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La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

La nuova gauche senza complessi

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Il voto francese mostra alcune cose con una certa chiarezza.

La prima: gli elettori hanno apprezzato con Emmanuel Macron un’offerta politica nuova, non strutturata in una formazione politica di tipo tradizionale, fondata sulla capacità di aggregazione di una singola personalità.

La seconda: i partiti storici sono stati nettamente battuti, tanto a sinistra quanto a destra. Le conseguenze si sono fatte subito sentire. Fillon ha già presentato le dimissioni e dunque non guiderà il centrodestra alle prossime elezioni legislative, mentre a sinistra l’ex premier Manuel Valls ha dichiarato che il partito socialista è giunto alla fine di un ciclo, e forse alla fine della sua storia. Mi piacerebbe parlare di una ricostruzione, ha aggiunto, ma forse è presto: per ora siamo «in una fase di scomposizione, di demolizione, di decostruzione».

La terza cosa: la vittoria di Macron è stata certamente favorita dalla sua collocazione al centro dello spettro politico, dove lo spazio si era fatto più ampio che mai, dopo la vittoria di Hamon su Valls, nelle primarie del partito socialista, e quella di Fillon su Alain Juppé, a destra. Per l’elettorato francese, i due partiti tradizionali si erano dunque spostati verso le estreme, con un riflesso identitario che ha potuto forse rassicurare la base dei rispettivi schieramenti, ma non ha pagato nella competizione. L’uno e l’altro si sono fatti simili ai candidati più estremisti, e alla fine dall’uno e dall’altra sono stati scavalcati: Mélenchon ha umiliato Hamon a sinistra; la Le Pen ha superato Fillon a destra. Una débacle, insomma.

Il quarto punto riguarda la geografia politica della Francia, che esce dal voto di domenica: la Le Pen ha le sue roccaforti nel Nord Est e nel Sud della Francia; Macron vince nel Nord Ovest e nelle città, prima fra tutte Parigi.

Il quinto punto riguarda invece l’assetto istituzionale, che non ostruisce ma anzi rende possibile il passaggio da una Francia all’altra: dalla Francia di socialisti e gollisti alla Francia di macronisti e lepenisti. Anche in una fase di profonda trasformazione del sistema politico il Paese non rischia l’ingovernabilità.

La sesta istruzione che viene dal voto riguarda le piattaforme politiche uscite vincitrice dal primo turno: non potrebbero essere più distanti. E alla fine gli elettori hanno tenuto aperte entrambe le vie: quella europeista e quella antieuropeista. Per Macron, fuori dell’Unione non c’è salvezza. Per Marine Le Pen, c’è salvezza solo fuori dell’Unione europea. Non v’è dubbio che qui vi è un discrimine molto preciso: non si può dir male dell’Europa e votare Macron, come non si può dirne bene e votare Le Pen. Tutti gli altri temi della campagna elettorale presentavano molte più sfumature di quanto non ne presenti il tema europeo: per Macron, la Francia è la Francia solo in Europa; per la Le Pen l’Europa può passare, la Francia eterna resta.

Settima e ottava istruzione (a sinistra): vi può dunque essere un europeismo senza complessi, senza ipocrisie, senza colpi al cerchio e alla botte insieme. Ma ne viene anche, per conseguenza, una linea di frattura molto chiara e incomponibile con la sinistra radicale, che votando Mélenchon dichiara di vedere in Macron una novità puramente cosmetica, una mera riverniciatura delle politiche neoliberali di questi anni, una perpetuazione sfacciata dell’establishment con gli stessi mezzi anche se non con gli stessi volti. Mélenchon che prende quasi il 20%, surclassando il partito socialista di Hamon, significa: i contenuti sociali di una formazione di “vera” sinistra non possono più stare su una linea di continuità con le politiche dell’Unione. (En passant, una lezione che viene dalla storia: la sinistra che ragiona in termini di “vera” o “falsa” sinistra, perde sempre). Nei confronti dell’Ue, Mélenchon ha in effetti toni più vicini a quelli della Le Pen che a quelli di Macron: non a caso non ha detto una sola parola di sostegno per Macron, neppure turandosi il naso, in chiave repubblicana e antifascista. Il pericolo non è la destra populista e xenofoba, in definitiva, ma la megamacchina del finanzcapitalismo, per dirla con l’aspro neologismo coniato da noi da Luciano Gallino.

