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La sinistra che cavalca l’onda nera

Lichtenstein

Signori, la proporzione è questa: circa un italiano su due ha paura di circa un italiano su ventiduemila. Il primo numero lo fornisce Repubblica, che pubblica un sondaggio il quale accredita il seguente dato: 46 italiani su 100 temono che il fascismo sia molto o abbastanza diffuso nel Paese. Il secondo numero fa invece riferimento al numero di iscritti di Forza Nuova, la più consistente formazione di estrema destra che, però, non raggiunge i tremila iscritti. Il che per esempio significa che in una città di un milione di abitanti i neofascisti sono, mediamente,… quarantacinque!

Se questa è la proporzione, ne viene che o gli italiani sono particolarmente timorosi e gemebondi, oppure il giornale romano sovrastima abbondantemente il fenomeno.

Uno può dire: quando è in gioco la democrazia, è meglio andarci cauti. Gli ultimi episodi – irruzione di estremisti di destra durante un’assemblea organizzata a Como dalle associazioni per i diritti dei migranti;  fumogeni accesi a Roma da un gruppetto di militanti sotto la sede di Repubblica, primo atto di una guerra politica «contro chi diffonde il verbo immigrazionista» – non attestano forse che c’è un allarme democratico? Meglio evitare sottovalutazioni. Anche perché oltre a Forza Nuova c’è CasaPound, ci sono le associazioni studentesche di estrema destra, c’è una piccola galassia di associazioni in cui circolano gli stessi simboli del ventennio fascista e gli stessi slogan xenofobi.

Di qui però a parlare di un pericolo concreto, reale, per le istituzioni democratiche io credo ce ne corra. Oltre ai numeri e alle proporzioni, può aiutare anche il senso storico: non c’è oggi il clima di violenza politica che c’era nei primi anni Venti del Novecento. Non ci sono corpi paramilitari e non si registrano decine di migliaia di iscritti a formazioni neofasciste in costante crescita. E, a tacere di altre differenze, non ci sono le condizioni che determinarono la risposta autoritaria alla crisi dello Stato: non abbiamo un conflitto mondiale alle nostre spalle, né l’introduzione del suffragio universale ha messo fuori gioco, come accade un secolo fa, le vecchie élites liberali.

Questi gruppetti di militanti che indossano maschere, leggono proclami e innalzano bandiere appartengono in realtà alla pattumiera della storia: lì sono e lì devono restare. Se pongono questioni di ordine democratico, lo Stato italiano ha gli strumenti per affrontarle: ha le forze di polizia e la legge penale. Ma il discrimine decisivo oggi non passa, per nostra fortuna, fra fascismo e antifascismo. E dirlo non significa affatto negare il fondamento storico della Costituzione e della Repubblica, ma tenere il confronto politico (e, fra poco, elettorale) nel suo alveo naturale. Perché delle due l’una: o c’è davvero il fascismo alle porte, e allora tutte le altre differenze fra i partiti democratici debbono scomparire, di fronte alla necessità di fronteggiare la minaccia – e non mi pare che sia questo il senso delle posizioni assunte finora dalla sinistra politica e culturale di questo Paese, che pratica oggi la divisione, molto più dell’unione –, oppure c’è poco da fare: siamo in presenza di una fiammata propagandistica, assai più alta e più grande del mostro che vuole esorcizzare.

Sia chiaro: anche la propaganda ci vuole. Anche le democrazie hanno bisogno di mobilitare passioni e di alimentare credenze collettive. Ma non è cercando ancoraggi nel passato che la sinistra riuscirà a parlare nuovamente a fasce ampie di popolo. Prima di temere che il passato ritorni c’è bisogno di capire se mai come avere nuovamente accesso al futuro. Il miglior modo per scacciare la paura è alimentare la speranza, ma non vale il contrario, purtroppo: il miglior modo per alimentare la speranza non è agitare vecchie o nuove paure. Che se poi tutta questa nuova visibilità e attenzione mediatica per Forza Nuova o per CasaPound avesse l’effetto opposto, di fare esistere e acquisire centralità a ciò che ha dimensioni trascurabili?

