Archivi tag: Fazio

Fazio, i veleni e la verità perduta

Fazio gufo

La conclusione della telenovela Fazio (un contratto di 11 milioni per 4 anni) non è certo la conclusione della vicenda Rai. È, piuttosto, una cartina di tornasole del momento di difficoltà dell’azienda. Il nuovo direttore generale, Mario Orfeo, ha dovuto prendere una decisione in condizioni di necessità: a poche settimane dal suo insediamento, non poteva certo permettersi, per via del tetto degli stipendi sotto il quale non ci stava il contratto di Fazio, di perdere al buio uno dei volti storici della Rai, senza aver avuto il tempo di delineare strategie alternative. Il che però dimostra una cosa soltanto: che strategie alternative ci vogliono, che un’altra televisione deve essere possibile e che Orfeo dovrà cominciare a lavorarci. Va bene dire che Fazio è la Rai, ma solo se significa che Fazio è Fazio grazie alla Rai, e non viceversa che la Rai è la Rai grazie a Fabio Fazio.

Roberto Fico, il Presidente della Vigilanza Rai, ha scomodato una figura tradizionale dell’armamentario polemico populista: quella dei comunisti col cuore a sinistra e il portafoglio a destra. Detta da lui, non è chiaro però cosa sia più grave: che Fazio sia comunista (cioè di sinistra, comunista è solo l’espressione denigratoria), o che tenga al portafoglio. Questa comunque è attualmente la linea del Movimento Cinque Stelle, fatta di uscite demagogiche contro l’establishment delle banche, della Rai e dei partiti: cosa c’è di peggio, infatti, nel Paese?

Ma non è facendo di tutta l’erba un fascio che si potrà mettere mano a una ristrutturazione del servizio pubblico. Il servizio pubblico deve informare, deve realizzare prodotti di qualità nell’ambito dello spettacolo e dell’entertainment, deve offrire una palestra per nuove idee e nuovi programmi; deve tenere il passo dell’innovazione in un settore che la Rete sta profondamente rivoluzionando. Sono sfide enormi. La Rai viene dalle dimissioni del direttore editoriale Verdelli e dalla bocciatura del suo progetto di riforma e, poi, dalle dimissioni del direttore generale Campo Dall’orto, e dalla medesima disavventura toccata in sorte alla sua proposta editoriale. Cosa vorrà fare Orfeo? Ma più ancora ci si dovrebbe sintonizzare con un’altra domanda: cosa vuol fare il Paese della televisione? «Tra trent’anni – diceva Ennio Flaiano – l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la TV»: non stiamo parlando dunque dei capricci di una star, di stipendi fuori mercato o in linea col mercato, ma del centro nevralgico dello spazio pubblico che la tv generalista ancora occupa nel Paese. Coi suoi tredici canali televisivi, i suoi centri di produzione, le sedi regionali, i tredicimila dipendenti, stiamo parlando di un’azienda culturale che costituisce parte essenziale dell’identità nazionale.

Ebbene, in tutta la vicenda che ha riguardato il rinnovo del contratto con il volto più noto di Rai Tre (passato a Rai 1 con un robusto adeguamento di stipendio), il Paese ha discusso di cosa? Dell’enorme sperequazione fra gli stipendi di un divo della televisione e quelli di un normale lavoratore? (Sai la novità). Del rispetto della legge sul tetto massimo alle retribuzioni nel settore pubblico, e di come aggirarlo? Di limiti del mercato, di giustizia e moralità? Benissimo. Ma una volta che ci saremmo fatte le nostre opinioni sull’avidità o sulla professionalità di Fazio, non sarà il caso di guardare oltre il dito, al modo in cui si confezionano i programmi, si produce informazione, si mescola informazione e intrattenimento, si mescola informazione, intrattenimento e chiacchiera nei talk show, e insomma si rinuncia alla pretesa, nientemeno, di dire la verità?

L’ho detta grossa? La verità è un fuoco bimillenario che si è ormai spento del tutto, come diceva il filosofo? Ma se non si capisce più se “Che tempo che fa” di Fazio sia un programma giornalistico o uno spettacolo, e il suo conduttore artista o giornalista, se addirittura questa confusione di spazi e di generi di discorso viene rivendicata, non sarà – oltre che per la faccenda dei compensi – perché si è rinunciato da tempo al dovere di dire la verità – le cose come stanno? Di cercarla, certo, di discuterne criticamente e di dare voce al pluralismo delle interpretazioni, ma senza per questo astenersi dal tentativo di accordare l’opinione alla verità, le parole alle cose, i segni ai significati. Perché con la scusa di fare gli scettici, gli ironici e i postmoderni facciamo finta di ignorare che la rinuncia alla verità è, molto spesso, solo un’ammiccante ipocrisia verso il padrone di turno. Baudrillard diceva che per la televisione, «il mondo è solo un’ipotesi come un’altra». Ecco: a volte sembra che in Rai si voglia a tutti i costi dare ragione a Baudrillard, e torto al mondo.

Prendete Santoro, al suo ennesimo ritorno televisivo, che l’altra sera ha provato a spettacolarizzare il mostro: Hitler. C’erano in trasmissione le opinioni autorevoli, ma c’erano pure le opinioni da bar; c’era una nuova mescolanza dei generi, non però per produrre quelle evidenze che nascano solo dal cozzo fra i linguaggi, ma per allestire una posticcia confusione teatrale. Una sorta di wagnerismo di cartapesta, di teatro nell’accezione più enfatica e più melodrammatica del termine.

