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Mezzogiorno, la surroga della Chiesa

imagesLa Chiesa si dà convegno per parlare di lavoro, del futuro dei giovani e di Mezzogiorno. Lo fa chiamando a ragionare di problemi sociali, di welfare, di prospettive occupazionali, il Presidente della CEI, il cardinal Bagnasco, e il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca; il Ministro per il Mezzogiorno, De Vincenti, e un economista di chiara fama come il professor Becchetti. E poi i vescovi delle chiese del Sud, riuniti dal Cardinale Sepe, il prossimo nove febbraio, per lanciare un messaggio che ha già, fin nell’annuncio, un fortissimo carattere performativo: segnala cioè, per il solo fatto che viene lanciato, che gli altri corpi intermedi della società hanno perduto questa capacità. La Chiesa parla, mentre gli altri – i partiti, i sindacati – sembrano aver perduto ogni voce.

Merito di Papa Francesco? Sicuramente il clima aperto dal pontificato del gesuita Bergoglio qualcosa c’entra. L’enciclica «Laudatosi’»ne ha in certo modo restituito la fisionomia ideologico-culturale, se è lecito dir così. In quel documento, il Pontefice metteva sotto accusa la finanziarizzazione dell’economia, stigmatizzava le diseguaglianze prodotte da una società retta esclusivamente dalle regole del mercato, invitava gli Stati ad agire, guardava alle sfide del mondo globale – soprattutto sui temi ambientali – dalla parte dei paesi in via di sviluppo. Vi era insomma la promessa di un impegno politico, che l’iniziativa assunta dal Cardinale di Napoli raccoglie ora concretamente. Ed era qualcosa di più dell’opzione preferenziale per i poveri, che appartiene alla dottrina della Chiesa: era – ed è – una maniera di essere presenti nella società, affidata più che a questioni teologiche a temi economico-sociali, che la crisi rende più impellenti.

Ma non sono i cambiamenti nella Chiesa a dare il senso della prossima iniziativa della Curia napoletana. È piuttosto l’atrofizzazione dei partiti, sempre meno in grado di portare al confronto con la società civile scelte e ideali, interessi e valori, programmi e politiche, a procurare risalto al convegno ecclesiastico.

Il fatto è che i partiti subiscono una perdita doppia. Da un lato, c’è una perdita di intelligenza della realtà, una sempre minore capacità di elaborazione, persino un deficit di immaginazione: dall’altro, e più gravemente, c’è una perdita di credibilità che rischia di minare anche i più nobili tentativi di riprendere il filo di una discussione pubblica sui grandi temi della società, del Mezzogiorno, del lavoro.

Ad esempio. Sono attualmente in discussione in Parlamento norme in tema di contrasto alla povertà e di riordino del sistema dei servizi sociali. C’è l’idea, su cui sta lavorando il governo, di introdurre una misura nazionale di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale, con l’obiettivo di garantire su tutto il territorio nazionale gli stessi livelli di assistenza delle prestazioni a contenuto sociale. Quel che non c’è, e che non ci sarebbe anche quando il progetto dovesse andare in porto, è l’investimento politico, culturale, persino simbolico su un tema simile, la capacità di costruire identità, di fare comunità, di creare legami e motivi di condivisione.

Nella società, i partiti non ci sono più. Ci sono nelle istituzioni, forniscono personale agli apparati dello Stato, rimangono con difficoltà drammaticamente crescenti il canale di legittimazione delle istituzioni democratiche, ma nella società non ci sono. C’è il terzo settore, c’è il volontariato, ci sono le parrocchie (un po’ più vuote di prima), resistono altri (pochi) centri di aggregazione. Ma i partiti no. I partiti sono come certe rilevazioni metereologiche di una volta: non pervenute. Manca la stazione emittente. Nessuno lancia segnali, da quelle parti. Cosa manca? È colpa di chi?

