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Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013

Destra e sinistra esistono, spaesato chi voleva andar ‘oltre’

N el paese nel quale non esistono la dwestra o la sinistra, o perlomeno: nel paese in cui per anni si è provato a difendere l’idea che destra o sinistra non esistono, e cioè nel nostro paese,  la sentenza con la quale il tribunale di Roma ha chiesto alla Fiat di assumere a Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom viene commentata così: «Siamo un Paese dove può succedere di tutto, compreso il fatto che il potere giudiziario possa imporre un imponibile di manodopera ideologizzata». Non so se è chiaro: la Fiat esclude sistematicamente i lavoratori iscritti a un sindacato, e quando un giudice fa notare la cosa, Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare, riesce a dire che è tutto il contrario, è il potere giudiziario (non il tribunale, un giudice, la magistratura, no: il potere giudiziario) ad infiltrare la fabbrica con operai comunisti.

Tuttavia, non esistendo la destra e la sinistra, visto che il campo politico è permanentemente in corso di ristrutturazione e intanto abbondano leader nuovi e opinion maker vecchi che si spacciano per nuovi, insomma gente per la quale queste categorie sono obsolete,

suonano insopportabilmente novecentesche, e soprattutto frenano lo sviluppo del Paese, le parole dell’ex ministro restano lì, tra il paradosso e la boutade, e non possono essere classificate come meritano.

In questo stesso Paese né di destra né di sinistra, nel quale la parola libertà viene declinata anzitutto come libertà dal fisco e dalla giustizia non come libertà politica o libertà civile capita anche che si possa progettare la costruzione di un nuovo rassemblement politico al grido di liberazione dall’euro (o se proprio non ci si può liberare dall’euro, che ci si liberi almeno dai tedeschi). Dal momento che non sono più disponibili le categorie di destra e di sinistra, non si sa più bene come prendere neppure queste manifestazioni di prorompente orgoglio patriottico. Poi però viene in soccorso Francesco Storace uno che incomprensibilmente non rinuncia a chiamare La Destra il suo movimento il quale giustamente rivendica la primogenitura dell’idea. Lui per la verità dice di più: questa storia della moneta unica non funziona, una moneta è poco, ce ne vogliono almeno due, lira e euro insieme a circolare, e soprattutto: non paghiamo i debiti alle banche straniere. È evidente che manca solo lo slogan per convertire questa politica in una nuova, travolgente battaglia autarchica e allora sì che si capirebbe in che Paese siamo, o rischiamo di finire.

Ma diciamo la verità: oltre la destra e la sinistra non ha provato ad andarci solo il nostro Paese. Di nostro ci mettiamo quel mix di fantasia e cialtronaggine che non ci facciamo mancare mai: ci mettiamo Sacconi e Berlusconi, oppure i processi di piazza evocati da Grillo o gli editoriali de Il Giornale che per criticare Balotelli se la prendono col multiculturalismo: cose così. Ma sta il fatto che il 1994 non è solo l’anno in cui il Cavaliere vince le elezioni, è anche l’anno in cui in Inghilterra si pubblica Beyond Left and Right, “Oltre la destra e la sinistra”, del teorico della Terza via, Anthony Giddens, il guru di Blair. Questo libro non mi sarebbe ricapitato tra le mani se l’editore non avesse deciso di ripubblicarlo lo scorso anno, con prefazione di Michele Salvati. Il quale Salvati, nel dare conto di argomenti, limiti e meriti del libro, fa la seguente osservazione critica: Giddens tratta la globalizzazione come una variabile indipendente del suo ragionamento, oggettiva, naturale, inevitabile. E invece «questi fenomeni hanno madri e padri, Margaret Tatcher e Ronald Reagan, e le cose potevano andare diversamente se non avessero prevalso le idee di cui quei leader politici erano portatori». Giusto, ben detto. Ma come si fa allora a dire che bisogna andare oltre la destra e la sinistra?

Non basta. Giddens scriveva nel ’94, rileva Salvati, e dunque «non gli si può far colpa di non aver previsto la grande crisi di questi ultimi anni». E qui no, non ci siamo proprio: né con Giddens, né con Salvati. Perché neanche la crisi è imprevedibile, naturale e inevitabile. Pure la crisi ha madri e padri, e variabili assunte come indipendenti e idee che ci hanno portato sin qui. E forse, se non fossimo andati troppo oltre con questa storia della destra e della sinistra che non ci sono più, ce ne saremmo accorti prima di una nuova edizione del libro di Giddens.

L’Unità 24 giugno 2012