Il punto numero nove riguarda invece la destra nazionalista e sovranista di Marine Le Pen. Che ha conseguito un risultato storico, che forse può crescere ancora, ma che non ha sfondato e difficilmente sfonderà al secondo turno. In ogni caso, più che dire che non vi sono più la destra e la sinistra risulta che anche di destre, come di sinistre, ce ne sono due. E che anche a destra, almeno in Francia, non riescono a sommarsi, ma anzi si contrappongono duramente l’una all’altra. È questo che rende più facile parlare perciò di altri tratti discriminanti: apertura e chiusura, progresso e conservazione, globalizzazione sì o no, modernizzazione o rifiuto della modernità.

Il decimo punto, infine, è in realtà meno chiaro di tutti gli altri, e riguarda il possibile raffronto con la situazione italiana: Macron è il Renzi francese? E chi è l’emulo della Le Pen in Italia: Salvini, la Meloni o anche Grillo? È evidente che certi significanti tornano, e potranno essere decisivi nel prossimo futuro: europeismo, populismo, riformismo. Quello che però non torna – o almeno non coincide – è il confronto sul piano istituzionale ma anche l’articolazione dell’offerta politica. Noi non abbiamo il semipresidenzialismo francese, e questo fa la differenza. E spiega forse per esempio perché Renzi non ha scelto la strada solitaria di Macron. Contano poi i tempi: ci sia riuscito o no, il Pd è nato proprio per avviare quei cambiamenti nel campo della sinistra che il partito socialista francese è costretto ad affrontare solo ora. D’altra parte, a destra, dopo che c’è stato Berlusconi non c’è quasi più nulla che possa dirsi legato alle famiglie politiche del Novecento.

Ma non legato al Novecento, non legato all’establishment, non legato alla vecchia politica è anche il Movimento Cinquestelle, qui da noi. La sfida all’europeismo e alla modernizzazione viene dunque da un’altra parte, e per questo il risultato è molto meno scontato di quanto, stando ai primi sondaggi, non sarà per Emmanuel Macron, al secondo turno delle presidenziali in Francia.

(Il Mattino, 25 aprile 2017)

La speranza contro la paura

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Ora è chiara la scelta che la Francia è chiamata a compiere: se gli exit poll verranno confermati dal risultato finale, al ballottaggio andranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen, l’europeista e l’euroscettica, il progressista liberale e l’estremista di destra, ed il voto sarà dunque decisivo per il futuro della Francia, ma forse anche per quello dell’Unione Europea. Che dopo gli anni della crisi, gli anni che hanno messo in ginocchio le economie periferiche dell’eurozona, e dopo l’esito imprevisto del referendum sulla Brexit, che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione, con ogni probabilità non reggerebbe una vittoria della destra lepenista, anti-euro e anti-immigrati. «Ritrovare la nostra libertà restituendo al popolo francese la sua sovranità: monetaria, legislativa, territoriale, economica»: questa la professione di fede di Marine. All’opposto, Macron dichiara di puntare ad un’Europa ambiziosa «che saprà ritrovare la sua vitalità e il gusto per l’avvenire». Le due passioni politiche fondamentali sono dunque in campo: la paura e la speranza. Le Pen agita le paure, e promette di «rimettere in ordine» la Francia; Macron anima una speranza, e promette di costruire una Francia nuova e più moderna. (Con Parigi, la città europea più colpita dagli attentati, che dà a Macron oltre il 30%, e a Le Pen solo il 5% circa).

