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Partiti al voto, ecco i programmi

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(Il 4 marzo si andrà alle urne per il rinnovo del Parlamento. Ma per quale politica voteremo? Il Mattino ha spulciato tra i programmi, ancora in bozze e in via di definizione, dei tre sfidanti diretti: dal lavoro al fisco, dalla giustizia ai migranti ecco le differenze fra M5S, Pd e Centrodestra. Mentre i Cinquestelle sfidano la casta e puntano allo sforamento del deficit, per i dem la campagna elettorale va centrata su occupazione e welfare. Collaudato lo schema di FI e Lega che fanno di fisco, giustizia e migranti i loro cavalli di battaglia. Intanto, si complica la corsa alla presidenza della Regione Lombardia dove Liberi e Uguali dice no al candidato del Pd Gori e acclama Rosati)

I programmi non sono il miglior viatico per le campagne elettorali, e nemmeno il modo migliore per riempire le urne, però qualche indicazione di fondo sull’impianto politico e culturale di una forza o di una coalizione politica possono darla.

Se quegli impianti esistono. Nel caso dell’attuale centrodestra, che pure sembra godere dei favori del pronostico, è piuttosto difficile dire dove abbia la sua impronta fondamentale. Non mancano certo alcune idee portanti, che sembrano tutte provenire dalle precedenti esperienze di governo (salvo essere mancate sul fronte dei risultati effettivi di governo), ma è ben poco chiaro quanto siano condivise dai due partiti principali, Forza Italia e Lega. A sentire Salvini, bisogna togliere di mezzo la legge Fornero. A sentire Berlusconi no. A sentire Salvini, bisogna uscire dall’euro. A sentire Berlusconi no. Più che un vero denominatore comune, il centrodestra sembra cercare la residua area di intersezione fra due insiemi di idee che si sono separati dopo la crisi del 2011 e la fine dell’ultimo governo Berlusconi. La Forza Italia ha una matrice liberale moderata; la Lega di Salvini una caratterizzazione populista e sovranista: mettere insieme questi diversi universi ideologici non è semplice. Al Cavaliere riuscì di farlo nel ’94, quando le distanze fra i partner erano ancora maggiori, in nome di un cambiamento radicale di scena politica e di una profonda rivoluzione fiscale. La prima fiche non può essere puntata un’altra volta, dopo quasi un quarto di secolo; la seconda invece sì, e Berlusconi sta infatti lanciando con forza l’idea, davvero dirompente, di una flat tax (al 15, al 20 o al 23%: ancora non si sa). Che sia una strada veramente praticabile, non una trovata estemporanea ma il perno di una ridefinizione del rapporto fra Stato e cittadini, beh: questa è tutt’altra faccenda.

I Cinque Stelle hanno due direttrici di fondo, lungo le quali viene formandosi la loro identità nero-verde: da un lato, il tema ambientale; dall’altro, la lotta alla speculazione finanziaria. Gli ambiti in cui infatti provano a costruire proposte di intervento incisivi sono questi due: la conversione ecologica dell’economia; la riforma in senso ‘nazionale’ del sistema bancario. Certo, la campagna elettorale Di Maio e i grillini la giocano su altre proposte: il reddito di cittadinanza (che costa un pacco di miliardi), l’abolizione della legge Fornero, la guerra senza quartiere alla casta della politica. Ma se si cerca qualche tratto ideologico più marcato, nei giri di frase dei Cinque Stelle, si trova questo: la finanza è cattiva, l’euro – così com’è – è cattivo, petrolio e carbone sono cattivi. Cattivi sono poi, oltre ai politici, anche i giornalisti (niente più finanziamento pubblico all’editoria), e cattivi infine gli sbarchi illegali di immigrati sulle nostre coste. In una mescolanza con cui si prova a rappresentare i diffusi umori antipolitici ma anche a intercettare quel che c’è di nuovo nel modo di organizzarsi dell’economia e della società (vedi l’attenzione al web, oltre all’ecologismo spinto), il Movimento Cinque Stelle non è più un’incognita completamente indeterminata. Ha anzi una base sociale sempre più riconoscibile nei giovani e nel ceto piccolo e medio, che Luigi Di Maio incarna perfettamente.

Quanto al partito democratico, ha un problema tutto diverso. Perché per un verso si sforza di dimostrare che merita il voto della sinistra – nonostante la spina nel fianco di Liberi e Uguali sia lì all’unico scopo di contestargliene il diritto – per altro verso però non può certo farlo rinnegando il lavoro svolto in questa legislatura. Che indubbiamente ha ricevuto il suo timbro dal governo Renzi. Ora: in nome di cosa Renzi ha governato? Della rottamazione della vecchia politica, delle riforme costituzionali, di una definitiva acquisizione di un solido impianto riformista. Paradossalmente, è però la parte più “politica” di questa eredità che il Pd non è in grado di rivendicare. È il suo significato politico-culturale che sembra essere andato perduto. Perché il Pd ha i suoi punti programmatici da segnare: sul fronte dell’economia, sul versante dei diritti civili. Manca però il collante ideologico. C’è la difesa del jobs act, c’è l’ancoraggio europeo, c’è lo ius soli nel programma: ma non c’è ancora la forza di convincere l’elettorato di centrosinistra che è quella la linea lungo la quale proseguire, se non vuole tornare indietro. E questa, alle soglie di un voto, non è certo la situazione più comoda.

(Il Mattino, 13 gennaio 2018)

Una crisi e cinque strade

cinque strade

Come andrà a finire? Renzi tornerà a Palazzo Chigi? O sarà la volta di Luigi Di Maio, un inedito assoluto per il nostro Paese? E se invece arrivasse prima la coalizione di centrodestra: a chi toccherebbe l’incarico di formare il governo? E se non si formerà alcuna maggioranza? Sarà il Presidente della Repubblica a tenere le redini della politica italiana, sostenendo un governo istituzionale che eviti un rapido ritorno alle urne? La scorsa legislatura viene concludendosi praticamente alla sua scadenza naturale, nonostante dal voto non fosse uscita, nel 2013, alcuna maggioranza omogenea. Succederà la stessa cosa? Oppure stiamo per entrare in un periodo di forte instabilità politica?

A nessuna di queste domande è possibile oggi dare risposta. Quel che si può fare, è indicare i possibili scenari che sono dinanzi al Paese. Quale di essi prenderà forma dipenderà certo dai risultati elettorali, ma non solo. Ci vogliono i numeri, ma anche la politica. Prendiamo il caso della Germania: a tre mesi dal voto, la Merkel non è ancora riuscita a formare il governo. Il suo 30% (più il 7% dei cristiano-sociali bavaresi) non fa maggioranza. L’ipotesi di una coalizione con Verdi e Liberali è fallita, e ora i popolari cercheranno di rifare la grande coalizione con i socialdemocratici di Martin Schulz, ma l’esito delle trattative non è affatto scontato. Nuove elezioni o governi di minoranza dalla corta prospettiva sono dietro l’angolo, mentre cresce in maniera inquietante il consenso all’estrema destra antieuropeista.

Le cose, qui in Italia, non è detto che vadano molto diversamente. Vediamo. Il primo scenario da considerare era considerato, fino a un anno fa, il più probabile: il partito democratico primo partito, Renzi alla guida del governo. Dalla sera del 4 dicembre ad oggi, questa ipotesi non ha fatto che calare in popolarità. Certo, gli italiani decidono in grande maggioranza cosa votare solo nei giorni immediatamente precedenti il voto, e già in passato si sono registrati significative variazioni percentuali significative durante la campagna elettorale. Diciamo allora che una cosa è presso che certa: la possibilità per Matteo Renzi di tornare a Palazzo Chigi è legata a questa unica ipotesi, che il Pd arrivi davanti a tutti. Se questo accadesse, è ragionevole pensare che una maggioranza si formerà, presumibilmente con gli alleati moderati e centristi con i quali il Pd ha governato in questa legislatura. Una eventuale vittoria di Renzi avrebbe un effetto anche sugli altri schieramenti: mentre infatti la Lega non ha alcuna intenzione di governare col Pd, Forza Italia è sicuramente più disponibile. Ma è possibile che voti in soccorso arrivino anche da sinistra, una volta che la vittoria di Renzi avrà sancito il fallimento del progetto di Liberi e Uguali, messo in piedi solo per offrire un’alternativa al Pd agli elettori di sinistra.

Se però il Pd finisce dietro, Renzi rischia di uscire definitivamente di scena, e la responsabilità di formare il governo spetterà ai Cinquestelle, o al centrodestra. Nel primo caso, l’unica cosa certa è che il candidato premier di un futuro governo pentastellato è solo uno: Luigi Di Maio. Non sono previste subordinate. Questo significa che eventuali trattative con altre forze politiche non riguarderebbero in ogni caso Palazzo Chigi. Ma, a parte questa, altre certezze non vi sono. Nessun sondaggio accredita la possibilità di un monocolore grillino: dunque Di Maio dovrà cercarsi i voti in Parlamento. Escluso che il partito democratico o Forza Italia possano dare il via libera a un governo guidato dall’attuale vicepresidente della Camera, rimangono due possibilità: che Di Maio vada al governo con i voti di Liberi e Uguali; che invece vi vada con i voti della Lega. La prima ipotesi è quella che Pierluigi Bersani sta provando a tenere al caldo. Da quelle parti, l’unica pregiudiziale, infatti, è verso Renzi: di tutto il resto si può discutere. La seconda ipotesi è quella che sembra di decifrare dietro cose come la decisione dei Cinquestelle di far mancare il numero legale sull’ultimo provvedimento al Senato: lo ius soli. È successo ieri. Lega (e centristi) hanno gradito, e un possibile terreno di intesa viene di fatto a consolidarsi.

