontro totale che ha preceduto la sconfitta dell’ex premier e della maggioranza al referendum costituzionale. Oggi che i venti di scissione sono diventati certezza, si apre una nuova fase dagli sviluppi complicati, condizionata come sarà dalla nuova prospettiva proposizionale che si intravede nella nuova legge elettorale. Ed è qui che i giochi torneranno a essere decisivi, come non è difficile prevedere.

Il Jobs act. Su articolo 18 e bonus lo scontro più duro

È uno dei nervi scoperti del Pd, il fronte forse più acceso di contrasto tra maggioranza e minoranza. La riforma del lavoro, difesa a spada tratta da Renzi, ha puntato tra le priorità al ritorno a politiche attive del lavoro, alla creazione di nuova occupazione dopo gli anni della recessione attraverso incentivi e semplificazione burocratica, all’abolizione dei vincoli sui licenziamenti chiesta a gran voce dalle imprese. Sostenuta dall’Ue, che l’ha sempre considerata giusta e moderna, la riforma è finita subito nel mirino della minoranza. L’abolizione dell’articolo 18 e la possibilità dei licenziamenti collettivi hanno creato un solco mai colmato («Errore clamoroso», disse non a caso Speranza nel giorno dell’approvazione della legge). Ma anche i modesti risultati sui nuovi posti di lavoro e sull’occupazione giovanile in particolare sono stati imputati dai “bersaniani” ai limiti oggettivi della legge.

L’Imu. La tassa sulla prima casa tra distinguo e polemiche

Altro terreno di forte scontro, l’aboliione dell’imposta sulla prima casa. Il governo Renzi e la maggioranza Pd l’hanno estesa a tutti, senza alcuna eccezione in base alle categorie di reddito come invece chiedeva la minoranza per la quale il provvedimento è stato considerato sin dall’inizio un ulteriore “regalo” al centro politico che ha sostenuto l’esecutivo. Per Renzi quella scelta è stata invece il primo passo per un progetto più complessivo di abolizione della tassazione sulle famiglie che avrebbe dovuto portare anche alla riduzione delle aliquote Irpef, sponda che la crisi del post-referendum ha reso irraggiungibile. Per la minoranza resta al contrario l’idea-forte di tassare di più i redditi e i patrimoni alti spingendo al massimo la lotta all’evasione fiscale per recuperare le risorse necessarie.

Le alleanze. Sguardi bifronti: dal centro al richiamo della sinistra

Non si sa con quale legge elettorale si andrà a votare, né quando, ma è convinzione diffusa che la legge avrà un impianto proporzionale. Le prossimen maggioranze si formeranno dunque in Parlamento: come nella prima Repubblica, salvo il fatto che la solidità e la compattezza dei partiti di allora è incomparabilmente superiore a quelle delle formazioni politiche attuali. Ciò detto, la minoranza disdegna di guardare verso il centro, mentre la maggioranza del Pd trova più facile tirare una linea di demarcazione a sinistra. Qeusto in teoria, perché per arrivare al 51% è sempre più probabile che ci sarà bisogno di formare coalizioni molto ampie, a meno di non volersi sottrarre alla prova del governo. Ma pezzi della minoranza coltivano l’illusione di riaprire il discorso con il M5S, mentre in settori della maggioranza affascina ancora il modello neocentrista del “partito della nazione”.  

Il welfare. Lotta alla povertà: piani e “strappi” senza sbocchi

La povertà e le misure per contrastarla sono state un terreno quasi inevitabile, anche dal punto di vista ideologico, di contrasto. Il governo Renzi e la maggioranza hanno sempre detto di no all’idea di un reddito di cittadinanza “modello 5 Stelle”, puntando sul reddito di inclusione e aumentando le risorse destinate al Fondo di solidarietà per le famiglie del disagio sociale. I tempi però non sono stati brevi perché il ddl illustrato dal ministro Poletti a febbraio non ha ancora completato l’iter. La minoranza ha presentato proposte se non alternative quanto meno diverse puntando soprattutto ad estendere la platea dei beneficiari degli 80 euro (in base ai componenti del nucleo familiare) attraverso la revisione del codice Isee e degli aventi diritto al bonus bebé. Dialogo spesso tra sordi ma mai interrottosi.