Qualche anno fa Zygmunt Bauman, recentemente scomparso, scriveva che nelle società contemporanee le nuove povertà sono caratterizzate essenzialmente da una situazione di «sottoconsumo». Il centro del discorso di Bauman stava nell’idea che i poveri siano oggi non tanto persone che non producono, ma che non consumano: «una voce passiva del bilancio della società attuale».Bauman riteneva che una società della piena occupazione non sarebbe più tornata. Per la prima volta nella storia, scriveva il sociologo polacco, i poveri sono semplicemente inutili, privi di valore, di troppo. Non servono nemmeno come manodopera di riserva. Non c’è, insomma, nulla di buono che si possa cavare da loro: sono un peso e sono indesiderati. La repentina caduta del consenso intorno ai sistemi di welfare nasce, per Bauman, da questa inedita condizione. Perché però ricordare queste analisi? Con una disoccupazione giovanile al 40%, certe riflessioni rischiano persino di apparire oziose. E invece è il contrario. Perché la figura del povero, o del disoccupato, o dell’emarginato, cambia di significato a seconda di come cambia il clima generale della società.

L’iniziativa della Chiesa partenopea dice proprio questo: che occorre prendere questi temi anche dal lato dei modelli culturali di riferimento, della trama di valori che essi sottendono, del campo di idee in cui chiedono di essere interpretati. I partiti hanno completamente rinunciato a questo profilo: credevano di buttar via la zavorra, hanno perduto in realtà la loro stessa ragion d’essere.

(Il Mattino, 3 febbraio 2017)

Il nuovo Pantheon e l’ambizione di cambiare il Paese

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Che cosa c’era nel discorso conclusivo di Renzi, alla Leopolda? Una cosa sopra tutte: l’idea che la legittimazione politica dell’attuale classe dirigente che guida il Paese stia nell’ambizione di cambiare l’Italia. Tutto è commisurato a questa ambizione. Era così fin dal primo giorno della prima Leopolda, ma ora il referendum costituzionale consente a Renzi di affermare che siamo dinanzi a una sorta di nuovo inizio. Sul contagiri del governo manca pochissimo al traguardo dei mille giorni, ma ieri Renzi ha parlato come se il referendum rimettesse le lancette della politica italiana sullo start.

La mossa risponde all’esigenza di proiettare il risultato del voto di dicembre in avanti, per legarlo a una promessa di futuro. Chi vota non vota tanto sul quesito referendario, quanto piuttosto sull’Italia: l’Italia del cambiamento contro l’Italia della conservazione. Nuova contro vecchia generazione. Una nuova classe dirigente che ci prova contro quell’altra che ha già fallito. Il canto della speranza contro la cultura del piagnisteo.

Questa volontà di sgravarsi del passato ha sicuramente prodotto un cambiamento reale nel modo in cui è ormai organizzata la discussione pubblica, almeno nei paraggi del PD. Quando il partito è nato, il tema delle culture politiche virava al passato, nel senso di una discussione sui riformismi che, provenendo da lontano, dovevano andare lontano: così si diceva una volta. Quella volta – quella retorica, quella devozione verso le antiche radici – per Renzi non c’è più: non è più questione, insomma, di cosa sia o dove sia il cattolicesimo democratico, o il socialismo europeo.

In fondo, già Veltroni aveva provato, senza riuscirvi, un’operazione del genere, cercando di incarnare la figura del politico che parla un linguaggio nuovo. Ma Veltroni era, in questo, molto meno credibile di Renzi, e soprattutto cercava la novità in un eclettismo che l’obbligava a citare tutti, come nella canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa. Veltroni portava sulle proprie spalle il peso di un Pantheon di riferimenti culturali, politici, ideologici, dei quali non sapeva in nessun modo sbarazzarsi. Renzi un Pantheon alle spalle non ce l’ha. Lui non perde neanche un secondo a fare il gioco delle citazioni. Parla a braccio, prende quel che gli serve, prova a definire l’agenda del partito e del governo, legandole unicamente a un motivo: il futuro dell’Italia. «Noi siamo l’Italia», ripete, dove Berlusconi aveva detto (nel 1994) «l’Italia è il Paese che amo», e Veltroni aveva scelto (nel 2007) di esordire con «Fare un’Italia nuova».