Se sarà invece il centrodestra ad arrivare davanti a tutti, bisognerà anzitutto misurare i rapporti di forza interni alla coalizione. Certo, se i voti di Forza Italia, sommati a        quelli della Lega e di Fratelli d’Italia, fossero sufficienti, o quasi, il governo sarebbe cosa fatta (mentre è ancora tutto da fare il nome dell’eventuale premier). Più probabile è che però non raggiungano la maggioranza, e allora bisognerà trovare nuovi consensi. Se Forza Italia prende più voti della Lega (e più facilmente se lo scarto tra i due partiti è sufficientemente ampio), si può ipotizzare che nasca una grande coalizione anche da noi. Ma non è detto affatto che basterà sommare i voti di Forza Italia e Pd, e quasi sicuramente la Lega non sarebbe della partita. È già successo nel corso di questa legislatura: la Lega non è entrata nel governo Letta, che invece Forza Italia ha sostenuto. Se il pallino sarà nelle mani di Forza Italia, è però possibile che anche Liberi e Uguali sia della partita: dopotutto, è la formazione alla quale hanno aderito le più alte cariche dello Stato (un fatto privo di precedenti: che la Legislatura termini con i presidenti delle due Camere arruolati entrambi in una formazione di sinistra che non fa parte della coalizione di governo), e dunque si può ritenere che il senso di responsabilità istituzionale alla fine prevalga. Soprattutto se questo esito determinerà, com’è probabile, anche un cambio di segreteria nel partito democratico.

Resta ancora un altro scenario, che delineiamo per ultimo ma che non è affatto il meno probabile. Ed è lo scenario che si determinerà qualora nessuna delle ipotesi fin qui descritte prendesse sufficiente consistenza: che si fa se il Pd non sarà il primo partito, oppure se la grande coalizione non ha numeri sufficienti, o ancora se i Cinquestelle da soli non ce la fanno e se non trovano alleati con i quali governare? Che succede se il centrodestra si spacca, se il Pd implode, se la frammentazione non trova un punto di ricomposizione intorno a una formula sufficientemente autorevole, e se, più semplicemente, non ci sono i numeri per nessuna delle soluzioni prospettate? A quel punto, la fisarmonica della Presidenza della Repubblica, che nei periodi di stabilità può chiudersi, dovrà necessariamente riaprirsi, e il ruolo di Mattarella crescerà proporzionalmente al grado di difficoltà in cui si ritroverà il quadro politico. Si può cioè pensare che il Quirinale, prima di rassegnarsi a nuove elezioni, provi a dare l’incarico di formare il governo a qualche figura di particolare prestigio e autorevolezza (il futuro Presidente del Senato? Il governatore della Bce Draghi? Il Presidente della Corte Costituzionale Grossi?), capace di raccogliere in Parlamento un consenso sufficiente a far nascere un nuovo Esecutivo. Nel quale è possibile che non siedano esponenti politici – ed è la soluzione più probabile – o che invece i partiti siano rappresentati al più alto livello, in modo da garantire la tenuta del patto di governo – ma è la soluzione meno probabile. Un governo tecnico-istituzionale, che sarà (non è la prima volta) chiamato a “fare le riforme”. Quali poi siano le riforme in grado di far funzionare il sistema politico istituzionale non è più chiaro a nessuno, essendo naufragati tutti i precedenti tentativi di tirare il Paese fuori da questa infinita transizione.

Così succederà che il discrimine fra le forze politiche, in campagna elettorale, non corrisponderà alle vere linee del confronto politico, in Italia e altrove decise essenzialmente da due grandi questioni: il rapporto con l’Europa, e la questione migranti. Che il giorno dopo il voto si rimescolino le carte, è dunque più che probabile.

(Il Mattino, 24 dicembre 2017)

Se la partita per il Paese si gioca a due

Klee

P. Klee

La forbice di numeri è ancora ampia, e può fare la differenza. Ma gli exit poll siciliani alcune cose le dicono fin d’ora. La prima è indiscutibile: non sappiamo se l’asticella toccherà davvero la quota psicologica del 40%, o si manterrà al di sotto, ma in ogni caso il risultato dimostra che nell’isola il centrodestra si è ripreso il suo elettorato. È vero che nelle passate elezioni regionali il centrodestra superò il 40%, ma cinque anni fa si presentò diviso, e questo consentì a Crocetta di divenire presidente della Regione, mentre questa volta si è presentato unito. La differenza l’ha fatta dunque la capacità di presentarsi con un solo candidato, Nello Musumeci. Dopodiché però la tenuta del centrodestra, soprattutto in proiezione nazionale, è ancora da dimostrare. Sentito da questo giornale, Salvini si è limitato a parlare di un punto di partenza, negando che il patto dell’arancino – la cena con Berlusconi e la Meloni – equivalesse a un accordo elettorale per le politiche del prossimo anno. Quel che vale in Sicilia non è ancora detto che valga a Roma. Anche se dalla Sicilia riceve una grossa spinta: il centrodestra unito, ha detto ieri sera il coordinatore di Forza Italia nell’isola, Micciché, farà il pieno nei collegi uninominali. Un argomento maledettamente convincente.

La seconda evidenza è il risultato dei Cinquestelle: da soli, hanno superato sicuramente il 30%, ed è probabile che siano sopra il 35%. È persino possibile che Cancelleri arrivi davanti a Musumeci e diventi il primo presidente di Regione a cinque stelle: sarebbe un esito clamoroso, che proietterebbe la sua ombra anche sul voto della prossima primavera. Comunque vada a finire il testa a testa fra i due candidati, è chiaro fin d’ora che i grillini sono di gran lunga il primo partito dell’isola. Non solo. Benché sia presto per avere numeri attendibili sui voti di lista, è sicuro che i Cinquestelle prendano il doppio o più dei voti andati a Forza Italia e al Partito democratico. Il doppio anche dei voti che lo stesso Cancelleri prese nel 2012, quando raggiunse il 18%. Grillo e i suoi sono ora di fronte al dilemma dinanzi al quale si troveranno probabilmente anche a marzo: sono la prima forza siciliana, stravincono tra i giovani (cosa di per sé significativa), e soprattutto vincono da soli contro quelle che chiamano «le armate Brancaleone» schierate da centrodestra e centrosinistra; ma proprio perciò, senza alleati di sorta, rischiano di fermarsi a un passo dal governo. Fin qui e non oltre, rischiano di infrangersi contro l’impossibilità di fare accordi con tutti gli altri.

La terza evidenza riguarda lo stato della sinistra. Difficile, a dir poco. Non solo il Pd è andato male, è andata male anche la sinistra di Fava. Il Pd ha preso gli stessi voti delle precedenti elezioni regionali, o forse anche meno, e questo dà tutto il senso della sconfitta: oggi come cinque anni fa, vuol dire che il renzismo in Sicilia è passato invano, o non è mai arrivato. Anche Claudio Fava ha preso però all’incirca i voti della volta scorsa (quando presentò liste col suo nome, pur non potendo essere candidato). Se Sparta piange, Atene non ride, insomma. E intanto Micari, se gli exit poll dovessero essere confermati, si troverebbe una decina di punti sotto il 2012, avendo perso tutta un’area di voto centrista che nelle scorse elezioni aveva sostenuto Crocetta. In questo contesto, pesa anche il risultato fortemente deludente di Alternativa popolare, il partito di Alfano, ridotto a poca cosa in quella che restava forse la sua ultima roccaforte.

Se poi si facessero raffronti con le politiche del 2013, o peggio con le europee del 2014, si misurerebbe più vistosamente l’arretramento del Pd e del centrosinistra. Si tratta di un confronto parecchio improprio, ma inevitabile. Soprattutto per un partito che aspira a governare il Paese, e che per farlo dovrebbe – almeno in linea teorica – traguardare quota 40%. Forse, però, più dei numeri conta il quadro politico complessivo. Micari è andato male per due ragioni: perché pagava il giudizio dei siciliani sul governo uscente di centrosinistra, che era ed è assai negativo, e perché non gli è riuscita l’operazione di allargare il suo campo. Fin da subito la sua è parsa così una candidatura marcata dal segno dell’isolamento. Ora, è vero che lo scenario locale è diverso da quello nazionale, ma il rischio è che anche nel resto del Paese il Pd non venga percepito come il perno di uno schieramento ampio. Né è minimamente immaginabile che siano gli altri, quelli alla sinistra del Pd, a poter assolvere questa funzione. Anche su questo il voto siciliano fa chiarezza, perché non regala a Fava, finito probabilmente sotto le due cifre, nessuna ragione per festeggiare, ma solo motivi per recriminare.

Il voto siciliano ha dunque, se gli exit poll saranno confermati, due sicuri sconfitti e due probabili vincitori. Farà ovviamente differenza se la guida della Regione andrà al centrodestra, come sembra, oppure ai Cinquestelle, ma rispetto al futuro politico del Paese gli uni e gli altri sanno già dove andare, mentre è il centrosinistra che deve probabilmente inventarsi nuove strade.

(Il Mattino, 6 novembre 2017)

Sicilia, un test per l’Italia

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Musumeci, Cancelleri, Micari, Fava: quattro nomi per quattro storie politiche e personali molto diverse le une dalle altre. Non è facile immaginare come si comporrà il puzzle siciliano all’indomani del voto. Ma le domande che alla viglia bisogna farsi sono queste:

Chi vincerà?