I diritti. Su unioni civili e cannabis uniti senza se e senza ma

Sui temi dei diritti civili, sulle materie eticamente sensibili, il partito democratico è forse meno diviso che in passato. In Parlamento e nelle Commissioni sono in discussione almeno tre argomenti delicati: la legalizzazione delle cannabis, lo ius soli, il testamento biologico. Su posizioni progressiste si trovano tanto esponenti della maggioranza quanto esponenti della minoranza. Così è stato anche al momento di votare le unioni civili, nel 2015: Renzi ne aveva fatto un punto qualificante della sua campagna per le primarie, ma quella legge ha il consenso anche di Speranza o di Rossi. Quando fu varata, si accantonò il tema della stepchild adoption, ma nelle discussioni in corso nessuno lo ha indicato come uno dei punti sui quali fare una battaglia nel prossimo futuro.

Le privatizzazioni. Forti divisioni sul mercato ma la crisi riduce le distanze

La linea della maggioranza renziana è stata chiara sin dall’inizio: mettere sul mercato quote, mai la maggioranza, dei cosiddetti campioni nazionali del sistema industriale e produttivo del Paese (da Eni a Poste) per favorire lo sviluppo della competitività attraverso il mercato e consentire l’attrazione di capitali stranieri, indispensabili alla crescita. Di tutt’altro avviso la minoranza anche se lo stesso Bersani, ministro del governo Prodi, non ha mai nascosto che certe scelte di ispirazione blairiana andavano fatte e condivise (non a caso le “lenzuolate” rimandano al suo nome). Oggi però quelle ricette non vanno più bene di fronte alla povertà e alla strategia politica delle “destre”. Non a caso lo stesso Renzi ne ha tenuto conto negli ultimi tempi rivedendo almeno parzialmente l’impostazione originaria.

Le tasse. 80 euro, Ires, Rai: i tagli non ricompongono l’intesa

«Continuare a ridurre le tasse per i cittadini, fare di tutto per incentivare il lavoro e produrre ricchezza, perché solo così riparte la nostra economia». Renzi e la maggioranza hanno insistito moltissimo su questo punto: non solo l’Imu ma anche il bonus degli 80 euro, la riduzione del canone Rai, il taglio di Iri e Ires per le imprese, l’abolizione dell’Imu agricola sono tutti provvedimenti, spiegano, che dimostrano in modo inequivocabile la scelta di avviare concretamente l’annunciata diminuzione della pressione fiscale. La minoranza replica impugnando l’addio all’Imu: non si può togliere l’imposta anche a chi dichiara redditi da un miliardo. Meglio, si insiste, dedicarsi agli investimenti che incidono di più sulla crescita. Replica di Renzi nel fiore delle polemiche: «Per i cittadini stiamo riducendo troppo poco le tasse invece per (alcuni?) i politici le stiamo riducendo troppo. Non è fantastico?».

L’Europa. Fiscal compact, che errore. Stavolta tutti lo riconoscono

È un terreno che avvicina molto maggioranza e minoranza, peraltro d’accordo su quella che oggi viene considerata una scelta-capestro per un Paese con un elevato debito pubblico. Parliamo dell’adesione al fiscal compact “imposta” dal patto tra il governo Monti e l’Unione europea e considerato quattro anni fa come un punto irrinunciabile per riconquistare la fiducia di Bruxelles. Il pareggio di bilancio, votato dal Parlamento (Pd pressoché compatto) e inserito nella Costituzione, si è rivelato con il tempo una sorta di trappola: da tempo Renzi chiede la fine di politiche di rigore e austerità dell’Ue e su questo terrno non ha trovato opposizioni interne. La minoranza chiede però che il partito si impegni per una forte politica di redistribuzione dei redditi e sul come agire le distanze interne restano.

