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La speranza contro la paura

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Ora è chiara la scelta che la Francia è chiamata a compiere: se gli exit poll verranno confermati dal risultato finale, al ballottaggio andranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen, l’europeista e l’euroscettica, il progressista liberale e l’estremista di destra, ed il voto sarà dunque decisivo per il futuro della Francia, ma forse anche per quello dell’Unione Europea. Che dopo gli anni della crisi, gli anni che hanno messo in ginocchio le economie periferiche dell’eurozona, e dopo l’esito imprevisto del referendum sulla Brexit, che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione, con ogni probabilità non reggerebbe una vittoria della destra lepenista, anti-euro e anti-immigrati. «Ritrovare la nostra libertà restituendo al popolo francese la sua sovranità: monetaria, legislativa, territoriale, economica»: questa la professione di fede di Marine. All’opposto, Macron dichiara di puntare ad un’Europa ambiziosa «che saprà ritrovare la sua vitalità e il gusto per l’avvenire». Le due passioni politiche fondamentali sono dunque in campo: la paura e la speranza. Le Pen agita le paure, e promette di «rimettere in ordine» la Francia; Macron anima una speranza, e promette di costruire una Francia nuova e più moderna. (Con Parigi, la città europea più colpita dagli attentati, che dà a Macron oltre il 30%, e a Le Pen solo il 5% circa).

Questo è però solo il primo punto del confronto politico in corso, ed è quello che più da vicino riguarda anche l’Italia, posta dinanzi ad uno spartiacque analogo, nel confronto fra le formazioni populiste e sovraniste – prime fra tutte la Lega e i Cinquestelle – che seminano dubbi sulla tenuta dell’euro e sulla riformabilità delle politiche che ne hanno accompagnato l’istituzione – e i partiti di centro e di sinistra, primo fra tutti il PD, che invece scommettono sul rilancio di una prospettiva europeista.

Ma la sfida Macron-Le Pen ha anche un altro significato, che per i nostri cugini d’Oltralpe non è meno rilevante. Essa sancisce infatti la drastica trasformazione del sistema politico francese. La Quinta Repubblica si reggeva infatti sul confronto fra socialisti e gollisti: da queste famiglie politiche sono venuti finora tutti i suoi presidenti, da Mitterand a Chirac, da Sarkozy a Hollande. Nel ballottaggio che si disputerà fra due settimane, le due principali forze politiche del Paese non saranno, invece, presenti. Non era mai successo. Così come, del resto, mai era successo che non scendesse in lizza il Presidente uscente. Invece Hollande ha preso cappello ancora prima che lo invitassero gli elettori (si immagina bruscamente) a farlo. Non solo, ma il candidato socialista, Hamon, è finito molte lunghezze dietro Macron e, a quanto pare, anche dietro Mélenchon, dietro cioè il rappresentante della sinistra più radicale. Il partito socialista è apparso dunque come la pietanza più scialba che un elettore potesse consumare: né di là né di qua, né contro l’Europa né a favore, né con i lavoratori né contro, né illiberale né liberale. Insomma, per ogni bandiera che innalzavano Melenchon o Macron, il socialismo di Hamon ne ammainava una: malinconicamente e senza neanche capire bene da che parte voltarsi. Dietro la scelta vincente di Macron, di mollare il vecchio partito socialista e di mettersi in cammino c’è però anche il peso rilevante dell’elemento personale. Che significa: la credibilità politica è oggi molto più legata ai volti e alle storie individuali che alle forze e alle storie collettive.

A destra Fillon ha perso anzitutto per via degli scandali familiari che ne hanno azzoppato la candidatura. Vero. Ma vero anche che se la linea di divisione del campo politico doveva essere tracciata prioritariamente dalla lotta contro il totalitarismo islamista, allora era difficile che a farsene interprete non fosse la destra sicuritaria e nazionalista della Le Pen. L’ultimo argomento che ha usato Fillon è stato invece: votare Marine significa ritrovarsi Presidente Macron. Aveva ragione, solo che è toccato a lui per primo dichiarare il suo sostegno per Macron: alle 20.44 di ieri sera, alle primissime avvisaglie dell’esito per lui infausto del voto, il campione conservatore ha compiuto, obtorto collo, la scelta «repubblicana» di convergere sul candidato progressista, in funziona di argine contro la destra erede di Vichy, xenofoba e post-fascista.