Uno sguardo in giro per l’Europa dimostra che sta effettivamente tornando una destra meno aperta e liberale di quella degli anni Novanta, coagulatasi, in tempi di crisi economica, grazie all’ostilità nei confronti dello straniero immigrato. Noi del resto abbiamo Salvini: e su questo Salvini non scherza. Ma il più urgente compito della sinistra è un altro: è rivendicare i valori dell’accoglienza e della solidarietà difendendo lo spazio di una politica di integrazione concreta e realistica; è far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni nei luoghi della marginalità e dell’esclusione sociale; è rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese. Certo, meglio cantare «Bella ciao» una volta in più che una in meno, ma non fingiamo, per favore, che stiamo chiamando gli italiani a una nuova lotta partigiana, perché non è così.

Signori, la proporzione è questa: circa un italiano su due ha paura di circa un italiano su ventiduemila. Il primo numero lo fornisce Repubblica, che pubblica un sondaggio il quale accredita il seguente dato: 46 italiani su 100 temono che il fascismo sia molto o abbastanza diffuso nel Paese. Il secondo numero fa invece riferimento al numero di iscritti di Forza Nuova, la più consistente formazione di estrema destra che, però, non raggiunge i tremila iscritti. Il che per esempio significa che in una città di un milione di abitanti i neofascisti sono, mediamente,… quarantacinque!

Se questa è la proporzione, ne viene che o gli italiani sono particolarmente timorosi e gemebondi, oppure il giornale romano sovrastima abbondantemente il fenomeno.

Uno può dire: quando è in gioco la democrazia, è meglio andarci cauti. Gli ultimi episodi – irruzione di estremisti di destra durante un’assemblea organizzata a Como dalle associazioni per i diritti dei migranti;  fumogeni accesi a Roma da un gruppetto di militanti sotto la sede di Repubblica, primo atto di una guerra politica «contro chi diffonde il verbo immigrazionista» – non attestano forse che c’è un allarme democratico? Meglio evitare sottovalutazioni. Anche perché oltre a Forza Nuova c’è CasaPound, ci sono le associazioni studentesche di estrema destra, c’è una piccola galassia di associazioni in cui circolano gli stessi simboli del ventennio fascista e gli stessi slogan xenofobi.

Di qui però a parlare di un pericolo concreto, reale, per le istituzioni democratiche io credo ce ne corra. Oltre ai numeri e alle proporzioni, può aiutare anche il senso storico: non c’è oggi il clima di violenza politica che c’era nei primi anni Venti del Novecento. Non ci sono corpi paramilitari e non si registrano decine di migliaia di iscritti a formazioni neofasciste in costante crescita. E, a tacere di altre differenze, non ci sono le condizioni che determinarono la risposta autoritaria alla crisi dello Stato: non abbiamo un conflitto mondiale alle nostre spalle, né l’introduzione del suffragio universale ha messo fuori gioco, come accade un secolo fa, le vecchie élites liberali.

Questi gruppetti di militanti che indossano maschere, leggono proclami e innalzano bandiere appartengono in realtà alla pattumiera della storia: lì sono e lì devono restare. Se pongono questioni di ordine democratico, lo Stato italiano ha gli strumenti per affrontarle: ha le forze di polizia e la legge penale. Ma il discrimine decisivo oggi non passa, per nostra fortuna, fra fascismo e antifascismo. E dirlo non significa affatto negare il fondamento storico della Costituzione e della Repubblica, ma tenere il confronto politico (e, fra poco, elettorale) nel suo alveo naturale. Perché delle due l’una: o c’è davvero il fascismo alle porte, e allora tutte le altre differenze fra i partiti democratici debbono scomparire, di fronte alla necessità di fronteggiare la minaccia – e non mi pare che sia questo il senso delle posizioni assunte finora dalla sinistra politica e culturale di questo Paese, che pratica oggi la divisione, molto più dell’unione –, oppure c’è poco da fare: siamo in presenza di una fiammata propagandistica, assai più alta e più grande del mostro che vuole esorcizzare.

Sia chiaro: anche la propaganda ci vuole. Anche le democrazie hanno bisogno di mobilitare passioni e di alimentare credenze collettive. Ma non è cercando ancoraggi nel passato che la sinistra riuscirà a parlare nuovamente a fasce ampie di popolo. Prima di temere che il passato ritorni c’è bisogno di capire se mai come avere nuovamente accesso al futuro. Il miglior modo per scacciare la paura è alimentare la speranza, ma non vale il contrario, purtroppo: il miglior modo per alimentare la speranza non è agitare vecchie o nuove paure. Che se poi tutta questa nuova visibilità e attenzione mediatica per Forza Nuova o per CasaPound avesse l’effetto opposto, di fare esistere e acquisire centralità a ciò che ha dimensioni trascurabili?