I sondaggi non lasciano adito a dubbi: la partita è fra Musumeci e Cancelleri, centrodestra e Cinquestelle. Finché sono stati diffusi, i sondaggi hanno sempre dato in vantaggio il candidato di Meloni, Salvini e Berlusconi, anche se i rumors dicono oggi che le distanze si sono accorciate. Nel centrosinistra si gioca una partita diversa: Micari, il candidato renziano, non ha possibilità di arrivare davanti agli altri due, ma deve assolutamente lasciarsi alle spalle il candidato della sinistra, Claudio Fava. Un risultato diverso equivarrebbe per il centrosinistra al rompete le righe.

Chi governerà?

Se la vittoria è una partita a due, più complicata è la partita per il governo della regione. La legge elettorale assegna infatti un piccolo premio di maggioranza, con ogni probabilità insufficiente ad assicurare ad uno schieramento una navigazione tranquilla nell’Ars, l’assemblea regionale siciliana. Le elezioni rischiano perciò di aprire una stagione di ingovernabilità, e invero non solo per via di un sistema proporzionale e di un premio che non è «majority assuring», ma anche perché la fine del bipolarismo costringe i diversi schieramenti a immaginare accordi «contro natura». Dopo il voto, se dovesse toccare al centrodestra la presidenza della regione, e se la sua maggioranza non fosse autosufficiente, Musumeci si rivolgerà al Pd? E riuscirà a tenere insieme tutti i pezzi della sua coalizione, aprendo verso il centro e la sinistra? Stessa domanda per Cancelleri: detto che è quasi impossibile che arrivi a quota 36 seggi, a chi chiederà una mano per governare? Lui, che ha il profilo del grillino di sinistra, avrà un lasciapassare dalle liste che si raccolgono intorno a Fava? Basterà? Bisogna ipotizzare governi di minoranza? E con quale capacità di fare, su basi politiche così fragili, la rivoluzione promessa? Il rischio è la paralisi, che la Regione Sicilia può correre proprio quando ci vorrebbe il massimo di forza politica per affrontare una situazione della cosa pubblica drammatica, prossima al fallimento.

Qual è lo stato di salute del centrodestra siciliano?

In regime di elezione diretta del Presidente, in Sicilia il centrodestra ha governato prima con Cuffaro e poi con Lombardo per oltre un decennio, fino alla clamorosa vittoria di Rosario Crocetta. Ma la vittoria di Crocetta è stata anzitutto il harakiri del centrodestra, che alle scorse elezioni si presentò spaccato in due: da una parte il «Grande Sud» di Gianfranco Micciché, dall’altra il Popolo della Libertà con Musumeci. Insieme, le due metà del centrodestra sfiorarono il 45%. Crocetta divenne presidente della Regione con poco più del 30% (di qui la gran parte dei problemi di tenuta della sua esperienza di governo). Questa volta invece a Musumeci è riuscito di avere tutti con sé (con Miccicché nel listino del Presidente), e anzi di rosicchiare anche parte del consenso centrista e moderato che nel 2012 aveva scelto Crocetta. Merito suo, e demerito del centrosinistra siciliano. Ma merito soprattutto del mutato quadro nazionale, che spinge in direzione di una ricomposizione fra forze che fino a ieri sembravano marciare lungo traiettorie incompatibili.

Qual è lo stato di salute del centrosinistra siciliano?

Crocetta: il megafono. La sua lista si presentava, nel 2012, addirittura con un simbolo grillino: la voce della gente, il populismo e l’onestà. Dopodiché però il governo regionale è un’altra cosa, e la voce di quel megafono si è fatta però sempre più fioca. I magri risultati e l’usura politica della frastagliata coalizione che lo ha sostenuto lo hanno messo fuori gioco. Preso atto della situazione, Crocetta ha accettato di farsi da parte. Ormai in prossimità della sconfitta, il centrosinistra ha fatto un passo indietro, indicando un candidato della società civile, il rettore dell’Università di Palermo Micari, sponsorizzato in primis dal sindaco del capoluogo, Leoluca Orlando. Una mossa simile è stata fatta in realtà dal Pd più volte in questi anni, in giro per l’Italia: supplenze e surroghe in attesa di tempi migliori. Civismo per deficit di politica. Per giunta, questa volta è mancato anche un forte impegno dei vertici nazionali: sfida dal sapore regionale, ha detto Renzi, che ha evitato i comizi finali. Ma circoscrivere il significato del voto siciliano non sarà facile, soprattutto se Fava, il candidato di tutto quello che c’è alla sinistra del Pd, dovesse arrivare davanti a Micari. Fava, politico di lungo corso, era già candidato nel 2012: poi il pasticcio della mancata residenza in Sicilia lo costrinse a mollare. Le liste che portavano il suo nome ottennero un misero 6%. Qualunque risultato a doppia cifra sarebbe ovviamente un buon successo, e potrebbe avere un peso nel determinare i futuri equilibri in seno all’Ars. Se poi arrivasse davvero più su del candidato piddino, allora rischierebbe di scatenare il big bang del centrosinistra.

Qual è lo stato di salute dei Cinquestelle?

Cancelleri sembra avere il vento in poppa. Ogni tanto capita un incidente: le firme false, le espulsioni e i ricorsi, l’assessore in pectore che vuol bruciare vivo il capogruppo Pd Rosato e così via. Quisquilie, quinzillacchere. Questi infortuni non sembrano costituire vere pietre d’inciampo per il popolo grillino, che marcia unito in vista del voto, consapevole dell’importanza della posta in palio. I problemi se mai verranno dopo, se si dovesse vincere, ma le elezioni nazionali sono così vicine che l’unico riflesso che si potrà registrare a Roma sarà la crescita del Movimento. Cancelleri potrà forse diventare una nuova Raggi, prigioniero di una situazione prossima all’ingovernabilità, ma non è cosa di cui il Movimento ha da preoccuparsi di qui alla primavera prossima. Perciò Di Maio e Di Battista hanno più di tutti gli altri leader nazionali attraversato volentieri lo Stretto. Non a nuoto, come Grillo la volta scorsa, ma con un investimento politico altrettanto forte.

Quali indicazioni per la politica nazionale?

Primo: il voto in Sicilia aiuterà a capire se la ritrovata unità del centrodestra è qualcosa in più di una risorsa elettorale. Berlusconi, Meloni e Salvini hanno cenato insieme, ma hanno tenuto comizi separati. Arancini sì, strette di mano in favore di pubblico ancora no. La linea di Salvini continua in effetti ad essere incompatibile con prospettive di appeasement con il centrosinistra, o anche solo con i pezzi del moderatismo centrista che in Sicilia contano pur qualcosa. Bisognerà vedere se un eventuale successo elettorale darà o no un’ultima spinta all’accordo nazionale. Secondo: se sarà Presidente Cancelleri, sarà interessante capire con chi cercherà di formare il governo. Il voto siciliano diventerebbe infatti la prima prova di un governo Cinquestelle non monocolore. Sia il Pd che, soprattutto, la sinistra, potrebbero essere tentati di dare una mano per contenere la destra. Senza dire dei fenomeni trasformistici che in Sicilia sono pane quotidiano. Anche quello sarà un terreno di prova: prevarrà l’intransigenza morale o il realismo politico? Comunque vada, è chiaro che la Sicilia farà per prima l’esperienza delle enormi difficoltà del tri- o quadripolarismo italiano.

Quali ripercussioni in casa Pd?

Mentre le altre forze politiche non hanno al momento grossi problemi interni, perché le relative leadership non sono in discussione, in casa democrat non si perde occasione per riproporre il tema: nonostante il congresso, nonostante le primarie. Per la verità è così fin dalla fondazione del Pd: sia Veltroni (da D’Alema) che Bersani (da Renzi) che da ultimo Renzi (prima da D’Alema e Bersani, ora da Orlando e Franceschini) han dovuto misurarsi con un lavorìo di logoramento iniziato fin dal giorno del loro insediamento. Per Renzi, quel lavorìo è cresciuto di intensità dopo la sconfitta referendaria. Una debacle in Sicilia sarebbe il segnale per un nuovo assalto. E rinfocolerebbe i propositi di chi ne trarrebbe dimostrazione per allargare a sinistra la coalizione nazionale. Sacrificando Renzi. Orlando, leader della minoranza, lo ha detto fin d’ora: prima il voto in Sicilia, poi il candidato premier. Ha così legato le due cose che Renzi invece tiene separate. Sarà il voto di domenica a decidere se prevarrà una linea o l’altra: se il centrosinistra ne uscirà politicamente indenne, o se le urne siciliane ne determineranno l’ennesima trasformazione.

(Il Mattino, 4 novembre 2017)

I democratici nell’era proporzionale

The Beached Margin 1937 by Edward Wadsworth 1889-1949

E.  Wadsworth, The Beached Margin (1937)

Fra i grandi vecchi che intervennero ad Orvieto nel 2006, nel seminario di studi che precedette la nascita del partito democratico, prese la parola anche Alfredo Reichlin. Cominciò da lontano, dal movimento operaio, dal quale provenivano quelli come lui, e parlò del disagio del cattolicesimo democratico che confluiva nel nuovo partito con il timore che l’egemonia sarebbe rimasta saldamente nelle mani degli ex comunisti, ma anche del malessere della sinistra, che temeva dal canto suo di stingersi in un nuovo contenitore non ancorato saldamente nella tradizione del socialismo europeo. Poi però accorciò le distanze, guardando ai compiti ai quali il nuovo partito era chiamato – crisi della democrazia, diritti di cittadinanza, ricostruzione della politica, europeismo – ed aggiunse: «l’identità di un grande partito non è l’ideologia, ma la sua funzione storica reale». Parole sante, a dar retta alle quali la si finirebbe in un sol colpo di chiedersi quanto è di sinistra, o di centrosinistra, il partito democratico, a dieci anni dalla sua fondazione.

