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Zarone, lo sguardo e il quadernetto del filosofo

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La filosofia è sempre stata divisa fra oralità e scrittura. C’è una ragione: non c’è magistero che possa esercitarsi fuori del rapporto vivo e diretto fra maestro e allievo. Così è stato anche con Giuseppe Zarone, scomparso tre giorni fa all’età di 77 anni. Non so se sia il suo libro più importante, ma «Metafisica e senso morale», pubblicato sul finire degli anni Ottanta, serba di sicuro la traccia più fedele dell’insegnamento che Zarone teneva sulla cattedra di filosofia morale dell’università di Salerno. Con un quadernetto scritto fittamente, dal quale sollevava lo sguardo luminoso per continue digressioni e commenti, in ore lunghe e tese. Per chiunque si sia laureato in filosofia nell’Ateneo salernitano, quelle lezioni costituivano un passaggio fondamentale, persino decisivo: è difficile incontrare studenti e colleghi che dalla fine degli anni Settanta in poi abbiano frequentato quelle aule, che non ne serbino indelebile il ricordo. Nel percorso che Zarone intraprese in quegli anni – sempre più lontano dalle prime indagini storico-politiche («Bernstein e Weber», «Crisi e critica dello Stato»), sempre più votato verso indagini di carattere speculativo, che in lui si tingevano di una fortissima tensione religiosa («Pensiero e verità», «Il discorso e la parola. Parabole del senso tra Atene e Gerusalemme») – c’è anche, ne sono convinto, una traiettoria significativa: per un verso della storia culturale di Salerno, la cui scena pubblica perse progressivamente molti dei suoi migliori fermenti intellettuali; per altro verso della cultura filosofica italiana, nelle cui vene presero a circolare molto meno Gramsci, molto meno Marx, e molto più Nietzsche e Heidegger.

Rispetto a protagonisti celebrati di quella stagione, Zarone aveva un’ambizione e un desiderio in più: quella di sottrarsi al «démone» dello scrittore, che si esibisce nella pagina come un funambolo sulla corda. Sapeva benissimo di rischiare in questo modo l’indifferenza o l’oblio. Ma era convinto che ai libri dovesse toccare «il dovere dell’anonimato».

A quel paradossale e impossibile dovere Zarone si attenne sempre di più, negli anni. Cercando di sottrarsi per quanto possibile ai vincoli della comunità scientifica, come alle pesanti costrizioni accademiche, e di costruire (insieme a uno degli autori più amati negli ultimi anni, Franz Rosenzweig), il profilo di un uomo «metaetico», alla cui solitudine esistenziale e elevazione interiore – scrisse in un saggio – «la stessa morte fisica non aggiunge più nulla, e lascia del tutto irrisolto l’enigma del vivere e del morire».

Ora, sull’estremo limitare di una vita, credo che sia giusto infrangere questo dovere da parte di chi lo ha sentito come un maestro. Vi sono, nel discorso pubblico, «i lόgoi scientifici e le chiacchiere comuni»: è ancora possibile la parola della filosofia? Zarone credo ne dubitasse, ma, al contempo, riteneva che essa fosse necessaria come l’aria. La cercava nella tradizione del pensiero, ma anche fra i poeti, gli scrittori, i mistici, con un’apertura di orizzonte sorprendente e, per uno studente, persino entusiasmante. Per chiunque volesse non semplicemente imparare la filosofia, ma imparare a filosofare, quella ricerca, ovunque portasse, è stata essenziale.

(Il Mattino, 3 giugno 2017)

Da Abu Ghraib a Regeni. La tortura lato oscuro del potere

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Nella notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, a Genova, con l’irruzione della polizia nella caserma Diaz, furono commesse violenze e sevizie qualificabili come atti di tortura. Lo ha stabilito una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma non un tribunale dello Stato italiano, perché in Italia il reato di tortura non c’è. Nonostante le norme di diritto internazionale. Nonostante la ratifica nel 1989, da parte del nostro Paese, della Convenzione ONU contro la tortura. Il libro di Donatella Di Cesare (Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, € 11), in uscita oggi, ci fa riandare a quella notte, in cui fu scritta una delle pagine più nere della storia italiana recente, ma soprattutto getta uno sguardo profondo sui meccanismi e le dinamiche che legano non accidentalmente la politica e lo Stato alla pratica della tortura.

Abbiamo preso il libro dalla fine, dalla terza parte dedicata alla livida amministrazione della tortura, perché coinvolge più direttamente l’attualità: dalla prigione di Guantanamo al caso di Giulio Regeni, dalle fotografie dell’orrore di Abu Ghraib al G8 di Genova. Non solo i lager, dunque, o le dittature: in pieno ventunesimo secolo anche lo Stato democratico tortura, si macchia ripetutamente di abusi e violazioni. E di nuovo: nonostante le dichiarazioni universali, nonostante i diritti fondamentali, nonostante costituzioni, corti e tribunali. Perché?

La tesi dell’Autrice, svolta nella prima parte del libro, dedicata alla politica della tortura, è che se la tortura torna purtroppo come «una costante della storia umana» è perché essa è iscritta sin dall’origine nella logica del dominio: «Non è entro il codice della verità, bensì entro quello del potere che la tortura va considerata». Non si tortura, insomma, per estorcere verità o per fare giustizia, ma per affermare la presa assoluta del potere sui corpi, per riattivare l’oscuro fondamento di ogni soggezione politica.

Oscuro perché nascosto, perché spostato dal centro della sfera pubblica in qualche sottoscala o in qualche stanza male illuminata, dove sia consentito infliggere dolore e seminare terrore senza dare giustificazione alcuna. In realtà, dopo l’11 settembre e la guerra globale al terrore si sono compiuti, specie nel dibattito filosofico anglo-americano, tentativi spericolati di giustificare la tortura, di costruire paraventi giuridici e dilemmi morali con i quali autorizzare la politica delle «mani sporche»: per salvare vite umane, ma in realtà per spingere lo Stato oltre i confini della sua legittimità democratica, in una terra di nessuno dove tramonta ogni idea di giustizia.

Tentativi che l’Autrice, tra le maggiori filosofe italiane, smonta con implacabile lucidità e grande rigore argomentativo. Ed è impressionante veder sfilare, in pagine molto tese e dense, la quantità di figure di linguaggio e di pensiero in cui la tortura ha potuto trovare una parvenza di presentabilità. Una fenomenologia della tortura, così recita il titolo della seconda parte del libro, che toglie il fiato. E che purtroppo si rinnova anche oggi, nelle manovre che giuristi, politici e filosofi compiono per attenuare, camuffare o difendere l’indifendibile.

Per questo «Tortura» si rivela un libro non solo importante, ma necessario. Perché trovare le parole, a cominciare da quelle che dicono la sofferenza e la sottraggono alla muta violenza che giace al fondo di ogni potere, costituisce il primo atto di resistenza. Occorre dire, occorre dire e denunciare. E occorre, in Italia, a distanza di quindici anni dai fatti di Genova, una legge: senza ulteriori rinvii.

(Il Messaggero, 11 novembre 2016)