Gli statali. Una bocciatura che apre altri fronti di contrasto

La riforma tutto sommato non aveva trovato fortissime opposizioni: la decisione di mettere mano alla macchina pubblica, specie per eliminare privilegi e distorsioni organizzative e di carriera, rilanciando finalmente la credibilità del settore, non aveva incontrato resistenze di sorta. Il diavolo però ci ha messo lo zampino, nel senso che la decisione della Consulta di bocciare tre passaggi decisivi del piano predisposto dal ministro Madia ha finito per trasformarsi in un ulteriore motivo di scontro interno anche perché capitato nel bel mezzo delle tensioni per la riforma costituzionale. Olio bollente sull’incendio, insomma. Non è un caso che anche all’interno del partito la riproposizione del ministro nella nuova squadra di governo era considerata poco probabile. Non per Renzi che sulla riconferma del “suo” ministro non ha avuto alcun dubbio rilanciandola anche con Gentiloni.

I riferimenti. Tra Schulz il socialista e Macron l’outsider

Ora che Martin Schulz si è tuffato nella campagna elettorale tedesca, staccando la Merkel nei sondaggi, c’è la possibilità di dire che forse non tutto, del vecchio bagaglio di idee della socialdemocrazia, è da buttare. Perché Schulz ha rivitalizzato la SPD, proponendo di smantellare l’indirizzo politico economico seguito dalla Germania negli ultimi anni (dalla Merkel, ma prima ancora dallo stesso Schrøeder, il cancelliere socialdemocratico che spostò il partito verso il centro): niente austerità, retromarcia sui contratti a tempo e sul salario minimo, che invece di garantire i lavoratori ne comprime i redditi. Lo slogan suona: «è tempo di maggiore giustizia sociale, è il tempo di Martin Schulz». Schulz però entusiasma solo la minoranza, perché la maggioranza renziana pensa piuttosto a Macron, il rottamatore d’Oltralpe che si candida all’Eliseo fuori dagli schemi, oltre la destra e la sinistra.

 La scuola. La riforma della discordia ha spaccato anche il partito

La riforma della scuola è stata una buccia di banana per Renzi e il Pd. Non a caso, nel governo Gentiloni manca solo la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini. Il giudizio della maggioranza, che quella riforma ha voluto e votato, è ovviamente positivo, ma si appoggia soprattutto sull’entità delle risorse messe a disposizione, sul numero delle assunzioni, sull’indizione del concorso. La filosofia della riforma – autonomia, nuovo ruolo della dirigenza, alternanza scuola-lavoro – è molto più timidamente difesa. La minoranza invece la ritirerebbe oggi stesso. E forse sottoporrebbe a revisione tutto l’indirizzo di riforma dei governi di centrosinistra dai tempi del ministro Luigi Berlinguer ad oggi. Ma la scuola è stato anche il terreno di una frattura con tradizionali mondi di riferimento della sinistra, che la minoranza vuole recuperare, che la maggioranza ha qualche difficoltà a rifondare.

Il sistema elettorale. Il ritorno al proporzionale occasione o iattura

La legge con cui voteremo sarà quasi sicuramente una legge proporzionale, più o meno corretta. Ma questo è un giudizio di fatto, che tiene conto della sconfitta di Renzi al referendum e della sentenza della Corte Costituzionale. Il giudizio di valore però è diverso: per gran parte della maggioranza, il proporzionale è quasi una iattura, e l’Italia rischia di scivolare nuovamente nel pantano di governi deboli e coalizioni litigiose. Se potesse correggere in senso maggioritario la legge, lo farebbe. Diverso l’avviso della minoranza, che considera il proporzionale il vestito ordinario delle democrazie parlamentari, e teme ogni rafforzamento dei momenti della decisione, ogni irrobustimento dell’esecutivo a scapito del Parlamento, che passi attraverso correzioni maggioritarie, collegi uninominali, soglie di sbarramento elevate.

