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La sinistra che cavalca l’onda nera

Lichtenstein

Signori, la proporzione è questa: circa un italiano su due ha paura di circa un italiano su ventiduemila. Il primo numero lo fornisce Repubblica, che pubblica un sondaggio il quale accredita il seguente dato: 46 italiani su 100 temono che il fascismo sia molto o abbastanza diffuso nel Paese. Il secondo numero fa invece riferimento al numero di iscritti di Forza Nuova, la più consistente formazione di estrema destra che, però, non raggiunge i tremila iscritti. Il che per esempio significa che in una città di un milione di abitanti i neofascisti sono, mediamente,… quarantacinque!

Se questa è la proporzione, ne viene che o gli italiani sono particolarmente timorosi e gemebondi, oppure il giornale romano sovrastima abbondantemente il fenomeno.

Uno può dire: quando è in gioco la democrazia, è meglio andarci cauti. Gli ultimi episodi – irruzione di estremisti di destra durante un’assemblea organizzata a Como dalle associazioni per i diritti dei migranti;  fumogeni accesi a Roma da un gruppetto di militanti sotto la sede di Repubblica, primo atto di una guerra politica «contro chi diffonde il verbo immigrazionista» – non attestano forse che c’è un allarme democratico? Meglio evitare sottovalutazioni. Anche perché oltre a Forza Nuova c’è CasaPound, ci sono le associazioni studentesche di estrema destra, c’è una piccola galassia di associazioni in cui circolano gli stessi simboli del ventennio fascista e gli stessi slogan xenofobi.

Di qui però a parlare di un pericolo concreto, reale, per le istituzioni democratiche io credo ce ne corra. Oltre ai numeri e alle proporzioni, può aiutare anche il senso storico: non c’è oggi il clima di violenza politica che c’era nei primi anni Venti del Novecento. Non ci sono corpi paramilitari e non si registrano decine di migliaia di iscritti a formazioni neofasciste in costante crescita. E, a tacere di altre differenze, non ci sono le condizioni che determinarono la risposta autoritaria alla crisi dello Stato: non abbiamo un conflitto mondiale alle nostre spalle, né l’introduzione del suffragio universale ha messo fuori gioco, come accade un secolo fa, le vecchie élites liberali.

Questi gruppetti di militanti che indossano maschere, leggono proclami e innalzano bandiere appartengono in realtà alla pattumiera della storia: lì sono e lì devono restare. Se pongono questioni di ordine democratico, lo Stato italiano ha gli strumenti per affrontarle: ha le forze di polizia e la legge penale. Ma il discrimine decisivo oggi non passa, per nostra fortuna, fra fascismo e antifascismo. E dirlo non significa affatto negare il fondamento storico della Costituzione e della Repubblica, ma tenere il confronto politico (e, fra poco, elettorale) nel suo alveo naturale. Perché delle due l’una: o c’è davvero il fascismo alle porte, e allora tutte le altre differenze fra i partiti democratici debbono scomparire, di fronte alla necessità di fronteggiare la minaccia – e non mi pare che sia questo il senso delle posizioni assunte finora dalla sinistra politica e culturale di questo Paese, che pratica oggi la divisione, molto più dell’unione –, oppure c’è poco da fare: siamo in presenza di una fiammata propagandistica, assai più alta e più grande del mostro che vuole esorcizzare.

Sia chiaro: anche la propaganda ci vuole. Anche le democrazie hanno bisogno di mobilitare passioni e di alimentare credenze collettive. Ma non è cercando ancoraggi nel passato che la sinistra riuscirà a parlare nuovamente a fasce ampie di popolo. Prima di temere che il passato ritorni c’è bisogno di capire se mai come avere nuovamente accesso al futuro. Il miglior modo per scacciare la paura è alimentare la speranza, ma non vale il contrario, purtroppo: il miglior modo per alimentare la speranza non è agitare vecchie o nuove paure. Che se poi tutta questa nuova visibilità e attenzione mediatica per Forza Nuova o per CasaPound avesse l’effetto opposto, di fare esistere e acquisire centralità a ciò che ha dimensioni trascurabili?

