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Le speculazioni e il dovere di fare chiarezza

riunione_dipartimentiSe per antimafia si intende anzitutto un moto di partecipazione, alimentato da passione politica e civile, di antimafia l’Italia ne ha un bisogno assoluto, oggi come ieri. Una religione civile, ha scritto ieri Isaia Sales su queste pagine. Un insieme di dispositivi, anche simbolici, di pratiche e di manifestazioni che rafforzino il senso di appartenenza dei cittadini a una medesima entità statale. Una memoria comune, condivisa, in cui è bene che si iscrivano i segni che hanno lasciato gli uomini e le donne caduti per mano delle mafie, perché hanno difeso lo Stato e le sue leggi. E oggi come ieri questa difesa è indispensabile.

Ma l’antimafia è anche altro. La stessa memoria diviene culto e ha i suoi officianti, dediti a volte a interessi e commerci di ben altra natura (e il più delle volte meschini). Lo ha detto il Procuratore Lo Voi a Palermo, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ma lo ha ripetuto anche ieri il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti: c’è chi specula sull’antimafia, chi si costruisce una posizione. C’è chi fa, ma c’è pure chi dice di fare, e dicendo ci ricava il suo lucro.

Ma non è l’unico aspetto su cui varrebbe la pena discutere criticamente. La riflessione è in parte in corso, a dire il vero. E non mi riferisco certo alle parole eccezionalmente gravi di Luigi Di Maio, che è arrivato a scrivere  che don Peppe Diana è stato ucciso una seconda volta «non dai camorristi ma da premier, sottosegretari e ministri». Il motivo di questo durissimo j’accuse (e di questo pessimo esempio di strumentalizzazione politica di uno dei simboli dell’antimafia)? Il blocco dei fondi ai familiari delle vittime dei reati di tipo mafioso. Il punto è che non di blocco si tratta, ma della volontà di vederci chiaro nei criteri di erogazione dei rimborsi delle spese legali. Qualunque persona ragionevole capisce di cosa si tratta: del timore che qualcuno ci mangi su. Si può condurre una verifica del genere? Non solo si può: si deve.

Allo stesso modo, in novembre la Camera dei Deputati ha approvato a larga maggioranza la riforma dell’Agenzia dei beni confiscati (ora  al Senato). A detta ormai di tutti, l’Agenzia così com’è non funziona. Le norme più stringenti approvate dovrebbero scongiurare una gestione familistica dei beni (nuovi casi Saguto, insomma) e dovrebbero anche aiutare, tramite l’istituzione di un apposito fondo, la loro capacità di produrre nuovamente utili, salvaguardando posti di lavoro. Restano però due dubbi, che è doveroso manifestare senza che nessuno – si spera – prenda la penna e ci dia dell’assassino. Il primo riguarda l’assegnazione e la destinazione di questi beni. Il giusto timore di farli finire nuovamente in mani sbagliate, e la giusta volontà di sostenere grazie a quei beni iniziative di carattere sociale (la religione civile) rischia di fatto di sottrarre ingenti risorse ai normali circuiti di mercato. Si può costruire intorno all’antimafia un’attività economica separata? Il secondo dubbio, più strettamente giuridico, riguarda una procedura che di fatto blocca attività e beni di carattere economico prima che intervenga un giudicato. Anche qui un punto di domanda va posto, anche solo per ragioni di scuola, ed è bene che sia posto ogni qual volta si agisce per ragioni di carattere emergenziale.

Tutta l’antimafia nasce infatti sotto il segno dell’emergenza. Ma quanto dura un’emergenza? E quali effetti produce un’emergenza  perenne, che si protrae per più di una generazione? In Italia, c’è un filo non mai interrotto che lega le scelte di politica criminale in materia di contrasto alla criminalità organizzata a quelle compiute decenni fa contro il terrorismo politico. Ma il terrorismo è stato sconfitto, le mafie no. Ora, ci sono tre aspetti principali intorno a cui continua a ruotare un percorso di carattere emergenziale, ai fini di repressione del fenomeno, senza che sia mai introdotta nel dibattito pubblico una riflessione seria, laica, sulla loro efficacia. E cioè: l’indurimento delle pene da un lato, l’inasprimento dei sistemi di sanzione cautelare dall’altro, il potenziamento dell’arsenale degli strumenti processuali dall’altro ancora. Anche in questo caso, c’è bisogno di un confronto di merito, senza anatemi e senza demonizzazioni, perché fare in sostanza due tipi di processo – uno per i mafiosi, l’altro per tutti gli altri – è almeno discutibile in linea di principio, se i principi naturalmente, li si prende da un’idea sufficientemente liberale di diritto penale.

Infine, la cosa più difficile. Lo ripeteva anche Roberti ieri, nell’intervista al Mattino. Rete idrica, servizi pubblici, scuole aperte al pomeriggio: questa è lotta alla mafia. In mancanza, sono le mafie non solo a dare opportunità di lavoro alla manovalanza che reclutano in contesti economici e sociali degradati, ma anche a costruire reti di integrazione sociale, a offrire codici culturali e simbolici: un’altra religione civile, insomma, rovesciata rispetto a quella dello Stato. Un’ideologia che non si forma solo in interstizi e per le incrinature dei poteri pubblici, ma diviene anzi il tessuto normale di vita di interi strati sociali. Se questo continua ad accadere, non ci sarà uso di simboli o celebrazione di processi che tenga.