Quel che davvero conta non sono i richiami identitari, tantomeno le medianiche evocazioni dello spirito originario, ma quale funzione in concreto il Pd abbia esercitato, e quale funzione pensi ancora di esercitare. Certo, il contesto è cambiato: la democrazia competitiva nella quale il nascente partito democratico doveva inserirsi non c’è più. Non c’è il maggioritario, ma una legge che, faute de mieux, rimette in campo le coalizioni, o qualcosa che prova a rassomigliarci. La partita a due, centrosinistra versus centrodestra, è diventata una partita a tre, o a quattro: maledettamente più complicata. Così che la crisi della democrazia, di cui ragionavano ad Orvieto i partecipanti al seminario, è ben lungi dall’essere alle nostre spalle. La partecipazione politica continua a calare, il virus populista si è grandemente diffuso, la risposta immaginata in termini di riforme costituzionali è naufragata: la salute complessiva del sistema politico, insomma, non è gran che migliorata. Quando dunque Renzi oggi dice che senza il Pd viene giù tutto, non usa solo un argomento da campagna elettorale, ma rivendica quella funzione nazionale di cui parlava Reichlin, e che ha portato i democratici ad occupare a lungo posizioni di governo. Caduto Berlusconi, il Pd ha sostenuto prima Monti, poi Letta, poi il governo del suo segretario Renzi, adesso Gentiloni. In nessuna di queste esperienze di governo il Pd ha governato da solo, o con i soli alleati di centrosinistra: non ve ne sono mai state le condizioni, ed è difficile anche che vi siano nel prossimo futuro.

Di tutte le riflessioni che il Pd è oggi chiamato a fare, questa è forse la più urgente: come si attrezza un partito nato con l’ambizione veltroniana della vocazione maggioritaria, dentro una congiuntura che quella vocazione ha abbondantemente smentito, ridimensionando anzi sempre di più le forze maggiori. Basta guardare al di là delle Api quel che succede alla socialdemocrazia tedesca, o al socialismo francese, per convincersene.

Quanto al suo profilo programmatico, il Pd ha sempre rivendicato il carattere di una forza progressista, riformista, europeista. Non sempre però è stato chiaro a tutti, dentro il Pd, di cosa riempire queste parole. Basti pensare che ad Orvieto era nientedimeno che D’Alema a chiedere «una nuova cultura politica che andasse oltre il vecchio schema socialdemocratico». Si voleva andare al di là, e si è ricaduti al di qua. Quella nuova cultura politica, che veniva identificata con la terza via, con il New Labour di Blair, o il Neue Mitte di Schroeder è proprio ciò che il D’Alema di oggi, quello che ha mollato il Pd da sinistra, mai prenderebbe ad esempio. Ma più che la contraddizione palese, o la credibilità dei suoi interpreti, conta politicamente il fatto che con questa giravolta è rispuntata quella sinistra identitaria, radicalizzata, che il Pd aveva cercato di riassorbire.

Certo, di mezzo c’è stata la grande crisi economica e finanziaria del 2008: il Pd ha avuto la sventura di nascere con il vento contro, mentre finiva la spinta euforica della globalizzazione, e la marea, ritirandosi, lasciava riaffiorare tutti i problemi rimasti aperti: le diseguaglianze crescenti, l’erosione delle classi medie, le precarietà diffuse, le insicurezze e le paure non governate. Ma, anche così, la funzione storica del Pd non è cambiata di molto, tra ancoraggio europeo e prospettive di riformismo sociale ed economico dentro una solida cultura di governo. Questo è, o dovrebbe essere, il Pd, una cosa riconoscibilmente diversa dalla destra nazionalista di Lega e Fratelli d’Italia, dal populismo giustizialista dei Cinquestelle, dal centrismo moderato di Forza Italia.

Nessuna mutazione genetica è dunque in corso. Altra storia è se, in questa fase, in cui il mondo sembra un’altra volta finire fuori dai cardini, sia abbastanza essere una forza tranquilla – come diceva il Mitterand che saliva per la prima volta all’Eliseo – o se invece non prevalgano passioni e umori più forti, al cui confronto il riformismo appare una pietanza scipita. Le elezioni non sono lontane, e fra poco questo interrogativo verrà sciolto dalle urne.

(Il Mattino, 15 ottobre 2017)

Le necessità e i ricatti morali

Job 1944 by Francis Gruber 1912-1948

F. Gruber, Job (1944)

Forse le cose stanno proprio come le dice il senatore Falanga, che al ddl sull’abusivismo edilizio tiene molto e non vuol credere che si fermi proprio in dirittura d’arrivo: «È un provvedimento portato avanti da noi del centrodestra e dal Pd». Se è così, come non farsi venire il dubbio che a pochi mesi dalle elezioni non sia il miglior biglietto da visita, per i democratici, quello di approvare una legge sugli immobili abusivi insieme a Verdini e Berlusconi? Nel partito democratico – lo spiegava bene, l’altro giorno, Bruno Discepolo su questo giornale – è confluita, fin dalla sua nascita, una componente ambientalista che non si trova certo a suo agio con il provvedimento all’esame del Parlamento. Del resto, se tu, mentre adotti per legge criteri per stabilire un ordine di priorità negli abbattimenti, permetti anche che sfuggano alla demolizione le costruzioni già ultimate, sulle quali non sia già stata pronunziata una sentenza di primo grado, di fatto introduci un condono almeno parziale, e spingi anzi i proprietari a completare le opere in tutta fretta. In un Paese funestato dall’abusivismo edilizio, dal territorio fragilissimo e da rischi idrogeologici assai consistenti, non è proprio un bel segnale. Ma non lo è nemmeno lo “stop and go” di quest’ultima coda di legislatura, e i ripensamenti che si addensano attorno ad ogni singola mossa parlamentare. I democratici giocano sulla difensiva anche questa partita: se votiamo il ddl Falanga, dobbiamo spiegare al Paese perché riteniamo che sia un provvedimento ragionevole e di buon senso. Ma mentre faticosamente spieghiamo e ragioniamo, i Cinque Stelle grideranno che stiamo dalla parte dei furbi, che facciamo strame della legalità, che inciuciamo con il centrodestra. Loro faranno ancora una volta la figura degli onesti, a noi ci trasformeranno ancora una volta nel partito dei ladri e dei corrotti.

Ma la legge risponde effettivamente a un’esigenza di assoluto buon senso. Se le sentenze di demolizione si contano, in tutta Italia, a centinaia di migliaia (settantamila solo in Campania), se è da escludere realisticamente che a questa montagna di sentenze si possa dar seguito in tempi brevi, se di fatto gli abbattimenti procedono a singhiozzo, senza alcuna reale programmazione, secondo disponibilità di mezzi e risorse che variano da regione a regione, da comune a comune, ma che variano anche a seconda delle diverse sensibilità e volontà di magistrati, politici e pubblici ufficiali, non è ragionevole che il legislatore indichi almeno delle priorità, che si ponga il problema di stabilire cosa è più urgente? È davvero da mettere sullo stesso piano l’ecomostro sorto in un’area sottoposta a vincolo assoluto, e la prima casa tirata su da una famiglia a basso reddito? Io vedo, in realtà, una stretta analogia con un altro tema, che pure viene affrontato in maniera ideologica, e intorno al quale si è formato allo stesso modo un austero partito dell’intransigenza morale. Mi riferisco al tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale, difeso con la nobile idea che tutti i reati, tutte le violazioni della legalità vanno ugualmente perseguite, ma che, nell’impossibilità di farlo effettivamente, consegna alle procure la più ampia discrezionalità, senza che la politica possa assumersi la responsabilità di indicare priorità.

In realtà, problemi sociali di così ampia portata come quello dell’abusivismo edilizio richiederebbero anzitutto che su di essi si esprimesse una chiara volontà politica. Pensare che tutto possa scaricarsi sui sindaci è illudersi, e non porta ad alcuna soluzione. L’ex sindaco di Licata, Cambiano, balzato mesi fa agli onori della cronaca per le minacce ricevute e le proteste dei suoi concittadini contro le demolizioni, ha mostrato bene il cappio che si stringe intorno agli amministratori: in certi territori, se dici che intendi demolire non prendi i voti e non sei eletto. Se invece mostri di voler riconoscere il problema della casa, passi subito dalla parte dell’illegalità. Per spezzare un simile circolo vizioso si può fare in due modi: tutti e due, però, richiedono una decisione politica, non un atteggiamento pilatesco. E dunque: o si dice che i voti non servono, si sospende la democrazia, si manda l’esercito e si procede manu militari; oppure si fa una legge che dia forza agli amministratori locali, che venga incontro almeno alle condizioni di maggiore difficoltà, se non proprio di necessità, e magari provi a cambiare gradualmente le cose, cominciando dai casi più macroscopici, e avviando al contempo una diversa politica della casa e del territorio. (E, certo, anche una diversa educazione alla legalità).

Il ddl sceglie questa seconda via. Il partito democratico l’aveva imboccata, lavorando ad aspetti migliorativi della legge (e, forse, si poteva lavorare di più). Ora però sembra prevalere nuovamente la paura di fare regali ai grillini, e il voto favorevole non è più scontato. Il merito del provvedimento si allontana, schiacciato dal peso di orientamenti puramente ideologici, e da considerazioni di politica politicienne: può il Pd votare questa legge con Forza Italia, oppure rischia di perdere la faccia di fronte a certi settori dell’opinione pubblica?  Domanda: ma il Pd non è nato per farla finita con questi insopportabili ricatti morali?

(Il Mattino, 3 ottobre 2017)

 

La nuova scommessa bipolare

Ligabue 1945 Lotta di galli

A. Ligabue, Lotta di galli (1945)

All’ultima curva, prima di imboccare il rettilineo finale della legislatura, la legge elettorale torna ad essere tema di confronto politico e parlamentare, e si torna a parlare di una sua possibile approvazione.