Questo è però solo il primo punto del confronto politico in corso, ed è quello che più da vicino riguarda anche l’Italia, posta dinanzi ad uno spartiacque analogo, nel confronto fra le formazioni populiste e sovraniste – prime fra tutte la Lega e i Cinquestelle – che seminano dubbi sulla tenuta dell’euro e sulla riformabilità delle politiche che ne hanno accompagnato l’istituzione – e i partiti di centro e di sinistra, primo fra tutti il PD, che invece scommettono sul rilancio di una prospettiva europeista.

Ma la sfida Macron-Le Pen ha anche un altro significato, che per i nostri cugini d’Oltralpe non è meno rilevante. Essa sancisce infatti la drastica trasformazione del sistema politico francese. La Quinta Repubblica si reggeva infatti sul confronto fra socialisti e gollisti: da queste famiglie politiche sono venuti finora tutti i suoi presidenti, da Mitterand a Chirac, da Sarkozy a Hollande. Nel ballottaggio che si disputerà fra due settimane, le due principali forze politiche del Paese non saranno, invece, presenti. Non era mai successo. Così come, del resto, mai era successo che non scendesse in lizza il Presidente uscente. Invece Hollande ha preso cappello ancora prima che lo invitassero gli elettori (si immagina bruscamente) a farlo. Non solo, ma il candidato socialista, Hamon, è finito molte lunghezze dietro Macron e, a quanto pare, anche dietro Mélenchon, dietro cioè il rappresentante della sinistra più radicale. Il partito socialista è apparso dunque come la pietanza più scialba che un elettore potesse consumare: né di là né di qua, né contro l’Europa né a favore, né con i lavoratori né contro, né illiberale né liberale. Insomma, per ogni bandiera che innalzavano Melenchon o Macron, il socialismo di Hamon ne ammainava una: malinconicamente e senza neanche capire bene da che parte voltarsi. Dietro la scelta vincente di Macron, di mollare il vecchio partito socialista e di mettersi in cammino c’è però anche il peso rilevante dell’elemento personale. Che significa: la credibilità politica è oggi molto più legata ai volti e alle storie individuali che alle forze e alle storie collettive.

A destra Fillon ha perso anzitutto per via degli scandali familiari che ne hanno azzoppato la candidatura. Vero. Ma vero anche che se la linea di divisione del campo politico doveva essere tracciata prioritariamente dalla lotta contro il totalitarismo islamista, allora era difficile che a farsene interprete non fosse la destra sicuritaria e nazionalista della Le Pen. L’ultimo argomento che ha usato Fillon è stato invece: votare Marine significa ritrovarsi Presidente Macron. Aveva ragione, solo che è toccato a lui per primo dichiarare il suo sostegno per Macron: alle 20.44 di ieri sera, alle primissime avvisaglie dell’esito per lui infausto del voto, il campione conservatore ha compiuto, obtorto collo, la scelta «repubblicana» di convergere sul candidato progressista, in funziona di argine contro la destra erede di Vichy, xenofoba e post-fascista.

Proprio questa mette ora l’outsider Macron nella posizione di grande favorito per il ballottaggio: dalla sinistra che non può votare la Le Pen (se non in quelle frange più estreme, che sposano la logica dello sfascio e del tanto peggio, tanto meglio), alla destra moderata di Fillon, tutti sono con lui. Il suo posizionamento centrale paga: la strada per arrivare all’Eliseo è ora larga e in discesa.

Non è detto però che, il giorno dopo il voto, per Macron non cominceranno subito le grane. Perché a giugno si vota per l’Assemblea legislativa, e anche lì bisognerà trovare convergenze. Lì il voto dei vecchi partiti continua a pesare: per tradizioni, radicamento territoriale, personale politico, cose che al giovane movimento di Macron mancano ancora. Lì il vento del cambiamento deve ancora arrivare, e il nuovo Presidente dovrà fare probabilmente l’esperienza di governi non di coabitazione con l’opposizione (come pure è capitato in passato, a Mitterand e a Chirac), ma di governi di coalizione piuttosto eterogenei. Un campo in cui, molto più della Francia, è l’Italia ad avere un non sempre invidiabile know-how.