Uno sguardo in giro per l’Europa dimostra che sta effettivamente tornando una destra meno aperta e liberale di quella degli anni Novanta, coagulatasi, in tempi di crisi economica, grazie all’ostilità nei confronti dello straniero immigrato. Noi del resto abbiamo Salvini: e su questo Salvini non scherza. Ma il più urgente compito della sinistra è un altro: è rivendicare i valori dell’accoglienza e della solidarietà difendendo lo spazio di una politica di integrazione concreta e realistica; è far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni nei luoghi della marginalità e dell’esclusione sociale; è rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese. Certo, meglio cantare «Bella ciao» una volta in più che una in meno, ma non fingiamo, per favore, che stiamo chiamando gli italiani a una nuova lotta partigiana, perché non è così.

Signori, la proporzione è questa: circa un italiano su due ha paura di circa un italiano su ventiduemila. Il primo numero lo fornisce Repubblica, che pubblica un sondaggio il quale accredita il seguente dato: 46 italiani su 100 temono che il fascismo sia molto o abbastanza diffuso nel Paese. Il secondo numero fa invece riferimento al numero di iscritti di Forza Nuova, la più consistente formazione di estrema destra che, però, non raggiunge i tremila iscritti. Il che per esempio significa che in una città di un milione di abitanti i neofascisti sono, mediamente,… quarantacinque!

Se questa è la proporzione, ne viene che o gli italiani sono particolarmente timorosi e gemebondi, oppure il giornale romano sovrastima abbondantemente il fenomeno.

Uno può dire: quando è in gioco la democrazia, è meglio andarci cauti. Gli ultimi episodi – irruzione di estremisti di destra durante un’assemblea organizzata a Como dalle associazioni per i diritti dei migranti;  fumogeni accesi a Roma da un gruppetto di militanti sotto la sede di Repubblica, primo atto di una guerra politica «contro chi diffonde il verbo immigrazionista» – non attestano forse che c’è un allarme democratico? Meglio evitare sottovalutazioni. Anche perché oltre a Forza Nuova c’è CasaPound, ci sono le associazioni studentesche di estrema destra, c’è una piccola galassia di associazioni in cui circolano gli stessi simboli del ventennio fascista e gli stessi slogan xenofobi.

Di qui però a parlare di un pericolo concreto, reale, per le istituzioni democratiche io credo ce ne corra. Oltre ai numeri e alle proporzioni, può aiutare anche il senso storico: non c’è oggi il clima di violenza politica che c’era nei primi anni Venti del Novecento. Non ci sono corpi paramilitari e non si registrano decine di migliaia di iscritti a formazioni neofasciste in costante crescita. E, a tacere di altre differenze, non ci sono le condizioni che determinarono la risposta autoritaria alla crisi dello Stato: non abbiamo un conflitto mondiale alle nostre spalle, né l’introduzione del suffragio universale ha messo fuori gioco, come accade un secolo fa, le vecchie élites liberali.

Questi gruppetti di militanti che indossano maschere, leggono proclami e innalzano bandiere appartengono in realtà alla pattumiera della storia: lì sono e lì devono restare. Se pongono questioni di ordine democratico, lo Stato italiano ha gli strumenti per affrontarle: ha le forze di polizia e la legge penale. Ma il discrimine decisivo oggi non passa, per nostra fortuna, fra fascismo e antifascismo. E dirlo non significa affatto negare il fondamento storico della Costituzione e della Repubblica, ma tenere il confronto politico (e, fra poco, elettorale) nel suo alveo naturale. Perché delle due l’una: o c’è davvero il fascismo alle porte, e allora tutte le altre differenze fra i partiti democratici debbono scomparire, di fronte alla necessità di fronteggiare la minaccia – e non mi pare che sia questo il senso delle posizioni assunte finora dalla sinistra politica e culturale di questo Paese, che pratica oggi la divisione, molto più dell’unione –, oppure c’è poco da fare: siamo in presenza di una fiammata propagandistica, assai più alta e più grande del mostro che vuole esorcizzare.

Sia chiaro: anche la propaganda ci vuole. Anche le democrazie hanno bisogno di mobilitare passioni e di alimentare credenze collettive. Ma non è cercando ancoraggi nel passato che la sinistra riuscirà a parlare nuovamente a fasce ampie di popolo. Prima di temere che il passato ritorni c’è bisogno di capire se mai come avere nuovamente accesso al futuro. Il miglior modo per scacciare la paura è alimentare la speranza, ma non vale il contrario, purtroppo: il miglior modo per alimentare la speranza non è agitare vecchie o nuove paure. Che se poi tutta questa nuova visibilità e attenzione mediatica per Forza Nuova o per CasaPound avesse l’effetto opposto, di fare esistere e acquisire centralità a ciò che ha dimensioni trascurabili?