Difficile, però, fare previsioni: sulla carta, le forze politiche che sostengono il Rosatellum bis – così è stata ribattezzata la nuova proposta – avrebbero i numeri per farla passare. Ma da qui al voto finale ci sono un’ottantina di voti segreti, e la partita è così delicata che incidenti sono sempre possibili.

In realtà, la nuova versione del Rosatellum non risolve i problemi di governabilità del Paese, ma per quello ci vorrebbe un doppio turno alla francese che non è nel novero delle cose possibili. La legge in discussione si limita a distribuire per due terzi i seggi su base proporzionale, e per il terzo rimanente assegna i seggi in collegi uninominali dove i singoli candidati possono essere sostenuti, anziché da liste singole, da una coalizione. Chi può investire sulla costruzione di coalizioni plaude alla legge; chi non ha alcun potere coalizionale la avversa.

A preoccuparsi sono quindi, innanzitutto, i Cinque Stelle, che non saprebbero a chi sommare i loro voti nella parte uninominale. E infatti il fuoco di sbarramento è cominciato subito: il neo candidato premier Di Maio ha avuto parole durissime contro quello che ha definito “un attentato alla volontà popolare”, con argomenti che in verità varrebbero per qualunque legge che abbia effetti disproporzionali. Dopodiché in Parlamento hanno piazzato una mina, nella forma di un emendamento contra personam, che non consente di indicare come “capo della forza politica” chi non può essere eletto in Parlamento. Leggi: Berlusconi. E leggi pure il tentativo di pescare su questa norma voti a sinistra per far saltare l’accordo sulla legge.

Ma di che genere di accordo si tratta? Detto che, se passasse, questa legge elettorale penalizzerebbe i grillini, chi, viceversa, se ne avvantaggerebbe? Guardando tra gli emendamenti presentati, si capisce qualcosa guardando la proposta di rimettere l’indicazione del futuro leader alla forza politica della coalizione che ha preso più voti. L’emendamento è a firma Forza Italia, ma avrebbe anche il favore della Lega. Il che significa che la competizione per la leadership si trasferirebbe dentro la legge elettorale, invece di stare nelle primarie che fin qui Salvini chiedeva e che Berlusconi non aveva nessuna voglia di concedere. Ma significa anche che le distanze nel centrodestra si sono accorciate, e che il Cavaliere comincia a pensare di avere tutto l’interesse a calarsi nuovamente in uno schema bipolare. Assisteremmo così ad una nuova piroetta: dopo essere stato, per tutta la seconda Repubblica, il campione della democrazia maggioritaria, Berlusconi si era convertito al proporzionale, e in lunghe e pensose interviste aveva spiegato come il proporzionale fosse ormai l’unico abito confacente al sistema politico italiano. Ora, invece, complice forse i sondaggi siciliani che danno il centrodestra avanti a tutti, Berlusconi cambia di nuovo: vada per la coalizione con Salvini, e per un voto che in qualche modo la sancisca e leghi le mani per il dopo voto.

Ma le lega veramente? In primo luogo, va detto che l’emendamento è ai limiti, se non oltre il dettato costituzionale. Perché nessuna formula sulla scheda elettorale può limitare il potere del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio: cosa dunque comporti indicare il “capo della forza politica” non è chiaro. In secondo luogo, e soprattutto, queste coalizioni, che esistono solo su un terzo dei seggi, ben difficilmente raggiungeranno il 51%, con gli attuali rapporti di forza: e allora come si farà? Ci sarà un inciampo in più per la formazione di maggioranze parlamentari diverse da quelle indicate nella parte uninominale della legge. La qual cosa può forse essere persino apprezzata, almeno da chi non ama il carattere parlamentare della nostra Repubblica. Ma senze vere maggioranze popolari emergenti dalle urne il risultato sarebbe: nessuna maggioranza.

Il rischio è alto, insomma. E l’impressione è che l’emendamento sia una spia del ricompattamento che si sta producendo nel centrodestra, piuttosto che una strada realmente percorribile.

A meno che la cosa non piaccia pure a Renzi, che sarà sicuramente, a sinistra, quello che prenderà più voti. Ma un conto è il singolo emendamento, un altro è l’impianto complessivo della legge. Lì la partita sembra essere un’altra, perché questo tema delle coalizioni è stato gettato tra i piedi del Segretario da chi, dentro il partito democratico, lo considera ormai un ostacolo alla costruzione di un nuovo centrosinistra, di un nuovo Ulivo o di quel che sarà. Franceschini non perde infatti occasione per ripetere che la coalizione s’ha da fare, col che evidentemente sottintende che se, per dialogare con Mdp, fosse necessario mettere da parte Renzi, ci sarebbe chi, nel Pd, farebbe da sponda.

Questo è, alla fine, il nodo decisivo: la legge è studiata per contenere i Cinquestelle, ma non dà affatto garanzie di governabilità, promette intanto di rimescolare le carte nel centrosinistra, e, forse, di dare una mano al centrodestra. E però è firmata dal Pd, come se Renzi scommettesse sul fatto che, alla fine, prevarrà comunque la sua forte leadership nel partito. Ce n’è abbastanza per considerare i giochi tutti aperti.

(Il Mattino, 30 settembre 2017)

 

La fuga da Ap e le sette vite del Cavaliere

A Rauschenberg

R. Rauschenberg, Odalisk (1959)

Silvio che adotta tre cuccioli abbandonati. Silvio che beve una spremuta d’arancia da MacDonald. Silvio che sotto Pasqua si schiera in difesa degli agnellini, ne tiene uno in braccio, lo accarezza con sguardo mansueto e lo battezza Fiocco di Neve. Silvio che va a sorpresa al compleanno del figlio Piersilvio – cena in famiglia e foto su «Chi». Silvio che apre le porte di Villa Certosa per il compleanno della fidanzata Francesca Pascale – torta Disney di cinque piani e foto su tutti i giornali. Diciamo la verità: questo 2017, tra un’elezione in Europa e una in Italia, ci ha restituito un Berlusconi in grandissimo spolvero. Capace di parlare a tutti: ai proprietari di animali, agli appassionati di cartoni animati, agli amanti delle belle donne e agli amanti della famiglia, ai clienti dei fast food e specialmente a coloro – e sono ancora tanti, tantissimi, la stragrande maggioranza – che non sopportano il «teatrino della politica»: espressione che non per caso ha inventato lui e che dopo di lui hanno adottato un po’ tutti, in forme più arrabbiate (Grillo, Salvini), o più soft (Renzi).

Dopo quasi un quarto di secolo dalla sua prima discesa in campo, il Cavaliere riesce ancora a dare l’immagine di un uomo semplicemente prestato alla politica. Lui che aveva più di ogni altro impresso al sistema politico italiano i tratti di una democrazia maggioritaria, è stato il primo ed il più lesto ad adattarsi ai nuovi equilibri del proporzionale. Lui, ormai ottuagenario, riesce ancora a rilasciare interviste in cui si propone di interpretare la richiesta di cambiamento che sale dal paese. E in cui riesce a dipingere gli altri – gli altri, non lui – o come logori (Renzi), o come inaffidabili (Grillo), o come estremisti (Salvini).

Diversi anni fa, lo scrittore spagnolo Javier Marías dedicò alcune velenosissime parole a Berlusconi: la sua accattivante disinvoltura, la sua spudorata simpatia, la sua esibita spontaneità gli pareva che fossero solo il segno di un comportamento da parvenu della politica. Altro che parvenu! Si era nel 2002, e Berlusconi era già in sella al suo secondo governo. Ma soprattutto, trascorsi altri quindici anni di vita politica, dopo altri quindici anni di cadute e risalite, di vittorie e sconfitte, di processi e condanne, prescrizioni e assoluzioni, Berlusconi è riuscito a indossare ancora un’altra maschera: molto più rassicurante e affidabile di tutte quelle, molteplici, che ha indossato finora.

Dopo lo stress delle riforme istituzionali fallite, Berlusconi si sforza infatti di dare al centrodestra il profilo della forza stabilizzatrice, che può mettere in sicurezza il sistema. Gli altri strappano; lui ricuce. Gli altri si scamiciano; lui mantiene il doppiopetto. Gli altri sgomitano; lui appare il più padrone di sé.

Bisognava vederlo, nell’ultima apparizione televisiva: faccio un partito nuovo; dobbiamo andare uniti con la Lega; bisogna che ci liberiamo dalla dittatura fiscale e burocratica che opprime l’Italia. I suoi temi ci sono tutti. E poi, per non farsi mancare nulla, non vuoi che racconti di come abbia offerto la sua villa di Arcore o il suo parco di Portorotondo al regista premio Oscar Paolo Sorrentino, che ha iniziato a girare un film sul Cavaliere: altro che Caimano di Nanni Moretti! Come potrebbe Sorrentino avercela con lui, «soprattutto in un momento di aumentata popolarità»? Questo è il punto: la popolarità è aumentata, il Milan torna a comprare valanghe di calciatori (come se fosse ancora suo) e lui è di nuovo il più italiano tra gli italiani.

E intanto sono finiti i giorni in cui Berlusconi sconfitto lasciava il governo con lo spread alle stelle; finiti i giorni dei ricoveri in clinica; finiti anche i giorni dei processi e l’ignominia della condanna: quanto poi ai suoi effetti, Berlusconi spera ancora che la corte europea di Strasburgo possa dargli nuova agibilità politica, restituendogli il diritto a candidarsi alle prossime elezioni.