(Il Mattino, 24 aprile 2017)

Se la caduta di Corbyn spegne la fiammata ideologica a sinistra

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Il voto largamente maggioritario con il quale i parlamentari laburisti inglesi hanno espresso la sfiducia verso il loro leader, Jeremy Corbyn, ha forse un significato che va oltre la crisi profondissima del Labour, e investe l’orizzonte stesso del socialismo europeo. Corbyn ha già detto che non lascerà: nonostante i 176 voti a lui sfavorevoli (contro 44 a favore), nonostante le dimissioni in massa dal governo ombra, nonostante l’opinione pubblica progressista lo accusi di aver condotto una compagna molto blanda a favore del “Remain”. Sostiene di avere ancora dalla sua la base e i sindacati, e non c’è norma nel partito che lo possa costringere a dimettersi. Ma, anche così, la rappresentazione che il Labour offre, di un partito spaccato fra militanti ed eletti, è di per sé la più inequivocabile immagine di un fallimento strategico.

Dopo gli anni di Blair, il Labour ha virato a sinistra, prima con Ed Miliband poi, ancor più nettamente, con Jeremy Corbyn. Questa svolta è stata da taluni giudicata necessaria, per ritrovare l’anima di un partito svenduta da Tony Blair con la guerra in Iraq, da altri invece giudicata puramente difensiva, nostalgicamente ripiegata su posizioni da vecchio Labour. Per i primi, è finalmente la riscoperta del tema dell’ineguaglianza, smarrito a sinistra dietro le false luci dell’opportunità e del merito individuale; per gli altri, si tratta in realtà della solita ricetta statalista, ormai improponibile nell’epoca della globalizzazione dei mercati. Di sicuro, pezzi del programma di Corbyn – come la rinazionalizzazione delle ferrovie – avrebbero trovato in Bruxelles un fortissimo ostacolo, e questo spiega la tiepidezza, la riluttanza e l’ambiguità in cui Corbyn si è mantenuto durante tutta la campagna elettorale. Incertezza e indecisione in politica non pagano, e ora Corbyn rischia di perdere la leadership del partito.

Ma il punto di crisi è più generale, e davvero strategico. E tocca i laburisti inglesi quanto i socialisti francesi o quelli spagnoli: si può immaginare una politica di sinistra dentro la cornice dell’Unione? O, in alternativa, si deve piuttosto accompagnare, o addirittura favorire un processo destituente, di controllato smantellamento dell’architettura europea, per cercare nella dimensione nazionale, sovranista,, la risposta alla crisi sociale? In una prospettiva storica, sembra di essere ritornati a cent’anni fa (senza che per fortuna spirino venti di guerra). Ma il nodo è in certo modo lo stesso. Cent’anni fa, ad una fase di crescente espansione globale dei commerci seguì una violenta fiammata nazionalista, e anche allora i partiti socialisti non ressero la prova: rinunciarono alla dimensione internazionalista e misero innanzi la causa nazionale. E si divisero, aprendo la strada a un lungo ciclo di sconfitte, che in fondo verrà interrotto solo dopo la seconda guerra mondiale, con la ricostruzione e il sogno democratico e federalista dell’unità europea.

Oggi, di nuovo, il socialismo europeo è di fronte a un bivio. In realtà, sembrava fino a non molti mesi fa che avesse già imboccato una strada precisa: le ripetute sconfitte della socialdemocrazia tedesca, il declino di Hollande da una parte, e dall’altra la vittoria di Podemos in Spagna e di Siryza in Grecia, i nuovi astri di Corbyn e di Sanders, sembravano andare tutti nella stessa direzione, di un profondo ripensamento ideologico, programmatico e perfino organizzativo.  Tutto sembrava muoversi velocemente: fuori però della difesa cocciuta della cittadella europea, e chi rimaneva dentro appariva vanamente aggrappato ad una nave ormai colata a picco. Ma ora il vento ha cambiato un’altra volta direzione: Sanders perde, Podemos perde, Corbyn viene vigorosamente contestato, e la via alternativa che doveva finalmente cambiare le sorti del vecchio socialismo europeo si sta esaurendo. All’improvviso, si trova iscritta sotto le parole nobili ma assai poco promettenti di Samuel Beckett: fallisci un’altra volta, fallisci ancora, fallisci meglio.

