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Il filo rosso da Craxi ai 5 stelle

immagine«Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna»: 3 luglio 1992, nell’aula del Parlamento Bettino Craxi pronuncia un discorso passato alla storia per la crudezza con la quale il leader socialista affrontava il tema del finanziamento pubblico dei partiti. Tangentopoli è ormai esplosa, e l’intero assetto istituzionale è profondamente scosso non solo dall’inchiesta «Mani pulite», ma anche da fatti gravissimi, come l’attentato in cui ha perso la vita il magistrato Giovanni Falcone (solo due settimane dopo, il 19 luglio, cadrà vittima di un attentato anche Paolo Borsellino). Il discorso di Craxi andrebbe in realtà riletto tutto, perché descrive uno stallo dal quale, a venticinque anni di distanza, non è facile ritenere che il Paese sia uscito. Il vuoto di cui Craxi aveva orrore, e che il governo di Giuliano Amato provava a riempire, è ancora qui, a minacciare l’attuale sistema politico, agito da partiti sempre più fragili, sospeso fra inconcludenza e risentimento, percorso da venate di populismo che minacciano ogni giorno di far saltare il banco. È ancora qui la montagna del debito pubblico, sono ancora qui le esigenze di riforma e di ammodernamento delle istituzioni, è ancora qui l’insistente domanda sul significato dell’adesione al progetto europeo, ed è ancora qui, non superata, l’esigenza di moralizzazione della vita pubblica. Ma Craxi aveva ben chiaro che a questa esigenza bisognava dare una risposta politica, che non screditasse definitivamente «l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica». È andata diversamente. Non solo i partiti sono stati travolti dal discredito, ma si sono poste allora le basi di una campagna di delegittimazione profonda, che li ha lasciati in una perdurante condizione di minorità, e che sopratutto ha impedito che si affrontasse il nodo di fondo, che l’ex Presidente del Consiglio aveva denunciato in quel discorso: il finanziamento pubblico. Da allora ad oggi, si continua a vivere sotto l’illusoria convinzione che la politica non abbia bisogno di danari, e che chiunque li cerchi per finanziare la propria attività politica sia da quei danari corrotto e comprato irrimediabilmente.

Questa convinzione pesa come un macigno sulla politica italiana, fino a costringere l’altrieri Matteo Renzi a motivare la necessità di andare al voto con la storia dei vitalizi, a cui sarebbero ostinatamente attaccati i parlamentari, e ieri Virginia Raggi a cadere dalle nuvole apprendendo che il buon Romeo ha intestato a suo favore un paio di polizze vita a insaputa della sindaca. Ma se tutto accade a insaputa della politica – una volta le case, quest’altra le polizze, la prossima volta chissà, una donazione o una promozione – vuol dire proprio che la «verità delle cose» non può ancora essere detta in pubblico.

Intendiamoci: abbiamo ogni ragione per credere a Virginia Raggi. Se però la versione che lei fornisce appare così poco credibile, irragionevole, persino insensata, è perché nessuno è in grado di vedere la linea che separa le utilità private da quelle pubbliche, il finanziamento dalla corruzione, la liberalità dall’opportunismo. Quella linea nessuno prova a tracciarla. Si aboliscono i vitalizi (anche se la gente non lo sa), si abolisce il finanziamento pubblico, ma non si mette in chiaro attraverso quale sistema la politica debba sostenersi. Non si fa una legge sui partiti politici, e non si mette ordine nei rapporti con i portatori di interesse, e soprattutto si continua ad agitare in pubblico il drappo rosso che scatena il toro del populismo, nell’illusione che l’Italia starebbe molto meglio se la politica non ci fosse proprio. Se i partiti fossero aboliti, il Parlamento sciolto, e deputati e senatori mandati tutti a casa.

Virginia Raggi non ha alcuna colpa: è quello che personalmente mi auguro. E mi auguro che resti in Campidoglio il più a lungo possibile, così che i cittadini romani abbiano modo di giudicarla per come amministra la città. Ma una cosa non può fare: prendersela con quelli che ora le stanno addosso, che vedono la sua pagliuzza mentre hanno nell’occhio una trave. Perché non è una pagliuzza il programma sopra enunciato: passi per le polizze e chi le intasca, ma quelli che vogliono togliere di mezzo la politica, il parlamento, i partiti e ogni forma di intermediazione politica sono proprio loro, sono i grillini. Sono – se ne rendano conto o no – gli amici fanfaroni ed entusiasti, generosi e inconcludenti dei meetup. È il suo partito che ora cavalca l’onda, quello che si è inventato la retorica dell’uno vale uno, del parlamentare mero portavoce, del mandato imperativo, del Parlamento scatoletta di tonno, dei limiti al numero di mandati, dell’autoriduzione dello stipendio, del non-statuto e dei contratti privati con i quali si risponde non ai cittadini elettori, ma al Capo, a un’azienda privata e al suo Staff. Non sono cose tutte uguali, ma tutte fanno sistema e ostruiscono un discorso di verità sulla politica.