Renzi però non ha semplicemente rottamato: ha inventato la sua maniera di essere di sinistra. Provando a renderla riconoscibile attraverso tre direttrici. La prima l’ha legata all’anima sociale del governo, ai provvedimenti presi in materia di diritti (vedi la legge sulle unioni civili, oppure quella sul “dopo di noi”), e in cultura (dalle borse di studio per l’università alla legge sul cinema). La seconda l’ha declinata nel rapporto con le istituzioni europee, nel tentativo di superare i vincoli dell’austerità imposta da Bruxelles, e in questo gli ha dato una mano anche Padoan, che il giorno prima ha osato criticare i tagli alla spesa pubblica come freno alla crescita (contro il mantra del rigore che la sinistra ha ingoiato fino all’ultimo giorno del governo Monti); la terza, con molta più convinzione, l’ha sviluppata lungo l’asse vecchio/nuovo che investe l’ordinamento istituzionale del Paese. Lì ha indicato il significato del voto di dicembre: è come il morto che tenta di afferrare il vivo.

Più che le singole issues, contava però il tono. Perché Renzi è passato anche per i luoghi canonici della sinistra (il recupero record dell’evasione fiscale e la redistribuzione del reddito con gli 80 euro), ma per quel tanto che gli serviva per rifiutare la lezioncina di quelli di prima, di quelli che ti dicono di startene buono, al tuo posto (quelli del «Ciccio, rispetta la fila!»).

Se si vuole capire che sinistra è questa, bisogna però andare alle due grandi narrazioni che si sono a lungo contesi l’interpretazione della modernità. Perché non c’è sinistra senza un’idea di modernità e di futuro, e Renzi l’ha capito benissimo. Nel suo discorso i pedali che premeva, per restituire questo sapore, erano da una parte l’America, Obama, e l’ultima cena di Stato alla Casa Bianca; dall’altra il progresso tecnologico, l’innovazione, persino la robotica (parola che deve evidentemente affascinarlo, per quante volte la ripete).

Ma la modernità può essere interpretata come un processo di secolarizzazione, in una logica di trasformazione ma insieme anche di continuità con la tradizione; oppure in termini di rottura, di autoaffermazione, senza bisogno di blande autorizzazioni dal passato. Renzi ha scelto questo secondo racconto, e la platea della Leopolda lo ha applaudito più calorosamente in tutti i passaggi in cui ha reso esplicita questa volontà di scrollarsi di dosso i vecchi, i padri, i gufi, i rancorosi.

Ed è per questo che ieri non ce l’aveva tanto con la destra, e neppure coi grillini, quasi mai citati. Il battesimo del 4 dicembre era ieri innanzitutto la pretesa di non rimandare più ad altri il diritto di definire cosa è sinistra. Piaccia o no: ha provato a farlo lui.

Sarà per via di questa sfrontata franchezza che qualcuno deve aver pensato che per il titolo di questa Leopolda bisognava usare gli stessi caratteri tipografici del libro di Moccia, quello dei tre metri sopra il cielo. È stata l’unica gentilezza esibita dal palco. Tutto il resto è stata lotta politica vera, e su questo anche gli avversari potranno convenire: il Pd di Renzi non ha alcun motivo per perpetuare, a sinistra, la lunga stagione degli ex-, dei complessi di inferiorità, delle cattive coscienze e delle supplenze, di cui in fondo l’Ulivo era ancora, almeno in parte, espressione.

(Il Mattino, 7 novembre 2016)

Il referendum decisivo per il futuro

272175433-giocare-a-carte-carta-da-gioco-tavolo-da-gioco-pokerE di nuovo ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito, parlando in chiusura della festa nazionale del partito democratico, a Catania, la disponibilità a rivedere la legge elettorale. Lo aveva detto anche il giorno prima, ed era sembrato che fossero quelle le parole più importanti del suo intervento a tutto campo. Se le si guarda dal punto di vista della lotta politica – e dal punto di vista più limitato della lotta politica all’interno della maggioranza – lo sono indubbiamente. La minoranza del Pd, con Cuperlo e Speranza, continua a chiedere modifiche dell’Italicum. Lo stesso fanno i centristi, da Alfano a Casini. Quando dunque Renzi si dichiara disponibile a intervenire sulla legge, parla innanzitutto a questi settori. Quando però prova a rilanciare l’iniziativa politica, parla a tutti gli italiani. E allora le parole più importanti divengono altre: «una riforma elettorale si cambia in 3-5 mesi, una riforma costituzionale no». Non sarà un diamante, e non sarà per sempre, ma una riforma costituzionale dell’ampiezza di quella in discussione ha, non può non avere l’ambizione di durare per un bel pezzo. Abbiano o no ragione quelli per i quali l’Italicum non è il vestito giusto per l’attuale sistema politico tripolare – e tra di loro c’è anche il presidente emerito Napolitano, primo sponsor delle riforme – è persino ragionevole mostrare disponibilità sul terreno della legge elettorale, per portare a casa un risultato molto più durevole sul terreno delle riforme.