Nel Regno Unito un’alternativa forse c’è, e ha il nome del neo-sindaco di Londra, Sadiq Kahn. Così almeno la pensa Anthony Giddens, che però non è quel che si dice un osservatore imparziale, essendo stato l’intellettuale più vicino a Tony Blair. Ma, al di là dei nomi, resta per i socialisti un nodo da sciogliere: lo spazio europeo è davvero impraticabile per una politica progressista, di crescita e di inclusione sociale? Nel conto non si può non mettere un dato di realtà: la forbice della diseguaglianza si è parecchio allargata, e l’Unione è oggi un posto dove c’è molta meno mobilità sociale che non trenta o quaranta anni fa. Se fallisce oggi la sinistra più radicaleggiante, non si può dire dunque che quella blairista degli anni Novanta sia andata molto meglio.

Però governava. Ed è infatti quella la pietra d’inciampo: la prova delle responsabilità di governo. Lasciamo per una volta il partito democratico e Matteo Renzi fuori dal quadro, e torniamo alla crisi del Labour: Corbyn non è in fondo incappato nella contraddizione di voler ricostruire una sinistra pura e senza compromessi da una parte, pur senza voler assumere  del tutto il profilo di una forza populista, antisistema? È così anche la sua idea di Europa non è viziata da una insanabile forma di dissociazione, fra storia e attualità, interessi e idealità: lontana dalle istanze che il Labour vuole rappresentare, essendo però stata, storicamente, l’unico luogo in cui quelle istanze si sono gradualmente realizzate? La conseguenza è che se non può essere un europeista, dopo il referendum, a guidare i conservatori, non può essere europeista nemmeno il leader dei laburisti. Finché almeno si tratta del molle e impacciato, e quasi vergognoso di sé, europeismo di Jeremy Corbyn.

(Il Mattino, 29 giugno 2016)

Un anno d’Europa senza Berlusconi

Il 4 novembre 2011 la vita in Italia era la vita di un paese benestante: i consumi non erano diminuiti, i ristoranti erano pieni, i posti di vacanza erano iperprenotati, e l’Italia non sentiva “un qualche cosa che potesse assomigliare ad una forte crisi”. Così disse il presidente del consiglio italiano in conferenza  stampa, nel corso del G20 di Cannes, in Francia. Otto giorni dopo Silvio Berlusconi rassegnò precipitosamente le dimissioni. Altri otto giorni e il nuovo governo di Mario Monti ottenne la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Ora è trascorso un anno: i ristoranti non si sono ancora riempiti, i posti di vacanza non registrano il tutto esaurito, e soprattutto gli italiani avvertono, e come!, un qualche cosa che assomiglia ad una forte crisi. Non solo assomiglia: è una forte crisi. Il Cavaliere disse anche, in quella occasione, che non vedeva in Italia esponenti in grado di rappresentare il Paese. Il 9 novembre il Presidente della Repubblica diede notizia di aver nominato il professor Mario Monti senatore a vita: qualcosa dunque cominciava a vedersi. E, dopo un anno, un certo deficit di rappresentanza del nostro paese in Europa e all’estero è stato forse colmato. È allora per questo che ci siamo liberati di Berlusconi: per presentarci in maniera più decorosa a conferenze europee e summit mondiali?

Anche per questo, sicuramente. Si potrebbero in verità elencare altre ragioni per cui la maggioranza dell’elettorato italiano ha visto con favore la fine di quel governo, ma non v’è dubbio che, fra queste, la ripresa di credibilità internazionale e il recupero di un certo peso politico in seno alle istituzioni europee hanno avuto un ruolo determinante. Ci sono voluti mesi perché smettessimo di parlare di spread sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, e in verità ogni tanto, come accade con certi reumatismi che non passano mai, la fitta dello spread torna a farsi sentire, e a ricordarci i vincoli esterni che dobbiamo assolutamente rispettare.