Proprio questa mette ora l’outsider Macron nella posizione di grande favorito per il ballottaggio: dalla sinistra che non può votare la Le Pen (se non in quelle frange più estreme, che sposano la logica dello sfascio e del tanto peggio, tanto meglio), alla destra moderata di Fillon, tutti sono con lui. Il suo posizionamento centrale paga: la strada per arrivare all’Eliseo è ora larga e in discesa.

Non è detto però che, il giorno dopo il voto, per Macron non cominceranno subito le grane. Perché a giugno si vota per l’Assemblea legislativa, e anche lì bisognerà trovare convergenze. Lì il voto dei vecchi partiti continua a pesare: per tradizioni, radicamento territoriale, personale politico, cose che al giovane movimento di Macron mancano ancora. Lì il vento del cambiamento deve ancora arrivare, e il nuovo Presidente dovrà fare probabilmente l’esperienza di governi non di coabitazione con l’opposizione (come pure è capitato in passato, a Mitterand e a Chirac), ma di governi di coalizione piuttosto eterogenei. Un campo in cui, molto più della Francia, è l’Italia ad avere un non sempre invidiabile know-how.

(Il Mattino, 24 aprile 2017)

Francia al bivio tra governabilità e futuro nell’Ue

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A una settimana dal voto in Francia, l’incertezza regna sovrana. Ed è un’incertezza che pesa sul futuro dell’intera Europa, non solo su quello dell’Eliseo. Perché la quadriglia di candidati che i sondaggi danno favoriti offre un ventaglio di soluzioni molto ampio. Che può significare il definitivo naufragio del progetto europeo, o il primo passo di una nuova navigazione.

Favoriti sono, stando alle ultime rilevazioni, Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il primo è il più europeista del lotto; la seconda, la più critica nei confronti dell’Unione europea. Il primo faceva parte del governo guidato dal socialista Valls, dal 2014 al 2016, ma si è poi collocato, con il suo movimento En Marche, «oltre la destra e la sinistra». La seconda invece è l’ultima espressione della destra nazionalista francese, più ingentilita rispetto a un passato razzista e antisemita, ma ancora in grado di suscitare preoccupazione nelle forze democratiche.

Inseguono, a pochi punti percentuali di distanza, François Fillon e Jean Luc Melenchon. Melenchon è il candidato dell’estrema sinistra, la bestia nera (anzi rossa) dell’establishment economico-finanziario. Fillon, già primo ministro con Sarkozy, è invece il candidato di quel che resta della destra moderata, azzoppato dagli scandali giudiziari. Se non arrivasse al ballottaggio, sarebbe la prima volta che un erede della tradizione gollista, su cui si è fondata la Quinta Repubblica, non corre per la vittoria finale. Raccolti a quanto pare in un fazzoletto di voti, ci sono insomma due candidati europeisti, e due candidati antieuropeisti; due candidati di sinistra e due candidati di destra; due candidati estremisti, e due candidati moderati; due candidati populisti, e due candidati riformisti; due candidati graditi alle capitali europee, e due candidati sgraditi.

E nessuno è in grado di dire quale coppia uscirà dal primo turno del 23 aprile.