In questo prepotente ritorno al centro della scena conta ovviamente la difficoltà politica e strategica in cui si è trovato il partito democratico di Renzi, dopo il 4 dicembre. E conta anche l’illusione prospettica creata dal successo nelle elezioni amministrative, grazie a una legge elettorale che spingeva in direzione di una ricomposizione del centrodestra. Ma la collocazione di Forza Italia nell’area «liberale, moderata, ancorata al partito popolare europeo», forte di «valori cristiani e principi liberali», torna ad essere un’alternativa credibile a chi non vuole votare a sinistra, e non vuole neppure buttare tutto all’aria con il voto ai Cinquestelle. E siccome il proporzionale non chiede a Berlusconi di risolvere problemi di alleanze o di coalizione, si possono tenere a bagnomaria i pezzi di centro moderato che si staccano da Area popolare per costruire un’altra gamba del centrodestra, e fingere pure che lo stesso Salvini se ne farà una ragione: gira e rigira, è da Silvio che bisogna tornare.

E diciamo la verità: se Berlusconi è riuscito a fare un governo tenendo insieme la Lega secessionista di Bossi con la destra nazionale di Fini, volete che non si riesca a trovare un accordo con la Lega antieuropeista di Salvini? Se poi la cosa non dovesse riuscire, in un sistema tri- o quadri-polare, Forza Italia si troverà al centro di qualunque ipotesi di grande coalizione. Certo, per ora bisogna battere Renzi; ma poi, se (e solo se) necessario, si potrà pure fare assieme quel governo che oggi il Cavaliere giura e spergiura di non voler fare. Il partito di plastica è, insomma, il partito più malleabile che c’è oggi sul mercato.

Perfino in proiezione internazionale: parole di elogio per la Merkel, e parole di elogio per Trump. Parole di elogio per Macron e parole di elogio per Putin: trovate un solo leader di peso, nel panorama mondiale, del quale Berlusconi non si dichiari amico? Del resto, Trump è un imprenditore estraneo ai giochi della politica, proprio come lui. La Merkel è una statista nel segno del popolarismo europeo, proprio come lui; Macron ha vinto sulle macerie dei partiti, proprio come lui; Putin è amato dal suo popolo proprio come lui. Chi potrebbe unire tutti questi tratti in una sola persona? Solo Superman. E infatti sulle bancarelle sono tornate le statuine di Berlusconi con la tuta rossa e il mantello azzurro. A colpi di kryptonite, Silvio è ancora tra noi.

(Il Mattino, 23 luglio 2017)

Silvio e Matteo, l’intesa e la discrezione

Pavlov

La solidarietà di Berlusconi a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi vale quel che vale. Per un leader politico che non ha conosciuto un solo giorno in cui non fosse sotto attacco della magistratura, è il minimo sindacale. È la risposta che il Cavaliere dà ormai di default, ogni volta che qualcuno inserisce il file: “magistratura e politica”. Ciò non vuol dire che il tema non sussista, né che Berlusconi non pensi davvero che le intercettazioni pubblicate in questi giorni ledano la sfera privata, ma siamo al cane che morde l’uomo, non all’uomo che morde il cane: non è quella, insomma, la notizia.

La notizia è invece che Berlusconi vuole essere della partita. E la partita più importante che si giocherà di qui alla fine della legislatura è quella che riguarda la legge elettorale. Ora che il Pd ha messo nero su bianco la sua proposta (in soldoni: metà maggioritaria, metà proporzionale), si apre la possibilità concreta di un percorso parlamentare. Per il quale però occorrono numeri che il partito democratico ha alla Camera, ma non ha al Senato (o, se li ha, sono talmente risicati che è difficile fare previsioni). Dunque bisogna inserirsi nella discussione: dare qualcosa per avere qualcosa. Così funziona. Cosa ha da perdere Forza Italia, in questo momento, e cosa può dare? Quello che ha da perdere è la possibilità di presentarsi come un’alternativa credibile alla sinistra di Renzi e ai Cinquestelle. Credibile significa: in grado di competere. Allo stato, la possibilità di competere passa per due condizioni: la presenza di una leadership riconosciuta, la capacità di aggregare lo schieramento di centro-destra. In un sistema maggioritario, si tratta di condizioni irrinunciabili. In un sistema proporzionale no. Dunque, quanto più Berlusconi sente lontane quelle condizioni, tanto più inclinerà per una soluzione di tipo proporzionale.

Questo semplice principio consente una prima lettura delle parole pronunciate ieri dal Cavaliere. Accantoniamo dunque il Berlusconi animalista che passeggia nel parco di Arcore tra simpatici animali e punta al voto dei proprietari di cani e gatti; mettiamo pure da parte le dichiarazioni sui volti nuovi, competenti e con voglia di fare necessari al partito e veniamo al sodo, badiamo a quel che c’è di nuovo. E di nuovo c’è che il leader azzurro considera possibili le elezioni in autunno, il che significa: non è sulla data delle elezioni che Forza Italia opporrà barriere insormontabili. Oppure: se troviamo un’intesa sul sistema elettorale, possiamo ragionare anche sulla data.

Poi il Cavaliere aggiunge: con Salvini non siamo poi così lontani, a parte la questione dell’euro. E qui il primo principio non basta più, ma forse ci vuole la lezione storica. Se infatti si torna con la memoria al Mattarellum – la prima legge elettorale con cui Forza Italia si misurò, con successo, nel ’94 – si ricorderà che, a parte altre differenze, la quota proporzionale era fissata più in basso rispetto all’attuale proposta del Pd: al 25%, contro il 50% del cosiddetto «Rosatellum». E però la legge non impedì affatto alla coalizione di centrodestra di presentarsi nei collegi uninominali della quota maggioritaria con una fisionomia variabile: al Nord in alleanza con la Lega Nord, al Sud con Alleanza nazionale di Fini. La prova di governo, dopo la vittoria alle elezioni, durò solo pochi mesi, ma resta memorabile l’impresa elettorale: Berlusconi riuscì infatti a mettere insieme due forze politiche che più lontane non si sarebbero potute dire (anche su temi fondamentali come l’unità nazionale).

Fermo restando allora il principio sopra enunciato, ho l’impressione che il Cavaliere abbia certo motivi di ostilità nei confronti della proposta dei democratici, perché preferirebbe un sistema alla tedesca che conducesse diritto e filato ad una qualche grande coalizione, che cioè dopo il voto emarginasse gli opposti estremismi di destra e sinistra, ma sappia anche che con il «Rosatellum» non è impossibile stringere accordi con la Lega a livello di singoli collegi. Un sistema del genere è sicuramente preferibile a qualunque soluzione di tipo premiale, sia che il premio vada alla lista (Forza Italia ben difficilmente sarà il primo partito italiano) sia che vada alla coalizione (perché qui vale il principio: un accordo organico con la Lega per un centrodestra unito è di là da venire). Un congegno elettorale che sia maggioritario ma non troppo, e che mantenga spazio sia per accordi elettorali prima, che per accordi politici dopo, è confacente alla situazione in cui si trova attualmente Forza Italia. E lo è anche al Pd, mentre lo è molto meno ai Cinquestelle, che non hanno il personale politico sperimentato per la prova nei collegi uninominali, e non hanno neppure facilità di accordi: né nei singoli collegi, né nella prospettiva del governo.

Se poi, per essere della partita, bisogna spendere parole di solidarietà nei confronti di Renzi e Boschi – parole che sono abbastanza urticanti per le vecchie e nuove file dell’antiberlusconismo, e che quindi aprono un fossato sempre più ampio fra il Pd e quello che si trova alla sua sinistra – beh: che ci vuole? Con una mano Berlusconi accarezza idealmente tutti gli animali domestici degli italiani; con l’altra aizza invece il cane di Pavlov della sinistra dura e pura, la quale con un riflesso condizionato parla di intelligenza col nemico e chiama inciucio qualunque tentativo di intesa fra centrodestra e centrosinistra. Che se invece la legge elettorale la facesse il Pd da solo, certamente si ritroverebbe addosso l’accusa di essersela cucita su misura. Ma questa, delle eterne divisioni e contraddizioni della sinistra, è evidentemente un’altra storia.

(Il Mattino, 21 maggio 2017)

Legge elettorale, le regole del Colle

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Un indizio è soltanto un indizio, due indizi fanno una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. La scrittura della nuova legge elettorale non è un romanzo di Agatha Christie, ma ieri di indizi ne sono venuti proprio tre, come voleva la regina del giallo. Il primo lo ha fornito Silvio Berlusconi, che salito al Quirinale per il messaggio di auguri del Capo dello Stato, ha detto che di legge elettorale si tornerà a parlare dopo la Consulta, essendo necessario, su una materia così «seria», confrontarsi attorno a un tavolo per giungere a un testo condiviso.

Campa cavallo? L’unica indicazione che il Cavaliere ha fornito nel merito non va, peraltro, in direzione del Mattarellum proposto domenica, nell’Assemblea nazionale del Pd, da Matteo Renzi. Serve una legge – ha detto – che «faccia corrispondere maggioranza parlamentare e maggioranza politica». Ora l’idea stessa di una corrispondenza confligge con i meccanismi disproporzionali di qualunque legge capace di generare effetti maggioritari, come i collegi uninominali del Mattarellum. Quindi, quello del Cavaliere a tutto somiglia meno che a un via libera.

Del resto, Forza Italia non ha mai amato la legge che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: proprio per via dei collegi, che obbligano le forze politiche a raggiungere un accordo a livello locale, collegio per collegio, su un solo nome. Cioè costringono Berlusconi a subire il forte radicamento territoriale della Lega in certe aree del Paese.