Ma è sufficiente tutto ciò? Può essere il vincolo esterno a scandire le politiche del governo nazionale? Si può essere europeisti per forza, e metterci, in più, solo un certo contegno? Già una volta, in realtà, è toccato all’Italia di essere qualcosa per forza: quando, negli anni novanta, compimmo lo sforzo di star dentro i parametri di Maastricht per partecipare alla costruzione della moneta unica, e il riformismo dei governi di centrosinistra di quegli anni fu, per l’appunto, dettato dalla necessità. O almeno così ci fu raccontato e ci raccontammo. A distanza di anni, e dopo aver ricavato un assai gramo raccolto da quelle decisioni, il punto, forse, non è se fosse vero che quella era la strada giusta, ma se fosse davvero l’unica percorribile, e soprattutto se la si dovesse percorrere proprio perché era l’unica. Benedetto Croce diceva che l’azione umana ha dinanzi a sé un largo spettro di possibilità, in cui compie le sue scelte. Quando però ci si volta indietro, si trova che quelle scelte apparentemente libere erano in realtà imposte da una rigorosa necessità, che è compito dello studioso consegnare all’intelligenza storica dei fatti. A noi accade purtroppo tutto il contrario: guardiamo avanti, e scorgiamo soltanto necessità, obblighi ai quali non possiamo sottrarci. Abbiamo anzi un governo che sembra non volerci ricordare altro. Quando però ci volgiamo indietro, si scopre che, forse, dell’altro si sarebbe potuto fare: altro che tecnica! Spazi di libertà ce n’erano, e decisioni eminentemente politiche sono state prese.

Il fatto è che nessuna politica democratica può affermarsi, se non è in grado di sciogliere al tempo giusto necessità, vincoli, condizioni, in un libero progetto e in una convinta assunzione di responsabilità. Se non è in grado di avere una propria autonoma visione del nesso fra ambito nazionale e ambito internazionale e di proporla al proprio paese come la migliore speranza, piuttosto che come la sola possibilità.

Oggi il centrosinistra italiano è una forza di chiaro stampo europeista. L’unica, probabilmente, viste le pulsioni populiste che si agitano: a destra e non solo.  Su questo terreno, il centrosinistra fornisce dunque le più ampie garanzie ai partner europei. Ma qual è la qualità di questo europeismo? Bastano i certificati di garanzia, o ci vogliono nuove istruzioni per l’uso? Forse non basta dire che vogliamo più Europa, se l’Europa che vogliamo è solo quella che dobbiamo volere. Non basta usare l’europeismo come una ciambella ideologica di salvataggio, alla quale aggrapparci dopo il tramonto di ogni altra visione del mondo. Non basta dire dove non vogliamo finire, se non sappiamo dove vogliamo andare a parare. Non basta nulla, se non c’è modo di far sentire agli italiani qualche cosa che non assomiglia ad una forte crisi, ma ad una forte speranza di cambiamento.

L’Unità, 11 novembre 2012

L’alleanza e le pulsioni populiste

È stato detto che il populismo esprime, sia pure in modo distorto, un’esigenza di partecipazione che i meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: “embé?”. Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, troppo sofisticati, troppo pieni di distinzioni e parole difficili, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.

E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Si tratterà pure di forme inedite di cittadinanza attiva, che, trovando ostruiti (oppure inutilizzabili) i canali tradizionali di espressione della volontà politica, assumono modalità diverse, più immediate e meno paludate. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti. Istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile. Tanto meno lo è quando a rendersene protagonisti sono politici con ultradecennale esperienza alle spalle. Ma tant’è.

Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.

Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.

E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’IdV, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.

Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro.

L’Unità, 1° luglio 2012