Un risultato, cerca di dire Renzi, capace di futuro. Tutto il discorso di Catania di ieri aveva questo significato. Dalla parte del sì sta il futuro del paese, dalla parte del no stanno i fallimenti della seconda Repubblica. Sta il passato, sta un’altra stagione della vita politica italiana ormai conclusa. E ovviamente sta Massimo D’Alema – sceso in campo come leader del no alla riforma – che più di tutti la incarna. Renzi prova a rilanciare l’iniziativa politica, a raccontare le riforme del suo governo (le unioni civili, la scuola, il jobsact) e i buoni propositi per l’anno venturo (primo fra tutti la riduzione delle tasse).

Ma soprattutto torna ad essere quello che sta davanti, con gli altri ad inseguire. Complici infatti le difficoltà dei Cinquestelle – ancora incartati con il caso Roma e i dolori della sindaca Raggi –, complici le guerre intestine nel centrodestra – con l’investitura di Parisi, voluta dal Cavaliere ma osteggiata dalla dirigenza del partito –, il presidente del Consiglio torna a dare le carte. A mettersi al centro degli equilibri e delle prospettive di governo del Paese. Tutto però dipende dalla capacità di apparire non come quello che vuol sfangarla, sopravvivendo alle forche caudine del referendum, ma come quello che cambia l’Italia. Il viatico è dunque la legge elettorale («sia che la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no»), ma l’orizzonte è l’Italia del futuro. La prima è la polpetta che i partiti devono dividersi (se ci riescono, il che non è affatto scontato), ma il secondo è l’elemento davvero decisivo di cui ci si deve impadronire. La vittoria al referendum è insomma legata, per Renzi, alla possibilità di allestire uno scenario che coinvolga tutto il paese e non solo le sue classi dirigenti, che rimangono incerte spaventate o divise dal salto in un nuovo sistema politico-istituzionale.

Al premier, del resto, non manca il dinamismo per condurre questi due mesi, due mesi e mezzo di campagna elettorale all’attacco, su più fronti. Cercando sponde internazionali. Girando per l’Italia. Parlando a tutto campo. Mettendo anche un po’ di furbizia nell’orientare l’attività politico-parlamentare delle prossime settimane (vedi alla voce: legge di stabilità). E aprendo canali di comunicazione anche là dove, fino a poco tempo fa, si era al muro contro muro. A Napoli è così. Oggi il premier è in Campania, per una serie di appuntamenti in cui non gli mancherà certo il modo di confermare, insieme all’attenzione per il Mezzogiorno portata avanti con i patti per il Sud, questa nuova linea dialogante. E in serata, per l’evento organizzato da «il Mattino», siederà nel palco reale del San Carlo insieme al sindaco Luigi De Magistris. Certo, è una serata di gala, non un incontro istituzionale. Ma è, o può essere anche l’occasione per mostrare di avere il vento nelle vele anche alla città più «derenzizzata» d’Italia. A cui stasera in fondo si tornerà a chiedere se convenga continuare il gioco comunardo della repubblica indipendente, o unire il proprio destino a quello del resto del Paese.

(Il Mattino, 12 settembre 2016)