Uno sguardo in giro per l’Europa dimostra che sta effettivamente tornando una destra meno aperta e liberale di quella degli anni Novanta, coagulatasi, in tempi di crisi economica, grazie all’ostilità nei confronti dello straniero immigrato. Noi del resto abbiamo Salvini: e su questo Salvini non scherza. Ma il più urgente compito della sinistra è un altro: è rivendicare i valori dell’accoglienza e della solidarietà difendendo lo spazio di una politica di integrazione concreta e realistica; è far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni nei luoghi della marginalità e dell’esclusione sociale; è rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese. Certo, meglio cantare «Bella ciao» una volta in più che una in meno, ma non fingiamo, per favore, che stiamo chiamando gli italiani a una nuova lotta partigiana, perché non è così.

(Il Mattino Il Messaggero, 10 dicembre 2017)

La violenza e le bugie pietose

GHIRRI

L. Ghirri, Rimini (1977)

Due cose stanno sulle pagine di cronaca dei quotidiani: lo stupro di Rimini, commesso da giovani marocchini, e la campagna di Forza Nuova, la formazione neofascista di Roberto Fiore che va a ripescare un vecchio manifesto della Repubblica di Salò per aizzare l’opinione pubblica contro l’uomo nero che violenta la donna bianca: potrebbe essere tua madre, oppure tua moglie, tua sorella, tua figlia, recita la didascalia, che gioca sulla paura per lo straniero, per l’immigrato, per il selvaggio di colore.

Non v’è chi non veda i tratti xenofobi di questa campagna, che istiga pesantemente all’odio razziale. Ma, per vederli, c’è davvero bisogno di non vedere la realtà, o di camuffarla? La realtà è la seguente: in Italia, sono stati commessi, nei primi sette mesi del 2017, 2333 stupri. Gli italiani accusati del crimine sono 1534, in lieve aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (quando furono 1474). Gli stranieri sono invece in leggerissimo calo: 904 nel 2017 contro i 909 del 2016. Questo leggerissimo calo e quel lieve aumento tutto sono meno che significativi. Piccoli scostamenti che non fanno tendenza, che non v’è ragione di ritenere che si confermeranno nei prossimi mesi, che dunque non costituiscono certo il dato statistico più rilevante. Eppure, ci sono agenzie di stampa e giornali che titolano con enfasi: sempre meno stupri sono commessi da stranieri e sempre di più da italiani. Perché lo fanno? Probabilmente per timore di alimentare i pregiudizi verso gli immigrati – specie quelli di colore, specie quelli musulmani – che serpeggiano in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica.

Così facendo però, proibiscono di pensare che vi possa essere qualche nesso fra la commissione dello stupro e la condizione in cui vengono a trovarsi gli stranieri in Italia. Attenzione: non ho detto affatto che vi può essere un nesso fra l’essere stranieri e il commettere violenze sessuali. Non voglio essere frainteso, ma nemmeno voglio coprire di facile indignazione retorica un problema drammatico. Ho parlato dunque della “condizione” in cui vengono a trovarsi gli stranieri, soprattutto se irregolari e costretti alla clandestinità. I numeri, nonostante la rassicurante versione ufficiale (quella del calo delle violenze commesse da stranieri e dell’aumento delle violenze commesse da italiani) raccontano un’altra cosa. Perché gli italiani sono più di cinquanta milioni, mentre gli stranieri sono all’incirca cinque milioni: cioè dieci volte di meno. A fronte dei 1574 stupri compiuti da italiani vi dovrebbe stare dunque un numero dieci volte più piccolo di stupri perpetrati da stranieri, e cioè 157. E invece sono 904, quasi sei volte di più. Questo è allora il numero che si tratta di spiegare, questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Non si fa un buon servizio alla verità – e, io credo, nemmeno alle comunità di immigrati che vivono in Italia – se si omette questa semplice proporzione, e si commenta la notizia dello stupro di Rimini ricordando che, dopo tutto, gli stupri commessi da stranieri sono in calo, mentre aumentato quelli dei nostri connazionali. (Tra parentesi: tutti questi stupri, questa catena orrenda di violenze e abusi che si continua ancora oggi non è tollerabile, e richiede che si faccia di più, molto di più in termini di prevenzione, di educazione, di formazione, di campagne di informazione, di tutela e assistenza alle donne).