Un primo dato è però già evidente. Il fatto che tra i quattro non si trovi Benoît Hamon, il vincitore delle primarie del partito socialista, cioè del partito del Presidente uscente Hollande – che per scelta politica personale ha deciso, fatto inedito nella recente storia delle elezioni presidenziali, di non ricandidarsi – è indicativo di una crisi profonda delle famiglie politiche tradizionali. Crisi che si presenterebbe uguale a destra, qualora, come sembra probabile, anche Fillon dovesse rimanere fuori dal secondo turno. Un simile esito non certificherebbe la fine del clivage destra/sinistra, ma la fine della sua interpretazione storicamente determinata, quella che ha prevalso nella seconda metà del Novecento, nell’epoca della divisione del mondo in due blocchi. Venuto meno quell’ordinamento del mondo, la destra e la sinistra si sono trovate dinanzi a una nuova alternativa: rifiutare la realtà del mondo globalizzato, provando a ridisegnarlo secondo nuove, aspre linee di frattura, oppure accettarlo, cercando di smussarne le contraddizioni in una chiave social-progressista o liberal-moderata.

Sono differenze che sperimentiamo anche in Italia: a destra, è la distanza che separa Salvini e Meloni (ma anche Grillo) da Berlusconi e Alfano; a sinistra, è il fossato che si va allargando fra il Pd di Renzi e le sparse formazioni dei vari Fratoianni, Civati, Speranza. In Francia, però, il doppio turno consente di verificare con chiarezza l’articolazione dell’offerta politica, senza impedire che al ballottaggio il voto si polarizzi in una sfida a due: quale maggioranza si formerà poi, nell’Assemblea Nazionale, è un problema ulteriore, e non è detto che il futuro Presidente non sarà costretto a scomode coabitazioni con maggioranze di colore e orientamento diverso.

Ma, a sette giorni dalle urne, la Francia ha il fiato sospeso. Fino a qualche settimana fa, infatti, sembrava che al ballottaggio le forze europeiste avrebbero avuto comunque un uomo su cui puntare: Macron, che in un eventuale ballottaggio godrebbe del favore di tutta la Francia repubblicana, disponibile a fare blocco pur di sbarrare la strada al pericolo Le Pen. Con il suo programma di riforme nell’ambito del lavoro, della previdenza, del fisco, Macron è forse più inviso alla tradizionale gauche che ai moderati di centro, e può quindi rappresentare un’alternativa per chi non vuole una Francia dominata dalla retorica populista, anti-euro e anti-immigrati di Marine Le Pen. Dopo aver rottamato la sinistra di Hamon, Emanuel Macron si vede però  incalzato dal populismo di Melenchon. Il cui programma sociale punta a coagulare tutto il consenso che Macron, spostandosi al centro, lascia al suo fianco sinistro. E dunque: pensione a 60 anni, settimana lavorativa di 30 ore, patrimoniale sui grandi redditi. Il tutto condito da toni che sembrano adatti a riesumare gli scontri ideologici del passato.

O forse a riproporne di nuovi la crescita di Melenchon nei sondaggi sottolinea. È probabile che alla fine Macron ce la faccia, e che toccherà a lui fermare Marine Le Pen (l’ipotesi che Fillon recuperi a sua volta consensi a destra è, ad oggi, la più remota: entrato da favorito nella corsa, è ora il più lontano dal rush finale), ma dopo il trauma della Brexit e l’elezione a sorpresa di Trump, la sensazione che si sia ulteriormente ridotto, in ambito europeo, lo spazio delle forze che “tirano” il sistema, senza ambire a rovesciarlo con bruschi scossoni, si fa ancora più forte. E più cupo e minaccioso si fa il cielo della politica. In fondo, Macron ha guadagnato voti proponendosi come un volto nuovo e senza tessere di partito. Non appena però è prevalsa l’impressione che la sua novità non comportava una discontinuità radicale con il passato recente – basti il fatto che l’ormai impopolarissimo Hollande ha fatto intendere che lo avrebbe sostenuto – il suo slancio si è affievolito. E si è rafforzata la proposta estremista di Melenchon. A un passo dal voto, l’Europa dunque non sa se prevarranno le spinte disgregatrici che annunciano una nuova età di ferro, o se invece la Francia rimarrà dentro i Trattati, come il primo pilastro di una rinnovata politica di integrazione europea, che avrà nei mesi prossimi le sue decisive prove anche in Germania e anche da noi, nella cenerentola Italia.

(Il Mattino, 16 aprile 2017)

Renzi tra autocritica e rilancio

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Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)