Che non diviene meno vero per il fatto che Craxi fu in seguito travolto dalle vicende giudiziarie.Lo è se mai di più, perché dimostra che quel discorso non riguardava il destino personale di un uomo e non doveva assolvere o giustificare nessuno: riguardava la strada che il Paese doveva imboccare.

Suona assolutorio riproporlo oggi? Può darsi, ma molto dipende dalle orecchie di chi lo ascolta. Se invece servisse non assolvere la Raggi e le sue polizze, ma a spingere qualcuno ad accendere una polizza sulla democrazia, allora tornerebbe davvero utile rileggerlo.

(Il Mattino, 4 febbraio 2017)

86 anni con la rosa nel pugno

Pannella

Pannella, il divorzio, l’aborto. Ma nella lunga vita di Giacinto Pannella detto Marco c’è molto di più. Non c’è solo una fotografia in bianco e nero scattata negli anni Settanta, la grande stagione dei diritti civili, ma ci sono anche la campagna contro la fame nel mondo, e i referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti. Ci sono le battaglie sui temi della giustizia: contro la legislazione emergenziale, per la responsabilità civile dei giudici, contro la carcerazione preventiva, per i diritti dei detenuti e l’amnistia. Ci sono il referendum elettorale per l’abolizione delle preferenze, condotto insieme a Mario Segni al tramonto della prima Repubblica, e la legalizzazione delle droghe leggere; lo scontro sul diritto all’informazione – in particolar modo radiotelevisiva –, che ha accompagnato tutta la vicenda politica dei radicali italiani contro l’occupazione della Rai da parte dei partiti e, negli ultimi anni, i temi della procreazione medicalmente assistita e dell’eutanasia. E ci sono gli atti, numerosi, di disobbedienza civile e gli scioperi della fame e della sete, numerosi pure quelli; ci sono le candidature scandalose in Parlamento – da Cicciolina a Enzo Tortora passando per Toni Negri – e l’impetuosa campagna per le dimissioni di Giovanni Leone dalla Presidenza della Repubblica (per la quale, molti anni dopo, ebbe il coraggio di scusarsi); l’accusa di attentato alla Costituzione all’indirizzo di un altro Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e la lotta contro la pena di morte nel mondo. C’è una vita generosa e logorroica, condotta sempre in pubblico e tra i militanti, tracimata in mille modi nelle vene della società italiana. E ci sono le associazioni della «galassia radicale», la radio, le esperienze nel Parlamento nazionale e in quello europeo, la fondazione di liste e soggetti politici che hanno attraversato come stelle filanti il panorama politico italiano: la lista Pannella, la lista Bonino, la Rosa nel pugno, la lista Sgarbi-Pannella, tutti tentativi di malcerta fortuna di riversare in una forma parlamentare un’esperienza unica non solo nel panorama nazionale ma in quello europeo. Basti la lunghissima definizione che dovrebbe riassumerne la posizione politica: laico, anticlericale, liberale, liberista, libertario, ma anche socialista per qualche tratto, e alleato con Berlusconi prima e con Romano Prodi poi, e chissà con chi altri la prossima volta ancora.

Ma una prossima volta non ci sarà, perché all’età di 86 anni si è spenta una vita che ne ha contenute più d’una, e in cui è difficile tenere tutto insieme. Un paio di robusti fili conduttori l’hanno però attraversata. Il primo: le infaticabili battaglie per lo stato di diritto. Pannella ne ha condotte molte, e non sempre sono state battaglie facili e immediatamente comprensibili. Tutti ricordano il caso Tortora, il popolarissimo presentatore televisivo arrestato insieme a centinaia di altre persone. Pannella ne sposa la causa: con passione, coraggio, tenacia. Tortora viene arrestato sulla base di dichiarazione dei pentiti poi rivelatasi del tutto false e infondate, Pannella lo candida al Parlamento europeo. Tortora viene condannato in primo grado a dieci anni, il partito radicale lo elegge presidente. Quella battaglia portò ad un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che fu largamente vinto dai radicali e ampiamente disatteso dal Parlamento (oltre che inviso alla magistratura associata): ci sono voluti altri venticinque anni per «vendicare» quel referendum, con la legge dello scorso anno.

