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Cultura, tanti passi indietro dal ’46

1946: all’indomani della seconda guerra mondiale si riuniscono a Ginevra per qualche giorno alcuni spiriti magni: il filosofo tedesco esistenzialista Karl Jaspers, il marxista ungherese György Lukacs. E poi i francesi, il cattolico Georges Bernanos, il liberale Aron, e Lucien Benda, quello del “tradimento dei chierici”, e intellettuali svizzeri, russi, inglesi, romeni. Per l’Italia c’è solo il critico Francesco Flora, perché Croce, al solo pensiero di poter incrociare Sartre, ha declinato l’invito, e i giovani Bobbio e Calogero e Capitini sono ancora troppo giovani. E tutti costoro, chi con la zazzera, chi con la canizie, chi con aria frivola e mondana chi invece con piglio ascetico e severo, discutono con passione del futuro della civiltà europea. A riferirne è un altro grande intellettuale, il trentaquattrenne Gianfranco Contini, che è lì nella singolare veste di cronista, lucidissimo nell’indicare insufficienze e limiti, ma anche pronto a cogliere con acutezza punti di forza e questioni aperte. E soprattutto a cercare in tutti gli interventi quello che giudica il primo requisito di una cultura: la sua vitalità, quindi anche il suo rapporto reale con il tempo storico, con gli orizzonti vivi ed attuali del momento presente. Da questo punto di vista, a malincuore Contini si vede costretto ad ammettere che c’è molta più consapevolezza della posta in gioco nel filosofo comunista che non nel tratto di vaghezza aristocratica del liberale Jaspers. A malincuore, perché nulla potrebbe essere più lontano dalla sua formazione civile, azionista, dell’ortodossia staliniana di Lukacs: per fortuna, annota il giovane filologo, concretezza non significa solo dogmatismo di partito. E però Contini, uomo di libri e di scartafacci, sa bene che non è un tempo in cui serva una bellezza immobile, un moralismo astratto o una cultura disinteressata: serve invece coscienza che l’intero patrimonio della civiltà europea attende di essere traghettato nella modernità, al servizio della ricostruzione morale, civile, politica del continente. L’Europa, infatti, è l’unico continente che ha un contenuto: così diceva lo spagnolo Ortega y Gasset, che a Ginevra non poté andare perché il regime franchista gli rifiutò il passaporto. Questo contenuto sono i principi della democrazia, è l’umanesimo della ragione, è un’idea di storia e di progresso. È anche la civiltà cristiana: è notevole pure il fatto che il coltissimo Contini noti quanto poco nella calvinista Ginevra risuoni il nome di Cristo, e gli venga fatto di obiettare che se è vero che Cristo non è una cultura, “è un po’ più grave che la cultura non sia Cristo”.

Qualunque cosa però si pensi dei giudizi di Contini e del tono concreto, civile e politico del suo reportage, su una cosa non si può non concordare: che oggi non c’è nessuna Ginevra. Che oggi in nessun luogo, non in una capitale e neppure in un piccolo borgo, intellettuali europei, filosofi o letterati, storici o musicisti, sentono l’esigenza di riunirsi per domandarsi dove va la cultura europea. E di domandarselo in termini vivi e reali. Sentite infatti che lucide parole: “Non si capisce che significhi una discussione sullo spirito europeo se essa non serve a una ricognizione delle specifiche istituzioni, fuor delle quali la sua stessa esistenza è revocabile in dubbio”. Capite? Si saranno pure riuniti, nel ’46, fenomenologi e ontologi e altre specie strane di pensatori, i discorsi saranno pure stati fumosi e ben poco traducibili l’uno nell’altro, ma c’era almeno l’esigenza di provarci, e non per la gloria e a beneficio dell’eterno, bensì per il proprio tempo e per i propri concittadini.

Ma di nuovo: quanta consapevolezza c’è oggi che con l’euro è in ballo un pezzo importante della civiltà europea? Che per esempio le tensioni nell’Unione stanno alimentando nazionalismi e populismi ed altre pulsioni pericolose per la tenuta delle istituzioni democratiche? E quanta coscienza c’è della necessità di riunirsi a Ginevra, o in qualunque altro posto, non per firmare vuoti e triti appelli ma per dimostrare la vitalità di una cultura, il suo interesse per il corso del mondo? Perché se questo non accade, si potrà dire quel che si vuole dei populisti o dei tecnocrati, ma bisognerà prendersela anzitutto con le proprie omissioni e le proprie assenze.

Il Mattino, 23 giugno 2012