Il Mezzogiorno. Masterplan e Patti al via tra dubbi e “resistenze”

Non ha forse assunto il rilievo di uno dei temi più caldi dello scontro interno ma di sicuro anche le politiche per il Sud hanno diviso il Pd. Almeno nel senso che i percorsi individuati per ridurre il divario, obiettivo comune a tutto il partito, non sono apparsi sempre condivisi. Renzi dopo un anno di incertezze e di distacco («Basta piagnistei, basta con la denuncia del Sud abbandonato» ecc. ecc.), forse anche sotto il peso della critica dei territori, ha dedicato al Mezzogiorno un masterplan e 16 Patti con Regioni e Città metropolitane, tutti almeno teoricamente decollati. Ma non è caso che proprio al Sud si sia consumata la fetta più ampia della sconfitta al referendum e che le resistenze di Emiliano in Puglia abbiano avuto un peso anche mediatico tutt’altro che trascurabile.

L’immigrazione. Accoglienza e inclusione ma con diversi accenti

Su questo tema non è sempre chiaro se si confrontino nel Pd diverse sensibilità o diverse politiche. Perché il partito democratico è per l’accoglienza e l’inclusione. Ma con regole, che rendano governabile il fenomeno. Cosa più facile a dirsi che a farsi. Così capita che, a seconda degli umori (o delle tragedie) gli accenti si spostino ora sulla sicurezza, ora invece sulla solidarietà. Un banco di prova sarà presto offerto dalle nuove misure varate dal governo Gentiloni: più poteri ai sindaci, che potranno allontanare dal territorio comunale soggetti responsabili di violazioni reiterate, velocizzazione delle procedure relative al diritto d’asilo, per accelerare eventuali rimpatri. La maggioranza non avrà tentennamenti, ma nella minoranza si faranno sentire posizioni più sbilanciate a sinistra, che temono svolte di carattere securitario.

Le riforme. Il referendum spartiacque su Costituzione e poteri

Dopo lo scontro sul referendum, c’è da ritenere che per un po’ non se ne riparlerà, ma questo non vuol dire che sul terreno delle riforme costituzionali non si sia prodotto una lacerazione. Non solo perché la minoranza ha votato no, mentre la maggioranza ha votato sì, ma perché il no è stato accompagnato da valutazioni perentorie: riduzione degli istituti di garanzia, pericolo di deriva autoritaria. In questione non era il superamento del bicameralismo, né il Senato delle regioni, ma l’impianto complessivo della riforma, che ricordava agli oppositori le aspirazioni di Craxi o il progetto di Berlusconi e Calderoli. Una cosa di destra, insomma, che deturpava uno dei miti fondanti della Repubblica, quello della Costituzione democratica nata dall’antifascismo. Proprio il genere di argomenti che, agli occhi dei fautori, condanna da decenni il Paese all’immobilismo in tema di riforme.

Il partito. Primarie aperte a tutti o più peso per gli iscritti

I democratici sono l’unica formazione politica attualmente in campo che conserva il nome di partito. A volte sembra un motivo di orgoglio, altre volte un inutile fardello. Di sicuro la minoranza imputa a Renzi le maggiori responsabilità per la scissione, accusandolo di non aver saputo o voluto tenere insieme una comunità. Per Renzi e i suoi, è la minoranza che rifiuta le regole democratiche del confronto e della decisione. Al fondo stanno però idee diverse sulla forma-partito. Non a caso, per la minoranza il problema è già nello statuto, che per via delle primarie aperte dà poco peso agli iscritti e proietta la leadership in un rapporto diretto coi cittadini. Cosa che per la maggioranza è, al contrario, un titolo di merito. Infine: Renzi ha fortemente voluto l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la minoranza volentieri tornerebbe indietro.

(Il Mattino, 22 febbraio 2017)