(Il Mattino, 21 marzo 2016)

 

 

 

Perché negare i luoghi comuni non la camorra

1Contestare l’espressione usata da Rosy Bindi per denunciare la presenza camorristica a Napoli tutto vuol dire meno che sminuire il fenomeno, o addirittura negarlo. Invece, il Presidente della Commissione Antimafia ha ribattuto alle critiche in questi termini. Al primo sproposito ne ha dunque aggiunto un altro: prima ha detto che la camorra é un dato costitutivo di Napoli, poi ha tacciato i suoi critici di negazionismo. Come se solo sparandola grossa si dimostrasse consapevolezza del problema. Eppure è semplice: se la camorra fosse costitutiva della città, della società napoletana, vorrebbe dire che Napoli non sarebbe Napoli se la camorra non fosse in città. Si scelgano gli esempi che si vogliono più appropriati, per una rapida istruzione sull’uso della parola: la laguna è costituiva di Venezia, nel senso che Venezia non sarebbe la stessa senza i suoi canali. Né lo sarebbe Roma senza il Colosseo, o senza la presenza della Chiesa cattolica nella sua storia.
Ma si può provare anche così: forse che Napoli sarebbe la stessa senza la lingua napoletana? Certo che no: la lingua napoletana, e la cultura che in essa si esprime, sono dunque costitutivi della città. Ecco cosa si vuol dire: togliete a Napoli la sua lingua e l’avrete resa irriconoscibile, amputandola di una parte fondamentale della sua identità.
Orbene: si vuol dire lo stesso della camorra? Che Napoli cioè perderebbe un pezzo della sua identità il giorno in cui fosse definitivamente sconfitta la camorra? Che perciò i napoletani si trovano di fronte all’aspro dilemma: o restano se stessi, e allora devono imparare a convivere con la camorra, oppure debbono inventarsi un’altra storia e un’altra identità, se vogliono liberarsi per davvero della criminalità organizzata?
Questo basta per l’uso delle parole, gli infortuni linguistici e le pezze peggiori del buco. Ma perché Rosy Bindi ha insistito, è ritornata sulle sue parole, non ha chiesto scusa e anzi ha rincarato la dose? Non è certo solo per una questione di orgoglio, o per evitare una figuraccia. Tant’è vero che a darle man forte è intervenuto pure il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Anche per lui, non devono far scandalo le parole del Presidente Bindi, ma casomai la reazione che hanno sollevato. Negare infatti che la camorra sia un elemento costitutivo della società napoletana significa «non guardare in faccia la realtà». E se non si può negare che le mafie siano elemento costitutivo della società vuol dire che chi invece lo nega è un negazionista – parola che, ricordiamolo, si usa per indicare non un mero errore, ma una deliberata e infamante disonestà intellettuale.
E invece la prima regola del confronto di idee è rispettarle tutte. Cosa che si fa – sia detto incidentalmente – ospitando sullo stesso giornale opinioni anche difformi, come il Mattino non ha mancato di fare; cosa che invece si fa meno, tacciando l’interlocutore di negazionismo.
Perché però accade questo? E soprattutto perché non è sufficiente una semplice messa a punto del vocabolario, per dirimere la questione? In fondo basterebbe replicare che per «approntare gli interventi strutturali» necessari a contrastare la camorra bisognerebbe evitare di considerarla parte del paesaggio naturale della società napoletana. Per suscitare le migliori energie politiche, morali e civili bisognerebbe cioè dire esattamente il contrario di quanto si è venuti dicendo: che nessuna legge storica o sociale, men che meno antropologica o biologica, condanna i napoletani a vivere in mezzo all’illegalità e al malaffare. C’è uno slittamento inavvertito fra il dire che la camorra fa parte della società napoletana, che è un dato sociologico, e il dire che non può non farne parte. Che è invece una legge d’essenza: un dato costitutivo, appunto.
Ma daccapo: perché si produce questo slittamento? Per difetto di logica? Possibile, ma non probabile. Più probabile è che in queste posizione si esprima una certa cultura dell’emergenza, per cui non è mai abbastanza quanto è scritto nelle leggi, quanto è previsto dalle pene, quanto è possibile agli inquirenti. Una ideologia dell’inasprimento, potremmo chiamarla, parente stretta di quel populismo penale che per principio esulta quando è elevata una pena pur che sia, quando è introdotta una nuova figura di reato, quando è prolungato un termine di custodia.
Chi d’altra parte, invece di inasprire, si potrebbe mai proporre di attenuare? In verità, si dovrebbe dire piuttosto garantire, e non solo inquisire, ma daccapo: chi può permettersi di dirlo, senza rischiare imperiose squalifiche morali?
Forse, l’unica maniera per dirlo sarebbe appunto parlare in nome di quella società sana, viva, pulita, che non accetta di essere criminalizzata in blocco.
Se invece il crimine e la camorra non fossero solo un problema serio, drammatico, ma fossero addirittura un dato costitutivo di Napoli, allora questa via sarebbe preclusa, questa parola sarebbe zittita, e non vi sarebbe altra strada che quella che passa attraverso giudici e tribunali.
E invece altre strade ci sono, o perlomeno non bisogna smettere di cercarle lì dove possono e devono essere tracciate: nella politica e nella società. Rosy Bindi forse non le conosce, e conosce solo la Napoli costituita dalla camorra. Si può dunque sostenere, senza negare alcunché, che la camorra è costitutiva solo della conoscenza che Rosy Bindi ha di Napoli.

(Il Mattino, 17 settembre 2015)