Uno sguardo in giro per l’Europa dimostra che sta effettivamente tornando una destra meno aperta e liberale di quella degli anni Novanta, coagulatasi, in tempi di crisi economica, grazie all’ostilità nei confronti dello straniero immigrato. Noi del resto abbiamo Salvini: e su questo Salvini non scherza. Ma il più urgente compito della sinistra è un altro: è rivendicare i valori dell’accoglienza e della solidarietà difendendo lo spazio di una politica di integrazione concreta e realistica; è far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni nei luoghi della marginalità e dell’esclusione sociale; è rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese. Certo, meglio cantare «Bella ciao» una volta in più che una in meno, ma non fingiamo, per favore, che stiamo chiamando gli italiani a una nuova lotta partigiana, perché non è così.

(Il Mattino Il Messaggero, 10 dicembre 2017)

Se l’Europa sdogana le destre

Sironi L'Italia corporativa 1936

M. Sironi, L’Italia corporativa (1936)

Sebastian Kurz, il nuovo cancelliere austriaco, è la materializzazione di tutto ciò da cui la storia politica europea del secondo dopoguerra ha voluto guardarsi: un’alleanza delle forze popolari di centro con la destra nazionalista e populista, che ha trovato il suo comune denominatore in un programma politico fondato sulla chiusura intransigente verso l’immigrazione proveniente dai paesi islamici. Niente musulmani, niente rifugiati: frontiere chiuse e tolleranza zero.

Dopo la seconda guerra mondiale, le democrazie europee sono state ricostruite sulla base dell’esclusione dall’area di governo delle formazioni politiche di estrema destra, che implicitamente o esplicitamente si richiamavano ai regimi fascisti o nazisti del Novecento. La conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti non era altrettanto insuperabile, dal momento che ne ha consentito il progressivo avvicinamento verso l’area di governo e le regole della democrazia parlamentare: basti pensare alla partecipazione dei comunisti francesi al primo esecutivo Mitterand, in Francia, o al governo della non sfiducia in Italia, a metà degli anni Settanta.

Dopo la caduta del muro di Berlino, lo scenario, però, è radicalmente mutato. Sul piano culturale, si è imposta una lettura della storia europea che insisteva più sulle somiglianze che non sulle differenze fra i totalitarismi del ‘900, con un effetto opposto: l’ideologia comunista finiva nella pattumiera della storia, il nazionalismo post-fascista si faceva sempre più presentabile. Ma sono state la gravissima crisi finanziaria del 2008, le difficoltà delle istituzioni europee di farvi fronte in una cornice di solidarietà condivisa, e l’imponente fenomeno migratorio, ad alimentare nuove paure e ingenerare nuove insicurezze, dando fiato alle destre. Prima, accadeva che l’avanzata della destra estrema venisse respinta da ampi fronti costituzionali. Il caso francese è stato a lungo paradigmatico: sia Jean Marie Le Pen, nel 2002, che la figlia Marine, lo scorso maggio, si sono visti sbarrare il passo da candidati sostenuti da un largo arco di forze che si richiamava ai valori della République, e che comprendeva anche i moderati di centro. Nel 2002 il gollista Chirac rifiutò qualunque confronto pubblico con Le Pen; nel 2017, il centrista Fillon si è schierato nel ballottaggio dalla parte di Macron, contro il pericolo lepenista. Le elezioni austriache dimostrano invece che può ormai accadere il contrario, e che partiti tradizionalmente collocati nell’area di centro si spostino verso destra, per intercettare gli umori di un elettorato sempre più scontento della guida politica ed economica assicurata finora dalle élites demoratiche europeiste, e sempre più sensibile al richiamo sovranista e nazionalista.