Il secondo indizio – e siamo alla coincidenza – è venuto dai lavori parlamentari, con la scelta di non procedere all’esame della materia elettorale prima della sentenza della Consulta. La Lega ha alzato la voce, denunciando l’inedita alleanza, in commissione affari costituzionali, fra Pd, Forza Italia, M5S, e accusando i parlamentari di puntare al vitalizio, tirando per le lunghe la legislatura almeno fino al prossimo autunno. Ma non occorrono motivazioni così basse: si può fornire una spiegazione più politica per la decisione assunta, che sta meno nella volontà di allungare i tempi e più nelle perplessità che la proposta di Renzi solleva. In Forza Italia s’è detto. Quanto ai Cinquestelle, confidando di vincere le elezioni, essi sperano ancora in un Italicum magari riveduto e corretto dalla Corte, ma che mantenga comunque un premio per il primo partito. Se poi così non fosse, la seconda scelta non sarebbe certo il Mattarellum, che dà qualcosa in più, col meccanismo uninominale, alle formazioni in grado di esprimere una classe dirigente ampia e riconosciuta (che ad oggi il Movimento non ha), bensì un sistema proporzionale, che dà a ciascuno il suo senza risolvere la questione del governo. Con i chiari, anzi i raggi di luna dei cieli romani, mancare l’appuntamento del governo nazionale ma ingrossare le proprie file in Parlamento non sarebbe forse una cattiva soluzione, per Grillo & Casaleggio.

Infine il Pd: il voto di domenica lo ha ricompattato intorno alla proposta del segretario, però è noto che molti, dentro il partito, pensano che per Renzi le cose si complicherebbero non poco in uno scenario di tipo proporzionale. Nel gioco parlamentare che la prima Repubblica allestiva per giungere alla formazione dei governi (per farli, certo, e per disfarli), la regola non scritta era infatti che il Presidente del Consiglio non fosse il segretario del partito. Ci sono voluti Spadolini prima e soprattutto Craxi poi per cambiare le consuetudini dei capi democristiani. Era un altro mondo, naturalmente, ma a parte nostalgie e rimpianti – almeno in parte giustificate dalle prestazioni non eccelse dell’assetto istituzionale della seconda Repubblica – di sicuro c’é, nel Pd, chi si chiede perché dare ancora a Renzi, col Mattarellum, una dote maggioritaria che potrebbe portarlo di nuovo alla guida del governo.

Queste, ammettiamolo, sono solo ipotesi, congetture, ragionamenti astratti. Ma poi c’è il terzo, decisivo indizio: ci sono le parole del Presidente della Repubblica. A sentir le quali, di nuovo: la legge elettorale si allontana. Per Mattarella il sistema va senz’altro  «riallineato rispetto agli orientamenti del corpo elettorale», ma solo nel momento in cui «l’andamento della vita parlamentare ne determinerà le condizioni». Non c’è posizione più corretta dal punto di vista costituzionale, ma è comunque una non piccola sottolineatura. Qualcosa di più di una precisazione in dottrina. Tanto più che il richiamo, detto che non si può andare al voto con due leggi opposte fra Camera e Senato – una «fortemente maggioritaria», l’altra «assolutamente  proporzionale» – è stato accompagnato dall’invito a trovare una soluzione «più ampia della maggioranza di governo».

Di nuovo: è assolutamente corretto ed anzi auspicabile, e però una soluzione del genere da un lato prende tempo, dall’altro è molto difficile che si trovi intorno al Mattarellum, voluto allo stato solo dal partito democratico (renziano) e dalla Lega. Ora si può immaginare che la legge elettorale la facciano il Pd e la Lega? Forse no. E forse, se tre indizi fanno una prova, la battaglia politica che Renzi deve ingaggiare per spuntare una legge che gli restituisca lo scettro della leadership è molto più dura del previsto.

(Il Mattino, 21 dicembre 2016)

Se Forza Italia non ha un erede

acquisizione-a-schermo-intero-19112016-192038-bmp«Nel centrodestra c’è un unico leader e un unico federatore, ed è Silvio Berlusconi». A dirlo è Renato Brunetta. E a quanto pare è vero. Neanche Parisi ce la fa. Ma quello che ai bei tempi era il punto di forza del centrodestra – l’insostituibile carisma del fondatore di Forza Italia – è, ormai da un bel po’, un drammatico punto di debolezza: l’incapacità o forse persino l’impossibilità di costruire un’alternativa al leader di Arcore, almeno finché in campo c’è lui.

Se si mettono infatti uno dopo l’altro tutti quelli che hanno provato a raccogliere la successione del Cavaliere, per investitura diretta o lanciando un guanto di sfida, si rimane impressionati. Ci ha provato Umberto Bossi, il gran capo della Lega. Ci ha provato Gianfranco Fini, il gran capo della destra nazionale post-fascista. Ci hanno provati quelli della generazione successiva: gli Angelino Alfano e i Raffaele Fitto, trasmigrati altrove, e con poca voglia di frequentare ancora Palazzo Grazioli. Poi ci sono quelli a cui ha pensato Berlusconi medesimo. Alfano, per il Cavaliere, non aveva il quid, così lui ha creduto che ce l’avesse Giovanni Toti. Che è stato in campo il tempo necessario per candidarsi in Liguria e mettersi in proprio, gravitando sempre più dalle parti della Lega. Allora è stata la volta di Stefano Parisi, che ha ben impressionato il leader di Forza Italia nella campagna elettorale per il Comune di Milano. Ma ieri è arrivato lo stop, che sa tanto di bocciatura definitiva: Parisi non ne vuole sapere di «quella roba» populista e xenofoba che Salvini rappresenta, e allora Berlusconi lo scarica: siccome il centrodestra lo si deve fare per forza anche con Salvini e con la Meloni, cioè con la destra-destra che guarda a Trump e a Marine Le Pen, il moderato e riformista Parisi non va più bene.

Contateli: sicuramente sarà sfuggito qualcuno, ma se ai già nominati aggiungete tutti gli uomini del Presidente – i professori della prima leva di Forza Italia, come Pera e Urbani, o i fedelissimi come Bondi, Verdini e Cicchitto, arrivate a un numero ancora più grande, e più impressionante. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno dovuto mollare. E se Piersilvio e Marina si sono rifiutati di scendere in campo per raccogliere l’eredità del Padre, è forse perché è parso loro evidente chi fosse, in politica, Silvio Berlusconi: Crono che divora i suoi figli. Crono che prova a sfuggire al suo destino, cioè all’ordine naturale delle cose. Perché Crono è il tempo, e necessità vuole che, col tempo, il figlio succeda al padre, e che il padre si faccia da parte. Ma così, nel centrodestra italiano, non riesce a andare.

Dalla parte di Berlusconi sta il fatto che Forza Italia è nata in maniera del tutto artificiale, fuori dalle culture politiche consolidate del Paese. E ancora più artificiale è stata la costruzione del centrodestra, che solo l’invenzione del Cavaliere ha consentito di tirar su, nonostante fosse contro natura l’incontro delle sue componenti: il federalismo e il nazionalismo, il populismo e il riformismo, i socialisti e i democristiani d’antan, un certo laicismo liberalsocialistama anche il tradizionalismo cattolico. Così, se nel mito alla fine la natura torna a imporsi – Zeus sfugge al padre Crono e ne rovescia il regno, stabilendosi sul monte Olimpo – nell’eredità politica berlusconiana non c’è nessun nuovo leader, come ha detto Brunetta, in grado di fare la stessa cosa: ammazzare il Padre, o almeno relegarlo in un angolo. Nella Lega a Salvini è riuscito; nella destra finiana pure (bene o male): in Forza Italia non c’è modo.

Intendiamoci: la doccia gelata che Berlusconi ha inflitto senza troppi riguardi al povero Parisi, che da principe delfino si ritrova improvvisamente senza alcun titolo per succedere al trono, ha le sue ragioni nello scenario politico che Berlusconi vede disegnarsi dopo la vittoria di Trump.Perché delle molte anime che il berlusconismo ha incarnato, quella che sembra prevalere, nell’attuale congiuntura, è l’anima anti-sistema, lo spirito di discontinuità e di rottura, la rivolta contro «il teatrino della politica». Può darsi che il Cavaliere nutra la convinzione che si tratta di una parentesi, che si può aprire e chiudere. Aprire per ingoiare Renzi e il centrosinistra, e richiudere subito dopo per far pesare, nei nuovi equilibri politici che si costruiranno dopo il referendum, la propria forza residuale.

Ora, non è chiaro se questa strategia sia quella giusta, se la destra che torna a fare la destra sia la risposta, e per il centro moderato e riformista si vedrà poi. È anche possibile che, così facendo, altro che parentesi: si porta soltanto acqua al pozzo di Grillo, l’unico che approfitterebbe della caduta di Renzi. Quel che è certo, è che se Forza Italia si muove in quella direzione, allora Salvini rimane, volenti o nolenti, un competitor ma anche un alleato strategico, e Parisi non può essere più il leader e il federatore.

Parisi non ha il quid. L’unico rimane Berlusconi. Ma il tempo passa, Crono divora i suoi figli, e l’Olimpo rischia di rimanere vuoto di dèi.

(Il Mattino, 16 novembre 2016)

Nel nome del padrone

ImmagineLa parabola del Movimento Cinque Stelle e quella, ancora più malinconica, di Forza Italia, si presta, prima ancora che all’analisi politica, a quella metafisico-linguistica (addirittura!). Se c’è infatti una cosa che non è possibile sostituire è il nome proprio. Ci chiamiamo così, con nome e cognome, dal primo all’ultimo dei nostri giorni, e anche oltre, perché tale resterà il nostro nome – insostituibile – perfino sulla lapide che di noi tramanderà il ricordo «per saecula saeculorum» (almeno me lo auguro).

