Cene, feste, macchine. Macchine, feste, cene. Più spiccioli per le ricariche telefoniche o per piccole passioni e innocenti (però lussuosi) trastulli. Forse non conosciamo ancora il totale esatto, milione più milione meno, di sicuro però Guardia di Finanza e Corte dei Conti ci metteranno un po’ per passare al setaccio fatture e scontrini del gruppo Pdl alla Regione Lazio.
Ma, reati e danno erariale a parte, come lo si troverà ora anche un solo cittadino che di fronte a tanto sperpero, a tanta sfacciataggine, a tanto malcostume voglia impegnarsi in un pacato ragionamento politico, in una riflessione meditata sulle prospettive del Paese e la riscossa della democrazia?
E così siamo punto e a capo. Vent’anni dopo Tangentopoli rischiamo di ritrovarci là dove ci eravamo lasciati. Cioè nei pressi di un’elezione politica generale in cui il tema principale del confronto politico rischia di essere non le prospettive che si offrono al paese, non l’uscita dalla crisi, non il confronto con l’Europa, ma la qualità della classe politica chiamata a governare. E naturalmente non la qualità squisitamente politica, e neppure le competenze, il prestigio internazionale oppure, che so, la capacità di leadership, ma il grado di prossimità, di coinvolgimento o di compromissione con le impudenze, l’illegalità o le ruberie di cui non si smette di avere prova.
Con quale risultato? Che cosa ne viene al paese da un confronto politico in cui elementi di programma e scelte di fondo sono sopravanzate dalla (sacrosanta, peraltro) indignazione per gli scandali che continuano a tracimare sulle prime pagine dei quotidiani? Ben poco, purtroppo. Lo si è fatto già una volta, già una volta abbiamo votato sull’onda della convinzione che i politici sono tutti ladri, con la speranza di procurare un cambiamento di sistema che ci liberasse in un colpo solo di tutto il marciume della vecchia Repubblica: quel che però è venuto fuori non ha dato gran prova di sé. E non è tanto questione di Berlusconi, quanto del berlusconismo, cioè dell’idea che una colorita espressione napoletana rende meglio di ogni disquisizione politologica: l’idea di fare il gallo sopra la monnezza (invece di togliere la monnezza dalle strade). Vale a dire, fuor di metafora: invece di costruire una proposta politica e di governo, fare del discredito e della delegittimazione della politica le condizioni della propria fortuna. Da ultimo lo sta facendo Grillo – il quale, dal canto suo, ha definitivamente chiarito, a Parma, cosa sia il suo movimento, quando ha detto senza mezzi termini che “Bossi è stato un grande, finché non è entrato nel sistema”). Grillo come il Bossi d’antan, quello che voleva scendere dalle valle coi fucili fino a Roma. Ma, Grillo o non Grillo, il rischio che si punti solo a far saltare il tavolo esiste. E che nuovi apprendisti stregoni vogliano esercitarsi nell’impresa, anche. Il primo partito chiamato a resistere a questa china pericolosa è il Pd, perché ha davanti alle primarie: vedremo in che modo verranno condotte, con quali argomenti chiameranno a votare la gente. Con quali proposte, con quali toni.
D’altra parte, ha ragione Mario Calabresi (su La Stampa): lo scandalo della Regione Lazio non dimostra solo che quando si crede di aver toccato il fondo c’è sempre qualcuno che si mette a scavare, ma sgretola anche le poche certezze sulle quali si voleva costruire, negli ultimi anni, la speranza di una politica nuova. Il federalismo, i giovani, le preferenze. Nessuno di questi ingredienti ha mostrato infatti di produrre di per sé buona politica, a giudicare almeno dalla maniera in cui un’istituzione regionale ha fatto spazio nel proprio bilancio agli appetiti di voraci consiglieri, i quali peraltro si segnalavano per la giovane età (De Romanis, quello della festa in costume), oppure per il ricchissimo patrimonio di preferenze (Fiorito, quello dei conti pantagruelici). Questo ovviamente non significa che, allora, dobbiamo augurarci l’inamovibilità della classe politica, un esasperato centralismo e il ritorno dei piemontesi in tutte le Prefetture d’Italia, e, infine, tenerci il Porcellum. Proprio no. Significa però che nessuna ricetta potrà mai bastare, nessuna tecnica elettorale e neppure le norme più stringenti se la politica non tornerà ad essere un’impresa collettiva, l’assunzione di una responsabilità comune e l’indicazione di un bene possibile, piuttosto che il percorso personale che ciascuno traccia per sé, nel deserto dei partiti, col favore dell’ombra che la luce proiettata sui galli, cioè sul leader di turno, lascia ai suoi spregiudicati compagni di ventura.
Il Mattino, 25 settembre 2012