È un pericolo? Sì, lo è. Lo dimostra la reazione della Cancelliera Merkel, che si è affrettata a prendere le distanze dal progetto politico di un esecutivo con l’estrema destra sotto la guida del giovanissimo leader dei popolari austriaci. Certo, il risultato può anche essere letto in maniera opposta: non si tratterebbe tanto di uno spostamento a destra della politica austriaca, quanto del tentativo di riassorbire le pulsioni estremiste che si agitano nella pancia del Paese. Un po’ come avvenne in Italia nel 1994, quando Berlusconi sdoganò Gianfranco Fini, portandolo al governo, e favorendo così la trasformazione del vecchio Movimento sociale in un partito di destra liberale, Alleanza Nazionale. I numeri, però, sono assai diversi. Nel ’94, il partito di Fini prese il 13%, esattamente la metà dei voti raccolti in Austria dall’estrema destra di Heinz Christian Strache, leader del partito della libertà. Ma diversa è soprattutto la direzione di marcia che l’Europa ha imboccato: non solo in Austria, ma in tutta l’Europa centro-orientale. Sia o no il caso di considerare minacciati gli istituti della democrazia rappresentativa, sfibrati dall’onda populista e nazionalista, certo è che la fisionomia della destra sta cambiando: a mobilitarne l’elettorato non è l’ideale liberal-democratico della società aperta, l’integrazione, la fiducia nel futuro e un ottimismo rassicurante, ma il progressivo ritirarsi dentro confini nazionali chiusi, la diffidenza nei confronti dello straniero, e la richiesta di risposte forti, venate di autoritarismo.

Il fatto che tutto questo si faccia sentire così fortemente in Austria desta qualche motivo di preoccupazione. Nell’immediato, per via della difficoltà supplementari nella gestione dei flussi migratori che sarebbero provocate da un atteggiamento intransigente dell’Austria lungo il confine con l’Italia. Su un piano più generale, e simbolico, per ciò che ha significato la finis Austriae, il tramonto di quel «mondo di ieri», raccontato da Stefan Zweig, al cui collasso sono seguiti in Europa le più immani tragedie. Se però si guarda alla realtà dei rapporti politici sul continente, si trova che la più grande differenza rispetto al passato sta proprio in ciò che ci siamo abituati a criticare e svalutare: in quell’Unione che per alcuni è causa, con il suo immobilismo istituzionale e le sue politiche di austerity, dello scivolamento a destra del continente, ma che per altri si presenta come il più importante argine contro il completo deragliamento delle politiche nazionali nei Paesi in cui sempre più forte si fanno sentire le parole d’ordine del sangue e del suolo.

(Il Mattino, 17 ottobre 2017)

I ragazzi qualsiasi che diventano fanatici dell’odio

morris Blind Time Drawnings

R. Morris, Blind Time Drawings (1973)

Tristi. Isolati. Vili. Sono così i terroristi? Così li ha dipinti, con convinzione, Kevin Spacey, l’attore americano ieri a Roma per presentare il suo ultimo film. Ma davvero erano così i fratelli Kouachi – 33 anni l’uno, 32 l’altro – e il loro amico Amedy Coulibaly, anni 32, responsabili i primi dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, l’ultimo della strage al supermercato kosher di Parigi, nel gennaio 2015? E i giovani della strage del Bataclan, sempre a Parigi? E Mohamed Lahouaiej Bouhlel: che uomo era Bouhlel, che vita conduceva colui che, sulla promenade di Nizza, ha lanciato il camion sulla folla che festeggiava il 14 luglio? Ed erano così anche gli attentatori di Londra, di Bruxelles o di Madrid? Così erano Moussa Oubakier, 17 anni, Mohamed Hychami, 24 anni, Said Aallaa, di anni 18, e gli altri membri della cellula terroristica che ha seminato il terrore sulle ramblas di Barcellona?

È impossibile tracciare un unico profilo psicologico, così come è impossibile desumere dalle loro abitudini di vita una qualche relazione con la scelta terroristica. Usano i social network, frequentano il quartiere e la moschea, a volte continuano a vivere in famiglia, le loro esistenze non sono molto diverse da quelle dei loro coetanei. Non sono più isolati dei loro compagni; probabilmente non sono nemmeno più tristi di loro: abbiamo anzi foto che li ritraggono sorridenti con un’arma da fuoco tra le mani.  Quanto alla viltà, chi può dirlo? Forse, accusandone la viltà, proviamo anzitutto a fare coraggio a noi stessi.