Altri cavalli di battaglia dell’idea pannelliana di giustizia, come l’avversione all’obbligatorietà dell’azione penale, non sono mai divenuti davvero parte delle proposte di riforma in materia. Lo stato di diritto era però per Pannella violato ogni giorno, ad ogni passo, quasi in ogni circostanza dalla malfamata partitocrazia: parola che, del resto, ha introdotto lui nella contesa politica. La stessa Corte costituzionale riceveva dal leader radicale il nome non graziosissimo di «cupola della mafiosità partitocratica», essendo indicata come il luogo in cui le aderenze e le connivenze consociative tra i partiti trovavano la massima rappresentazione (e il modo e il mezzo per far fuori le proposte referendarie radicali, che in quegli anni piovevano copiose). Il vero terreno di scontro era infatti per Pannella l’assetto stesso dei partiti di massa, che avevano costituito l’architrave della prima Repubblica, e l’impianto proporzionalistico della legge elettorale. Negli anni del compromesso storico fra Dc e PCI, Pannella collocò fieramente all’opposizione la sparuta pattuglia radicale eletta in Parlamento, contro quello che chiamava «il partito della spesa unica». Quando quell’assetto entrò in crisi, Pannella promosse il referendum elettorale per cambiare in senso uninominale e maggioritario la legge. E quando le inchieste di Tangentopoli spazzarono via quel mondo, Pannella fu tra quelli che simpatizzarono con il magistrato «crumiro», Antonio Di Pietro, anche se non dimenticò la propria storia garantista cercando di tenere in piedi il Parlamento degli inquisiti, con l’iniziativa assolutamente impopolare dell’autoconvocazione dei peones parlamentari alle sette del mattino. Una cifra dello stile politico di Pannella, sempre fuori le righe, e impeccabile e spropositato al tempo stesso.

Ecco l’altro filo conduttore: conta la battaglia, non con chi la fai. Per questo motivo, Pannella si è trovato a fianco alle frange extra-parlamentari, quando bisognava protestare contro le leggi eccezionali introdotte per contrastare il terrorismo, ma anche con il Cavaliere al tempo della prima discesa in campo di Berlusconi, in nome quella volta della rivoluzione liberale. Con un’idea quasi evangelica dello «scandalo»: che è bene che avvenga, se serve ad accendere i riflettori. E allora ecco Pannella e la pornostar Ilona Staller, a favore della libertà sessuale, e Pannella che cede stupefacenti in tv, contro la penalizzazione del consumo di droga. Pannella imbavagliato nel corso della tribuna politica, per protesta contro le omissioni e le censure della televisione pubblica, e Pannella che beve la propria urina nel corso di uno sciopero della sete o affianca il medico anestesista Mario Riccio perché aiuti Piergiorgio Welby a morire.

Sul finire degli anni Settanta, Alberto Asor Rosa stigmatizzava, con una certa spocchia, «l’illusione radicale di fare la lotta al sistema senza riferirsi chiaramente a posizioni di classe». La posizione di classe in questione era ovviamente quella del partito comunista, che Pannella detestava cordialmente, cordialmente ricambiato. Bastian contrario per eccellenza, Pannella Giacinto detto Marco non ne voleva sapere di piegarsi alle ragioni delle politica organizzata, anche a costo di beccarsi l’accusa di qualunquismo. Come quando, prima ancora che Grillo e i Cinquestelle comparissero all’orizzonte,, promuoveva la restituzione in piazza dei soldi del finanziamento statale ai partiti. O quando enunciava il più insostenibile di tutti i paradossi: la democrazia repubblicana come una continuazione con altri mezzi del fascismo. Aveva torto o ragione? Torto, ovviamente, ma valle a ritrovare ora, le posizioni di classe di Asor Rosa!

P.S. È entrato tutto Pannella in questo articolo troppo lungo? No di certo: ci mancano almeno il pacifismo e l’interventismo democratico, l’antimilitarismo e il filoamericanismo, una storica amicizia con Israele e la proposta di esilio per Saddam Hussein, l’amore liberale per i grandi partiti all’americana e la presa paternalistica e settaria sul piccolo mondo radicale. E contraddizioni su contraddizioni, in un’avventura umana di cui però, alla fine, non si può non vedere la grandezza. E un punto di coerenza di fondo, nella fiducia (quasi religiosa) nelle laicissime ragioni dell’individuo.

(Il Mattino, 20 maggio 2016)