Ma che discorsi sono questi!, dirà il mio benevolo lettore. Senza sapere che un tempo erano questi i discorsi che si facevano, e che si dovrebbe tornare a fare. Non per avere stipendi più bassi: quelli devono dipendere da una politica che l’azienda può darsi, come può darsela perfino una squadra di calcio, senza necessariamente finire in zona retrocessione. Ma per avere consapevolezza di cosa significhi fare televisione, parlare al Paese, fornire notizie e fare vero approfondimento. Mobilitando energie creative e intellettuali, costruendo argini di autorevolezza, mettendo nuovi programmi tra le mani di nuovi professionisti, un po’ meno leccati o meno imbolsiti di quelli che, gira e rigira, tornano sempre di nuovo.

(Il Mattino, 25 giugno 2017)

La cultura in tv

Immagine

Giovani scrittori, geniali compositori, professori, artisti e protettori di tutte le muse si stanno già fregando le mani: tolte di mezzo l’Isola dei Famosi e Miss Italia tocca finalmente a loro. La Rai ha deciso infatti di puntare sulla cultura; il Direttore Generale, Anna Maria Tarantola, vuole una tv di qualità, perciò da questo momento Corazzate Potëmkin tutte le sere (quella coi sottotitoli in lingua originale, s’intende).

In realtà, su questa storia di come la Rai debba assolvere alla sua funzione di servizio pubblico, essendo la principale industria culturale del paese, non si riesce mai a venire a capo di nulla. C’è sempre quello che non vorrebbe dare le perle ai porci, l’altro che invece non sa immaginare nulla di diverso da una porcilaia, e in mezzo l’esperto di comunicazioni di massa che metterà l’uno e l’altro a tacere per parlarvi dello specifico televisivo, come una volta si parlava dello specifico filmico. Ugo Volli ha provato ieri a dissipare qualche equivoco, sulle colonne di questo giornale, togliendo perlomeno di mezzo l’idea che basti cancellare le miss e liberare il palinsesto dai reality ormai decotti per darsi una patina di cultura. Purtroppo non è così, e non per colpa dei programmi di serie B che infestano la programmazione: chi gioca in cadetteria sa benissimo in quale campionato milita e non si sogna nemmeno le prosopopee della cultura alta. Ma è in serie A – ha spiegato giustamente Volli –  che in Rai le cose proprio non vanno.

E non vanno né nei programmi di intrattenimento colto che fanno grandi numeri, né in quelli che se ne stanno buoni in qualche nicchia protetta. Non vanno, tanto per fare qualche nome, né dalle parti di Fabio Fazio né da quelle di Corrado Augias. E non perché quei programmi siano fatti male, o i loro conduttori non siano fior di professionisti, ma perché non passa  in quegli spazi neanche un alito di novità, neanche un brivido di sperimentazione, neanche la più piccola scommessa su un’idea o su un autore o su qualunque altra cosa. Diceva Roland Barthes che nella storia della fotografia c’è stato prima il tempo in cui si fotografava il notevole, poi quello in cui si rendeva notevole ciò che si fotografava. Quello che vale per la  fotografia dovrebbe valere anche per la televisione: a che serve fare televisione, se si tratta di riprendere solo ciò che è notevole, senza inventarsi nulla che serva a rendere notevole – come se fosse visto per la prima volta – ciò che si riprende? Eppure la Rai sembra che da un bel pezzo si sia fermata al primo tempo, rinunciando a giocare il secondo. Ad autori e conduttori non si richiede altro sforzo che non sia quello di collocare oggetti o personaggi già famosi, già celebrati, già a pieno titolo iscritti nella categoria del “notevole”, davanti alla telecamera  che li riprenderà con la simpatia e l’ironia necessaria a far digerire dosi di conformismo da cavallo. Nella migliore delle ipotesi, la cultura non starebbe comunque nella trasmissione, casomai nell’oggetto trasmesso. In quella peggiore (e non infrequente), la cultura non ci sarebbe affatto, vista la confusione che regna pure dal lato dell’oggetto, per cui Dante significa Benigni, e letteratura significa Saviano (forse grazie al meritatissimo bonus dell’eroismo civile). Ma la cultura si fa in tutt’altra maniera – quando si tratta proprio di farla, e non di occuparsi solo del packaging. Quando si vuole portare anche un solo italiano a entrare in un teatro, oppure a scoprire una mostra che non sia già un evento mediatico, e magari comprare un libro che non sia già un bestseller. Nell’ambito di ciò che chiama cultura, la Rai non sa rendere notevole nulla che non lo sia già, mentre quel che rende notevole non appartiene in genere alla cosiddetta cultura: sono le miss e i campioni dei reality show. Visto come stanno le cose, tanto varrebbe tenerseli: si eviterebbe almeno un bel po’ di ipocrisia.

Che se poi la cultura la si facesse davvero non dovrebbe essere la Rai una fucina di talenti? Ma dove sono i nuovi autori, i nuovi programmi, gli spazi affidati alla scoperta e all’invenzione? Dove  si parlano nuovi linguaggi, si tentano nuovi stili, se persino nei mondi della musica o della comicità, più giovanili e sensibili alle novità, non si muove quasi nulla? Per i nottambuli c’è Zoro, che fa Gazebo; e poi: che altro? Cosa passa in prima serata, che non sia lì dalla fine del Novecento? E cos’è che smuove le acque, fa davvero opinione, tendenza, gusto, e non si limita a registrare opinioni, gusti e tendenze che già ci sono? Hannah Arendt diceva  che la società di massa non vuole cultura ma svago, intrattenimento. Aveva torto, hanno torto tutti gli apocalittici per i quali per le masse non c’è speranza alcuna. Ma per dar loro torto, una cosa almeno è necessaria: che non solo lo svago, ma anche la cultura appartenga a questo nostro tempo, non a quello che ormai non c’è più, e che tuttavia si ripete ancora.

Il mattino, 23 maggio 2013