Però odiano con tutte le loro forze l’Occidente, l’Europa, il Paese in cui vivono. Di che natura è questo odio? Il sociologo francese Dominique Moïsi ha tracciato dopo l’11 settembre un quadro delle relazioni internazionali dominato dalle emozioni: dalla paura in Occidente, dalla speranza nei paesi asiatici emergenti, dall’umiliazione nella galassia musulmana. Questi giovani odiano perché vivono come un’umiliazione la loro storia passata e la loro presente condizione. Non basta la povertà o l’emarginazione: non tutti vivono in situazioni di disagio economico e sociale, e d’altra parte molti, la più gran parte che versa in simili condizioni, rimangono lontanissimi da scelte violente. Ma tutti sono convinti che l’Islam debba sollevarsi contro il Satana occidentale, contro i cristiani, contro i sionisti. E tutti accusano la sudditanza dei governi islamici verso gli Stati Uniti e i loro alleati. Tutti inneggiano al jihad e tutti gridano vendetta. E, certo, nessuna radicalizzazione è possibile senza che si accetti questa potente costruzione ideologica, spinta fino al parossismo dell’odio politico e religioso.

Ma di nuovo: perché questa narrazione riesce a far presa? Robert Musil diceva che l’anima è come il tarlo che scava nel legno: «può contorcersi come vuole, perfino tornare indietro, ma si lascia sempre alle spalle uno spazio vuoto». C’è un vuoto, un vuoto d’anima, dietro certe storie, certe biografie. Certo, è più facile pensare che i terroristi siano per lo più disadattati, o persone affette da seri disturbi psichici. O almeno persone fortemente condizionabili, su cui un imam infervorato può esercitare una forte influenza. Oppure, chissà, ragazzi senza arte né parte, nullità che nel gesto supremo dell’attentato, in cui sono persino disponibili a dare la loro stessa vita, provano a riscattare un’intera esistenza: innanzi ai loro stessi occhi e a quelli della loro cerchia di parenti ed amici. Secondo alcuni studiosi, occorre una forte componente narcisistica, per prendere la strada della radicalizzazione e del martirio. Ma forse, al fondo, è quel vuoto, è l’insopportabile sensazione di non aderire veramente, di non esser davvero parte del mondo pubblico in cui tutti viviamo, che li spinge sino a desiderare il “martirio”. La propria morte per la morte di quel mondo.

Neanche questa è una spiegazione, naturalmente. Ma almeno ci evita di farla semplice, di considerare i terroristi come folli o come bestie, come assolutamente altri da noi. Non è così: non lo era per i nazisti, come comprese Primo Levi; non lo sono nemmeno i vendicatori suicidi dell’Islam. Che giocano alla playstation, frequentano palestre e moschee, comprano magari quelle stesse merci che simboleggiano lo sfrenato consumismo occidentale. Fino però al giorno in cui si radicalizzano, gettandosi a capofitto nella spirale del fanatismo. Un percorso che spesso non è nemmeno lungo, che non richiede un indottrinamento particolarmente approfondito, ma che versa fiumi di benzina in quel vuoto che nessuna emancipazione sociale, economica o giuridica promette di colmare, e che in mancanza di uno spazio politico percorribile si fa incendio. Vogliono di più, vogliono sentirsi integri, giusti, puri. Vogliono disprezzare tutto ciò che ai loro occhi appare immorale, debole, meschino. E vogliono passare all’atto, combattere gli infedeli, rovesciare le democrazie atee dell’Occidente.

Hanno nomi stranieri, difficili da pronunciare, che li gettano inevitabilmente in una grande lontananza da noi. Ma l’estetica della violenza, la volontà di potenza, il vincolo di fratellanza che li stringe in un’unica sorte li abbiamo già conosciuti. E li abbiamo chiamati: fascismo.

(Il Mattino, 21 agosto 2017)

Sul male assoluto

 – "Il male normale o ordinario può entrare in una relazione di "definizione per opposizione" con il bene. Mentire costituisce la controparte negativa del dire la verità, essere sleali è la controparte negativa della lealtà. Ma un male delle dimensioni di Auschwitz, invece, non può essere posto in una relazione del genere: non esiste un bene che possa essere definito come un "non fare quello che è stato fatto ad Auschwitz". sentiamo semplicemente che un male di queste dimensioni dovrebbe essere estirpato dal mondo: questo tipo di male è eccessivo anche solo per ricoprire il ruolo di "opposto del bene" -.
(A. Ferrara, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Roma 2007, p. 110).