De Magistris, il futuro di Napoli e la rivoluzione dei fratelli

de-magistrisDe Magistris non fa passi indietro: c’era da aspettarselo. D’altronde, l’appuntamento elettorale è ormai alle porte ed il dado è già stato tratto. Così, nell’intervista data ieri a Repubblica, il sindaco che si vanta di aver derenzizzatala città «offre» al premier la sua ultima chance: «Se il Presidente del Consiglio mi dovesse chiamare e dire “facciamo un incontro su Bagnoli con il governatore De Luca, e vediamo il vostro piano” – dice De Magistris- l’organizzerei subito». Si tratta, evidentemente, di una provocazione, poiché, oltre alla pretesa, poco istituzionale, che sia un capo del governo a chiamare un sindaco, c’è una condizione che da sola vanifica l’offerta: il premier dovrebbe cancellare decreto su Bagnoli e commissario, e ripartire dal piano del Comune.  A dare un senso ancora più esplicito a queste pseudo-concessioni, De Magistris aggiunge di avere avuto con Renzi un eccesso di atteggiamento non negativo, e dichiara di essere, e di essere stato, sin troppo istituzionale nei suoi rapporti con gli altri livelli di governo. Aggiunge pure che, però, lui in realtà si sente «molto più rivoluzionario che istituzionale», adottando così per sé la definizione del partito che per settant’anni ha ininterrottamente governato il Messico (a proposito di occupazione): il partito istituzionale rivoluzionario, appunto.Ma è nella rivendicazione del ruolo del fratello Claudio che il senso di De Magistris per le istituzioni si precisa meglio – ed è una precisazione di sapore non già liberale, ma centroamericano. Claudio ha lavorato per cinque anni a titolo gratuito, e si capisce che il sindaco è rammaricato per quella che gli deve sembrare un’ingiustizia somma. Per questo, lascia intendere che nessuna decisione è presa, ma non è affatto escluso che il suo amato fratello esca da dietro le  quinte, dove si è tenuto finora, per assumere un peso politico di primo piano, magari passando prima per la candidatura in consiglio comunale. Un De Magistris in cima alla lista, come candidato sindaco, e un altro subito dietro, di rincalzo, a tenere ordinate e in fila le truppe (e a legittimare, in un futuro forse non lontano, un’ipotesi di successione). L’idea che i rapporti di fiducia debbano essere modellati su, o fortificati da, i legami familiari, risale a prima di John Locke, il campione del liberalismo moderno, che duellava con un tale John Filmer proprio per affrancare la sfera dei rapporti politici e statali dal modello autoritario, di tipo patriarcal-familiare. Le istituzioni (moderne) ci sono per quello, come una dimensione terza rispetto ai legami diretti, di sangue o di clan, e l’opera della politica consiste proprio nella costruzione di questa dimensione. Ma De Magistris ha altra preoccupazione: fare le liste, e chi meglio di Claudio-Raul De Magistris può garantire la purezza rivoluzionariadei candidati delle liste civiche a sostegno di Giggino-Fidel?

L’ultima battuta dell’intervista dice però anche un’altra cosa: se si votasse oggi, De Magistris sarebbe pronto, centrodestra e centrosinistra no. Al di là dell’adeguatezza o meno dei nomi che sono in campo – Lettieri da un lato, Bassolino dall’altro, in attesa di capire se ve ne saranno altri, e chi eventualmente saranno –entrambi gli schieramenti sembrano lontani da un progetto chiaro, definito e per dir così esigibile di città. Il Pd, in particolare, ha le maggiori responsabilità: perché tiene il governo nazionale e regionale, perché il populismo di De Magistris pesca soprattutto a sinistra, e perché è dai suoi disastri passati che viene l’esplosione del bubbone arancione.

Il Sindaco di Napoli ha, dal suo punto di vista, trovato il modo per sollevarsi da molte responsabilità amministrative, facendosi contare come «uno del popolo»: arretratezza e sgangheratezza della città non possono essere imputate a lui, o alla sua famiglia, ma a chi fa soffrire il popolo: cioè i poteri forti, gli interessi costituiti da una parte, il governo nazionale dall’altro. Lo schema può funzionare, se gli altri partiti politici, che non hanno in città nemmeno la metà della popolarità del Sindaco, si limitano a denunciare sbreghi e rodomontate del Sindaco, senza riuscire a inventare nulla di nuovo. Vale anche per Bassolino, il qualesa bene di non poter fondare la sua campagna elettorale solosu idee di rivincita, o di ritorno al passato. Se non si riuscirà a dimostrare che c’è un futuro per Napoli dentro il futuro dell’Italia, e non fuori, o contro, prevarrà la linea del conflitto, e l’interprete che riesce a incarnarla nel migliore dei modi, ventilando persino la possibilità di compiere prima o poi un passo dentro le istituzioni nazionali, senza però rinunciare all’altro passo, confusamente rivoluzionarioa fianco del popolo, è ancora Luigi De Magistris.

(Il Mattino, 7 gennaio 2016)

Sguardo al futuro – Buon anno 2009

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