Forse questo primo turno amministrativo può dispensare qualche certezza anche se, a quanto pare, nelle principali città italiane, quelle sulle quali si concentra in prevalenza l’attenzione dell’opinione pubblica, non eleggerà alcun sindaco e bisognerà attendere il ballottaggio. Nel frattempo, infatti, gli uscenti sono dati in vantaggio: sia a Torino che a Napoli; sia Fassino che De Magistris. Due uomini che non potrebbero essere più diversi. In realtà, da quando c’è l’elezione diretta del sindaco la regola – che pure ammette un buon numero di eccezioni – è che il sindaco che si ripresenta viene rieletto. La stessa legge, imponendo il limite dei due mandati, dimostra consapevolezza del vantaggio da cui parte chi detiene il controllo della macchina comunale. E questo è un primo punto, dal quale ogni volta si riparte.
Un altro punto, più importante, è che l’elettorato tende a premiare liste e candidature che non sono state logorate da conflitti interni. Questa regola riguarda tanto le forze politiche tradizionali, quanto le nuove formazioni. Prendiamo i Cinquestelle: a Napoli hanno avuto non pochi problemi a individuare il candidato; i big hanno preferito non scendere in campo; una parte dei militanti non ha digerito la scelta abbastanza incolore di Matteo Brambilla, minacciando addirittura di adire le vie legali. Risultato: il Movimento è abbondantemente al di sotto della media nazionale, e fa probabilmente peggio anche del risultato ottenuto con la Ciarambino alle Regionali dello scorso anno. Pesa sicuramente il consenso per De Magistris, ma i grillini ci hanno sicuramente messo del loro. Stessa cosa a Milano, dove la candidata indicata in un primo momento, Patrizia Bedori, si è fatta (o è stata fatta) da parte. Fortissima fibrillazione, e Milano uscita fuori dai riflettori del Movimento. Risultato: la partita se la giocano Sala e Parisi, centrosinistra e centrodestra, e i Cinquestelle ottengono percentuali tutto sommato modeste. Del candidato, Gianluca Corrado, si conserverà traccia solo in qualche almanacco di figurine.
Guardiamo altrove. Nel centrodestra, Roma è stato l’epicentro di tutti i conflitti, il caso più eclatante. Da una parte un elettorato di centrodestra moderato, con Alfio Marchini; da un’altra parte un elettorato di destra populista, con Giorgia Meloni (e Salvini a supporto). Conseguenza: la destra è con ogni probabilità fuori dalla partita finale, quella del ballottaggio. E la lista di Forza Italia, che ha prima provato a puntare su Bertolaso per poi accodarsi a Marchini fra mille polemiche tocca il suo minimo storico, con percentuali dai quali è dubbio che possa in futuro riprendersi.
Nel centrosinistra, l’impresa più difficile è stata Napoli. A Napoli le primarie hanno decretato un vincitore, Valeria Valente, che Antonio Bassolino, il perdente, ha a lungo mostrato di non riconoscere: impugnando il risultato, chiedendo di rivotare, contestando poi puntualmente tutte le scelte compiute nel corso della campagna elettorale. Risultato: la lista del partito democratico rimane ferma, grosso modo, alle percentuali ottenute cinque anni fa col prefetto Morcone, dopo la debàcle dell’annullamento delle primarie, e al momento gli exit poll danno la Valente terza, e dunque fuori del ballottaggio.
Conclusione: gli elettori non si turano più il naso. Essendo venuto meno il sentimento forte di un’appartenenza ideologica o di partito, non hanno più motivo di farlo. Una proposta politica diviene quindi inevitabilmente più convincente, quando è rappresentata con chiarezza dal candidato prescelto, mentre divengono sempre meno comprensibili i disaccordi e i contrasti interni: non essendo più riconoscibili divisioni di carattere ideologico, culturale o programmatico, non resta che la lotta di potere e l’ambizione personale. Che in genere l’elettore non apprezza.
C’entra anche la personalizzazione della politica? Sicuramente. Tanto più in una competizione come quella municipale, con l’elezione diretta, dove quindi imbroccare il candidato giusto può fare la differenza. E anche in questo caso, ciò è vero a destra come a sinistra, così come dalle parti dei grillini. Vale cioè per Parisi a Milano, che porta il centrodestra molto più in alto che altrove, ma anche per la Appendino a Torino, che rimane in partita nonostante il credito di cui godeva Fassino alla vigilia. Vale infine pure per Giachetti a Roma, che ha permesso al Pd di superare lo sbandamento seguito alle dimissioni di Marino e alla fine traumatica della consiliatura, e probabilmente di rimanere in partita.
C’entra dunque il fattore personale. Ma pesa pure l’esiguità di quelli che erano una volta gli «interna corporis» dei partiti. Che quasi non esistono più. E che comunque non riescono più a tener dentro un bel nulla. Ed ecco allora l’ultimo risultato: la legittima, e insopprimibile, lotta politica si riversa nei canali artificiali di una sorta di circolazione extra-corporea, cioè su media, rete e giornali, e là fuori di legittimità ne conquista sempre meno. L’elettore sente tutti i miasmi che si sollevano e siccome il naso non se lo tura più, vota da un’altra parte o, più spesso, si astiene.
(Il Mattino, 6 giugno 2016)