(Avevo lasciato intendere, nei commenti a questo post di ffdes, che l’espressione "male assoluto" non è solo un’espressione retorica, ma non avevo prodotto argomenti. Quello di sopra a me suona come un argomento, ma mi rendo conto che per qualcuno potrebbe essere anche solo un pezzo di retorica.
Il post finisce qua, quello che aggiungo sotto – e che solo alla fine si ricongiunge alla citazione di sopra – è scritto molto in fretta, per addurre ancora qualche argomento, a favore di chi non riesca mai a soddisfarsi di argomenti morali)

Secondo molti (non so quanti, ma secondo Ffdes, al quale avevo più o meno promesso questo post) l’espressione "male assoluto" (che di solito viene riferita al nazifascismo, e di solito lo si fa con l’idea di dire che non è certo stata l’unica cosa brutta che sia mai capitata, ma che è stata di un brutto assai particolare) qualificare un evento storico come male assoluto ha di sicuro un significato retorico, e sta a dire che quella tal cosa fu "moooolto cattiva" ma non ce l’ha sul piano strettamente storico-storiografico: "La storia è, nella sua essenza, ricostruzione basata sulle interpretazioni, e spesso sul loro conflitto impacificato e impacificabile".

Se capisco bene, qui si sostiene che, dal momento che qualunque evento storico può essere giudicato in modi diversi e da punti di vista diversi, non ha senso impiegare l’espressione "assoluto". Io trovo l’argomento assai insoddisfacente. Potrei cominciare col dire che se si tratta genericamente del fatto che la storia è sempre interpretata, e se si considera che il carattere ermeneutico del sapere storico è incompatibile con la qualificazione di ‘assoluto’, allora è probabilmente incompatibile anche con la qualifica di obiettivo: non saremmo cioè in condizione di poter dire mai come siano obiettivamente andate le cose, visto che "la storia è, nella sua essenza, ecc.". E invece lo possiamo e lo dobbiamo ben dire (senza lasciarci fuorviare da una superficiale considerazione di cosa è obiettivo, in storia). L’interpretazione può ben essere opinabile, ma il fatto che sia opinabile non toglie che essa pretende ad una validità obiettiva: non è la generica opinabilità a rendere meno obiettiva l’interpretazione, ma solo i dubbi determinati e circostanziati che la mettono in forse. E se anche fosse sempre possibile avanzare in principio di simili dubbi, occorrrerebbe prima avanzarli di fatto.
E così l’obiettività è salva nonostante la sua rivedibilità di principio.
Ma naturalmente c’è di più. Nonostante il post di ffdes sia scritto come se fosse male impiegare la parola ‘assoluto’ per certi effetti retorici, è esso stesso intriso di effetti simili (per non dire che è scritto male, a mio modesto avviso: e pur consapevole del fatto che anche questo post è scritto male, come tutti i post tirati via in fretta). La questione se sia o non sia sensato adoperare l’espressione "male assoluto" con riferimento a un evento storico non ha in realtà molto a che vedere con l’obiettività del giudizio storico, o col fatto che ogni evento storico è passibile di molteplici interpretazioni (che per essere molteplici non è detto che siano tutte parimenti fondate), ma proprio col fatto che si pretende di affermare con essa che un certo evento o fatto o fenomeno storico fu cattivo sotto ogni punto di vista. E’ un problema logico, non epistemologico: che sia possibile un’interpretazione neonazista del nazismo, che di certo non considererà Hitler il male assoluto, non relativizza di un centimetro il mio giudizio: ffdes me lo concederà. Se si tratta invece di un problema logico, allora si deve contestare che l’espressione ‘male assoluto’ abbia senso in se stessa.
Ora, secondo me ce l’ha. Ce l’ha eccome. E non capisco perché, tanto per cominciare, se una cosa può essere assolutamente rossa, non possa essere assolutamente cattiva o perché se una cosa può essere assolutamente divertente, non possa essere assolutamente cattiva.
Quest’ultimo esempio è interessante. Una cosa assolutamente divertente può significare tanto: una cosa che sia divertente per tutti (e non mi pare che vi siano impossibilità di principio, al riguardo) quanto la cosa più divertente di tutte (e anche in questo caso, sebbene in futuro possa capitare un giorno che uno ne tiri fuori un’altra più divertente, non si capisce perché questa mera possibilità logica dovrebbe rendere insensata la mia espressione).
Quando dunque dico che l’EVENTO X è stato il male assoluto, posso intendere:
1 che è da giudicare un male sotto ogni punto di vista;
2 che tutti giudicano che sia un male;
3 che non c’è stato male più grande di esso.
A meno di non voler rinunciare al giudizio storico, non vedo perché dovrei considerare queste tre espressioni prive di senso o contraddittorie (possono essere false, ma non è di questo che stiamo discutendo, mi pare).
Un’ultima cosa: si può ben dare il caso, anzi si dà il caso dell’interpretazione storica per la quale il tale evento (ad es.: il fascismo) non fu un male assoluto nel senso 1 e 3: non fu cioè il male più grande e/o non fu un male sotto ogni punto di vista. In tal caso, non posso certo sostenere che tutti giudicano che sia un male (punto 2). Ma questo non mi obbliga certo a ritenere inconfutabile una simile, avversa opinione, se non a condizione di ritenere che su ogni fatto storico il conflitto delle interpretazioni è per principio e sempre (in ogni momento storico: questo è molto importante) incomponibile. Non so perché dovrei pensarla così, e cosa si guadagni a pensarla così. Ma posto anche che così fosse, ecco un nuovo senso, l’ultimo e non il meno rilevante, in cui per me vale l’espressione male assoluto:
male assoluto è quella tal cosa sulla quale non considero che abbia dignità morale non un’altra interpretazione diversa dalla mia, ma una la quale si appoggi unicamente alla pluralità delle interpretazioni possibili per farsi valere. Potrei scrivere meglio quest’ultima cosa, ma vorrei che fosse chiaro che questa non è un’espressione meramente retorica, ma una presa di posizione morale, che probabilmente sta al fondo di tutta questa storia. E come non ha molto senso discutere, secondo Wittgenstein, se il metro campione depositato a Parigi, su cui si misurano tutti gli altri strumenti di misurazione (e ogni altra distanza) misuri o no un metro, così potrebbe non avere senso aprire una discussione sul tale evento X, se sia o non sia il male assoluto. Può ben essere assoluto nel senso che è quello che abbiamo scelto per tarare i nostri giudizi morali. Siccome dico "scelto", si crede di poter far ricominciare la giostra: si può ben trovare infatti chi pretenderà di sceglierne diversi, ma non vedo perché io non debba conntinuare a chiamare assoluto il mio campione, anche in tale evenienza. Tanto più che non penso affatto che sia veramente scelto. Proprio no.