Un simile miracolo sembra che riesca al nome, e al nome soltanto. E da sempre filosofi e poeti, teologi e letterati, stregati dal nome proprio, sognano di poter indicare le cose, tutte le cose, con una simile, univoca determinatezza. E però: altro che paradiso del linguaggio! Se tutti i nomi fossero propri, individuali, esclusivi, se non vi fosse più nulla in comune fra di essi, il linguaggio si frantumerebbe in tanti pezzi incomunicabili fra loro e, molto semplicemente non sarebbe più un linguaggio, una «comunità» di parole e discorsi (se avete tempo, fate la prova, provate a metter su una frase formata solo da nomi propri).

Ora, questo piccolo ma istruttivo insegnamento può essere utile per capire cosa stia succedendo dalle parti del centro destra e del Movimento Cinque Stelle, cioè in quelle due aree politiche timbrate inflessibilmente, indeclinabilmente dal nome proprio dei loro fondatori. Si dice Movimento Cinque Stelle, infatti, e si legge Grillo. Grillo Giuseppe detto Beppe. Suo il nome, suo il blog, suo il dominio. Così come d’altro canto si dice Forza Italia e si legge Berlusconi. Silvio Berlusconi. Suo il partito, sue le risorse, sue le televisioni. E non c’è verso. Non c’è risultato elettorale che tenga. L’individuazione è tanto radicale, l’identificazione è tanto stretta e indissolubile, quanto quella che appiccica il nome proprio alla cosa: come non puoi cambiare quello, così non riesce a Forza Italia e al Movimento Cinque Stelle di cambiare i loro leader.

Le due situazioni non sono però fra loro identiche. Grillo, è vero, aveva detto che in caso di sconfitta sarebbe andato a casa, e invece è volato a Bruxelles, ma la vita del Movimento è ancora così breve, che si può ben immaginare una prova d’appello. E però le dinamiche del movimento sono tali, che non si può non temere che spazio per un’altra figura che prenda il posto di Grillo non ce n’è, nonostante la retorica del movimento in cui ciascuno conta uno. Ho detto «nonostante» ed ho sbagliato: bisogna dire «a causa» di quella retorica, che è solo l’altra faccia della metafisica idiosincratica del Nome (maiuscolo: quello di Grillo). Perché se ciascuno conta uno, nessuno può contare per gli altri, rappresentare gli altri, fare affidamento sugli altri e condividere con altri, comporsi insieme agli altri; tutti rimangono inchiodati all’atomo indivisibile del loro nome e non mettono mai nulla in comune.

Ben altra storia ha Forza Italia. Una storia di vent’anni, in cui l’identificazione con il leader indiscusso è stata presso che totale: chiunque altri abbia cercato di «farsi un nome» è stato disperso. Ha dovuto cioè, prima o poi, togliere il disturbo: da Fini a Tremonti ad Alfano. Nessuna meraviglia se Berlusconi non riesce ad immaginare una prosecuzione dell’attività politica del partito se non attorno al suo nome, o almeno a quello di sua figlia.

Proprio il successo di Matteo Renzi dimostra tutti i limiti di questa concezione della politica. Che confonde il leaderismo con una sua interpretazione proprietaria, e arrischia l’ossimoro del partito personale per nascondere il fatto che di partito ce n’è rimasto ben poco, mentre della persona permane il sigillo incancellabile: il nome, ancora una volta. Ora, non v’è dubbio che con Renzi anche il partito democratico abbia trovato un leader. Ma per l’appunto l’ha trovato: non si è cioè annullato come partito per risorgere nella figura del suo leader. Lo ha anzi prima cercato, poi contrastato, infine consacrato. Renzi ha perduto, ed è rimasto nel partito; poi ha vinto, e chi è stato sconfitto è pure lui rimasto nel partito. Nulla del genere è avvenuto nel centrodestra o tra i grillini, dove non si riesce nemmeno a capire che cosa possa mai significare che Berlusconi perda, o che Grillo perda. Se però non c’è una sconfitta possibile, non c’è nemmeno un futuro possibile oltre i loro nomi. O meglio: l’unico futuro possibile, l’unica evoluzione finora intravista è nel segno della divisione. Nessuna meraviglia: il nome proprio porta con sé non partecipazione ma divisione, perché non ce la fa a risolversi in un nome comune, e in una storia collettiva.

Questo rende difficile anche una lettura del voto italiano in una chiave strettamente europea. Dove, in genere, si sono imposte forze populiste, euroscettiche, nazionaliste, e i partiti tradizionali, appartenenti alla due principali famiglie politiche – quella socialista e quella popolare – hanno raccolto meno consensi che in passato. Il successo al di là di ogni aspettativa di Renzi fuoriesce vistosamente da questo quadro, ma fuoriescono anche i risultati raccolti da Berlusconi e Grillo: l’uno, infatti, fatica a stare dentro il partito popolare europeo; l’altro stenta a entrare in coalizione con le forze politiche anti-europee. L’uno e l’altro sembrano cioè destinati a marcare una specificità, che non ha altra spiegazione che il loro nome e cognome. Ho detto «spiegazione» e ho sbagliato di nuovo: dovevo dire «maledizione». Cos’altro infatti si maledice se non il nome proprio? E come in ogni maledizione che si rispetti, sono proprio le ragioni per cui a quelle formazioni ha arriso in passato il successo, che impediscono oggi ad esse di avere anche un futuro.

(L’Unità, 29 maggio 2014)

L’ultimo atto di un ventennio

ImmagineDell’Utri latitante. Berlusconi ai servizi sociali. Formigoni alle prese col sequestro di beni (posseduti però a sua insaputa). Cosentino, infine, nuovamente in carcere. È dai tempi di Tangentopoli che l’Italia si ritrova tra i piedi il seguente problema: come evitare di scrivere la storia politica del Paese senza mutarla in una storia criminale, in un commento a piè di pagina delle sentenze della magistratura. È un problema maledettamente serio. Con un atto generoso di fede nella politica – non in questo o quel leader politico, non in questa o quella parte politica – si può provare a mantenere il punto: chi volesse raccontare la storia d’Italia degli ultimi vent’anni lo può fare, anche senza rincorrere alle cronache giudiziarie. Dirà allora dello sgretolamento dei partiti della prima Repubblica, dell’avvento di Forza Italia, della formazione di governi sostenuti da forze estranee all’arco costituzionale (Alleanza Nazionale, la Lega), degli homines novi estranei alla tradizioni politiche del Novecento seduti sui più alti scranni del Parlamento e del Governo, dei tentativi di cambiare l’assetto istituzionale del Paese – in via di fatto (il nome nel simbolo) ancor prima che per la via delle riforme costituzionali (tentate, finora fallite) – delle nuove, pasticciatissime leggi elettorali, della irruente mediatizzazione della politica e infine del suo scadimento in un vortice di gossip, battute ed illazioni. E, corrispondentemente, del progressivo smarrirsi dei progetti politici messi in campo dal ’94 ad oggi: sempre meno riconoscibili, sempre meno credibili, sempre più incentrati esclusivamente intorno al profilo carismatico di una persona: Silvio Berlusconi, l’imprenditore, il tycoon delle televisioni, il Cavaliere per antonomasia (che però ormai nemmeno è più tale). In mezzo dirà certo anche dell’Ulivo, del tentativo forse mal concepito di mettere in mare un vascello riformista, e del suo arenarsi per la confusione del disegno, per l’impreparazione delle culture politiche, forse anche per l’incapacità di superare lo scoglio dell’Euro. Ma tutto questo dirà con un filo di sgomento, forse con una segreta paura nel cuore: che non l’ha raccontata giusta, che non gliel’hanno raccontata giusta, o addirittura che non la si può raccontare giusta senza raccontare anche il resto, senza guardare che fine stiano facendo o abbiano fatto quegli uomini, che fino a poco tempo fa avevano in mano il destino del Paese.

Il fatto è che Forza Italia aveva dentro di sé un capitale di energia politica indiscutibile. Si presentava come una forza modernizzatrice, liberale, anti-statalista. Cambiava, o provava a cambiare linguaggi e forme della politica. Dettava, o provava a dettare, una nuova agenda: basta questione meridionale, basta questione sociale e retorica dell’uguaglianza, basta intervento pubblico, basta mediazioni dei corpi sociali intermedi, basta partiti. Basta comunisti, anche. È finita però con Berlusconi in cerca di agibilità politica nonostante la condanna definitiva, la decadenza da senatore, l’affidamento ai servizi sociali; con Dell’Utri irreperibile ma forse in Libano, ignominioso latitante ma forse solo bisognoso di cure (però accortamente all’estero) e comunque sotto un bel po’ di processi; con Formigoni, il Celeste, il governatore della Lombardia per quasi vent’anni, che si difende dal sequestro giudiziario negando che i beni sequestrati siano a lui riconducibili; con Cosentino tradotto in carcere, ma capace ancora di spaccare Forza Italia in Campania, e di tenere col fiato sospeso il governatore Caldoro (e pure Fitto, il capolista alle Europee, che ne chiede i voti).

Ci vuole, ripetiamolo, un atto di fede. Il guaio è che mentre lo studioso può compierlo con l’aiuto di Machiavelli e magari di qualche altra arguta parola sull’autonomia della politica (dopo tutto, non diceva Rino Formica che la politica è sangue e merda? Ci sarà dunque almeno del sangue, della passione che scorre ancora da qualche parte!), l’elettore di centrodestra deve farlo pur essendo stato così vistosamente tradito, perfino turlupinato, se è vero che Dell’Utri se ne rimarrà al sicuro in qualche paese lontano. Quell’elettore: speriamo davvero che mantenga ancora intatta la forza di desiderare un’Italia migliore e un centrodestra migliore, glielo auguriamo sinceramente.

(L’Unità, 12 aprile 2014)