Ma se siamo arrivati fin qui, se siamo giunti sino a riconoscere la realtà del problema senza alcun infingimento, non c’è affatto bisogno di gridare all’invasione, come fanno i neofascisti di Forza Nuova, o come, con posizioni appena più sfumate, ripetono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Se gli stupri sono, in percentuale, più alti fra gli stranieri, non è perché gli stranieri sono più cattivi, o più violenti, ma perché è fallito un progetto di integrazione. Uno stupro è una violenza individuale o di gruppo, ma chiama in causa l’ordine sociale complessivo, i suoi codici culturali, i suoi orizzonti simbolici. Farvi parte, starci dentro – stare dentro una società, comprenderne la cultura, decifrarne i simboli e farne propri i significati – non lo si fa semplicemente mettendovi piede. L’uomo non sta al mondo come la chiave sta nella toppa. E anche il modo di vivere l’essere maschi o femmine dipende da una gran quantità di cose, su cui la società, la cultura, la politica, la religione non smettono di tornare, lasciando sopra i corpi degli uomini e delle donne i segni del loro passaggio. Segni non pacifici e non pacificati, che in condizioni di estraneità, oppure di emarginazione, di distanza culturale o di vera e propria ostilità possono farsi illeggibili, e possono, in certe condizioni, scatenare la violenza. Per rabbia, per risentimento, per frustrazione, per mera rappresaglia. Perché si rimane in guerra col mondo, e la prima e mai cessata guerra che gli uomini combattono, purtroppo, è ancora quella per il dominio del corpo femminile.

Ma, se è così, il primo dovere non è coprire la realtà con pietose bugie, per tema di alimentare le campagne xenofobe e razzistiche, bensì quello di fare ogni sforzo per cambiarla, seguendo modelli effettivi di integrazione. L’immigrazione è una realtà del nostro tempo, ma la nostra responsabilità è molto più grande di quella che pensiamo di avere, riconoscendone il diritto. Il diritto non è mai, da solo e per intero, la vita buona. E nessun uomo e nessuna donna si incontreranno mai per davvero sotto i soli auspici di una norma di legge. Se non si aprono percorsi concreti e tangibili di inclusione degli stranieri, a partire da condizioni di vita accettabili, quella norma, qualunque norma, sarà violata.

(Il Mattino Il Messaggero, 3 settembre 2017)

Il brutto clima e le decisioni da prendere

Nauman

B. Nauman, Body Pressure (1974)

Ho l’impressione che occorra affrontare una domanda preliminare per mettere un po’ di riflessione sui fatti intorno ai quali si arroventano le polemiche di questi giorni. Parlo naturalmente della questione migratoria, che si presenta ora sotto l’aspetto degli sbarchi, ora sotto quello degli sgomberi, ora nei rapporti con l’Unione europea, ora nelle responsabilità dei sindaci. Nulla e nessuno ne viene risparmiato, se a Pistoia il vescovo deve mandare il suo vicario generale a concelebrare la messa con don Massimo Biancalani, dopo l’annunciata partecipazione di «militanti forzanuovisti» di estrema destra, preoccupati di vigilare de visu sull’effettiva dottrina professata dal sacerdote pro-migranti. È sicuramente un episodio, ma un episodio indicativo di un clima parecchio invelenito, in cui qualunque gesto di accoglienza o di integrazione viene considerato complice di una sconsiderata politica immigrazionista che mina alle radici, in un irresistibile climax, prima l’ordine pubblico e la sicurezza, poi il benessere degli italiani, infine l’identità della Nazione e i suoi fondamenti storici, etici e spirituali. Ma è vero altresì che qualunque iniziativa presa dal Viminale o dalle Prefetture, per il solo fatto che a muoversi sono le forze dell’ordine, diviene espressione di intolleranza e di autoritarismo. Ogni volta che la polizia usa un idrante c’è qualcuno che cita Pinochet. Lo sgombero dello stabile di via Curtatone non è stato certo un capolavoro di efficienza – come del resto non lo sono stati gli anni in cui l’edificio è rimasto occupato nell’indifferenza generale – ma la polizia che interviene non assume, per il solo fatto di intervenire, l’aspetto di una falange fascista. Solidarietà e accoglienza non si fanno gettando per strada i rifugiati, ma non si fanno nemmeno stipandoli per anni in un palazzo in cui gli operatori sociali non riescono nemmeno a entrare.