Tu chiamalo se vuoi fascismo pop

Nuovo film dei fratelli Wachowski (quelli di Matrix e V for Vendetta), Speed Racer, nei cinema da oggi.

Mereghetti è perplesso: "La trama è prevedibilmente elementare"; "la storia prosegue sui binari di una prevedibilità monocorde e anche i rari elementi di «disturbo» che il fumetto possedeva […] sono anestetizzati o cancellati. Perché allora impegnare 120 milioni di dollari nel produrre una storia così sciapa? L’unica risposta plausibile può essere la convinzione (del produttore Joel Silver) che il pubblico non cerchi più storie a cui appassionarsi ma immagini da cui farsi bombardare e stordire. E su questo piano Speed Racer non è davvero secondo a nessuno. Ci sono circa 2000 inquadrature nel film e si può dire che nemmeno una non sia stata ritoccata o manipolata al computer".

Mereghetti è perplesso. Anthony Lane su New Yorker non lo è affatto. Dopo aver ricordato la gag di Groucho Marx (questo dispaccio lo capirebbe un bambino di 4 anni? Presto, trovatemi un bambino di 4 anni!), scrive: "There’s something about the ululating crowds who line the action in color-coördinated rows; the desperate skirting of ordinary feelings in favor of the trumped-up variety; the confidence in technology as a spectacle in itself; and, above all, the sense of master manipulators posing as champions of the little people. What does that remind you of ?". Già, cosa? 

"You could call it entertainment, and use it to wow your children for a couple of hours. To me, it felt like Pop fascism, and I would keep them well away".