Clima invelenito, polemiche surriscaldate dal lucro politico che sulla questione migranti è possibile realizzare facilmente, per cui i soldi spesi per le politiche di integrazione sono tolti agli italiani che se la passano male e i migranti sono quelli che stanno tutti in alberghi a quattro stelle (e ora don Biancalari li porta pure in piscina). Ma sono polemiche complicate anche dalle astratte posizioni di principio che rifiutano di guardare di volta in volta, nella concretezza delle situazioni reali, cosa mai da quei principi principia. Cioè succede davvero. È stato così con il codice Minniti, che addirittura per taluni non sarebbe figlio di una cultura democratica, anche se le politiche messe in campo dal governo ci hanno risparmiato un’estate di immani tragedie in mare: non solo meno sbarchi, ma anche meno morti nelle acque del Mediterraneo.

Qual è allora la domanda preliminare? Eccola: cosa significa essere cittadini? Questa domanda ha sicuramente un risvolto teorico, e chiama in causa secoli e secoli di riflessione filosofico-politica, accompagnando praticamente tutto il corso della storia umana. Ma ha poi anche un lato sociologico, pratico, che riguarda la maniera in cui gli italiani si sentono cittadini. Attenzione: non cosa significa essere italiani, ma cosa per gli italiani significa essere cittadini. E cioè: cosa ritengono che essi debbano alla condizione della cittadinanza, quali diritti e quali doveri sono ad essa legati, chi sono disponibili a considerare cittadini alla loro stessa stregua, quali formazioni simboliche sono coinvolte nel modo in cui essi si sentono cittadini, in che modo si sentono effettivamente accumunati da questa condizione, e così via. Ho il timore che anche nel dibattito sul cosiddetto ius soli (che dovrebbe riprendere a settembre, ma chissà) questa domanda non sia stata seriamente presa in considerazione. Eppure è lì la chiave: prima ancora di capire chi siano i migranti, cosa dobbiamo o non dobbiamo loro in termini morali, giuridici o politici, noi dovremmo sapere chi siamo noi, quale comunità politica formiamo in quanto cittadini di una democrazia costituzionale. Ho paura infatti che la dimensione normativa connessa all’idea della cittadinanza sia per noi italiani veramente troppo gracile, e finisca spesso per essere completamente schiacciata dal peso degli umori e dei sentimenti. E, certo, anche dei pregiudizi e delle ideologie. Solo così si spiega perché ogni appello alla legge, in questo Paese, suona invariabilmente di destra. Ma si spiega pure perché troppo spesso alla destra slitti la frizione, dimenticandosi che essere italiani significa esserlo come cittadini, dentro un quadro costituzionale di diritti e di garanzie, a sua volta inserito ormai in una cornice di diritto europeo e internazionale che è parte altrettanto irrinunciabile della nostra cittadinanza. Così ci sono quelli che rifiutano anche solo l’idea che si possa mettere fine a un’occupazione illegale, e quegli altri che se sentono parlare di diritto del mare o di protezione internazionale gridano subito alla sovranità violata. Gli uni e gli altri non fanno che agitare bandiere. Gli uni in nome di un umanitarismo di fatto inconcludente condannano lo Stato italiano (e dunque loro stessi) all’impotenza; gli altri in nome di un malinteso sovranismo perpetuano condizioni di emarginazione, esclusione e conflitto, riducendo gli spazi di libertà e di democrazia (e quindi i loro stessi spazi). Le politiche di integrazione non si fanno né in un modo né nell’altro, ovviamente. Però vanno fatte. E siccome sono politiche, cioè cose che richiedono tempo perché dispieghino i loro effetti – soprattutto innanzi a fenomeni di lunga portata come le migrazioni in corso – bisogna che ci sia una cultura preparata a sostenerle. Malauguratamente, a volte, i luoghi dove ospitare i rifugiati non sono l’unica cosa che manca. E la cultura: non c’è prefetto, purtroppo, che possa requisirla da qualche parte.

(Il Mattino, 28 luglio 2017)