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I buoni, i cattivi e l’umiltà della giustizia

Rothko Antigone 1941

M. Rothko, Antigone (1941)

La descrizione della realtà criminale campana, offerta dal procuratore capo Gianni Melillo nella sua prima uscita pubblica, è assolutamente realistica: la camorra non è un fatto puramente criminale, privo di addentellati con la realtà circostante. La «cantilenante e rassicurante narrazione» che la riduce a mera devianza è ben lungi dal cogliere i fenomeni nella loro natura reale. Ben lungi anche dal descrivere la dimensione dei blocchi sociali che si coagulano intorno ad attività criminali. Questi blocchi – ha spiegato Melillo – assumono sempre più una forma reticolare che coinvolge soggetti, forze, strutture fra loro anche molto distanti, e che possono persino ignorarsi, ma che tuttavia si trovano ad essere collegate da una medesima, robusta trama di interessi.

Se questa analisi è corretta, è evidente la difficoltà a indicare dove finisce l’economia legale e dove comincia invece l’economia illegale, a stabilire fin dove la rete delle imprese o delle professioni, o degli stessi poteri pubblici locali, si mantiene al riparo dall’influenza camorristica. L’attuale complessità dell’organizzazione sociale ed economica sembra portare piuttosto una realtà a stingersi nell’altra, il lecito a confondersi con l’illecito, soprattutto in determinati contesti – come quello campano – caratterizzati da una presenza radicata della delinquenza organizzata, che permea di sé ampi settori della società.

In un quadro così problematico e sfuggente, lo Stato non può certo rinunciare all’azione repressiva: deve anzi aggiornare sempre meglio i suoi strumenti per stare al passo con l’evoluzione dei fenomeni criminosi. Ma è evidente che quanto più si riconosce l’incidenza sociale delle mafie, tanto più si riconosce l’insufficienza di una risposta puramente penale. Non si raddrizza una società con i soli strumenti del diritto penale, insomma, per quanto ampi possano essere i successi riportati nella lotta alla criminalità organizzata. Lo ha ricordato indirettamente lo stesso procuratore: negli ultimi venticinque anni sono stati conseguiti risultati straordinari, ha detto, ma questo non vuol dire affatto che ci siamo liberati dalla camorra. Ovviamente non vuol dire nemmeno che la camorra, come la mafia, non possa essere vinta. Ma la storia dell’Italia mafiosa è intrecciata con la storia economica, sociale e politica del Paese di maniera tale che è nelle linee del suo sviluppo, nell’evoluzione della società, nella sua crescita civile e culturale che va individuato il terreno ultimo sul quale quella lotta va condotta. È accettabile allora che l’ordinamento penale venga sovraccaricato di aspettative improprie, per arrivare là dove non può arrivare, senza stravolgere il sistema di garanzie che dovrebbe costituirne l’anima?  No, non è accettabile. Non è questo un patto che si possa stringere: cedere un po’ sul terreno dei principi dello Stato di diritto, per avere più vigore e forza di penetrazione sul piano dell’azione di contrasto. Al contrario, la vicenda recentissima dell’approvazione delle modifiche al codice antimafia ha purtroppo avuto proprio questo segno, con un’abnorme inflazione di misure preventive, mai così estese nella storia della Repubblica. Indagini come quella di Appaltopoli dimostrano invece un’altra grave stortura dell’attuale sistema: le risultanze investigative danno quel che possono dare, compreso il clamore che suscitano, nella fase preliminare, dopodiché però svaporano nel processo, ridotto quasi ad un’appendice secondaria. La foga di criminalizzare quelle zone grigie della società in cui si annidano collusioni, connivenze e complicità non viene trattenuta entro le regole del diritto, ma sostenuta e anzi surriscaldata dall’indiscutibile esigenza morale di fare giustizia. La distorsione si misura facilmente da ciò, che quando l’indagine viene archiviata o l’imputato assolto, l’opinione pubblica (e qualche infallibile magistrato), pensa non che sia innocente, ma che semplicemente l’ha fatta franca. Il marchio di colpevolezza, così, lo raggiunge comunque: invece di condanne effettive, che non si riescono a comminare, gli si affibbia almeno una condanna morale, per giunta di grande effetto mediatico.

Forte di una esperienza pluridecennale, sia nelle indagini di criminalità organizzata che come cabo gabinetto al ministero della giustizia, tutte queste cose Melillo le sa, le ha viste e le ha conosciute. Ma non tutto il sistema della giustizia, e non tutti gli uffici della procura napoletana le tengono sempre presenti. Nel suo capolavoro, «Viaggio al termine della notte», Céline scriveva: «non sarebbe tanto male, se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi». Qualcosa c’è, in realtà, ed è il diritto, anche se non arriva a rispondere agli interrogativi metafisici posti lungo quel viaggio. Ma è al diritto che affidiamo la distinzione che separa se non proprio i buoni dai cattivi, almeno il lecito dall’illecito. Solo che, per non correre il rischio di spingere un buono tra i cattivi, accettiamo (o dovremmo accettare) che a volte un cattivo rimanga nella compagnia dei buoni. È inefficienza? Certo, ma è anche la misura giuridica che assicura agli individui, e protegge, la loro libertà.

(Il Mattino, 8 ottobre 2017)

Eclisse di Stato: l’unico orizzonte è giudiziario

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In tempi di avvilimento pubblico è impossibile ogni forma di grandezza: è un pensiero di Antonio Gramsci che vale bene per l’epoca nostra, la cui narrazione è più avvilente che mai. L’almanacco quotidiano delle inchieste reca, alla data di oggi: la condanna a sette anni e sei mesi per estorsione, inflitta a Nicola Cosentino, ex sottosegretario al Tesoro e uomo forte del centrodestra in Campania; 69 arresti, tra cui alcuni eccellenti, per appalti truccati, e reati che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta. Il Gip che firma l’ordinanza parla della punta di un iceberg. In quella punta sono addossati l’uno all’altro politici e professionisti, tecnici e imprenditori. Completano la giornata le perquisizioni a Palazzo di Giustizia, nell’ambito dell’inchiesta sull’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e il voto sulla sfiducia (respinta) al ministro Luca Lotti, sempre sul caso Consip. Perfino le pagine sportive avviliscono, con i dirigenti della Juventus convocati dalla Commissione parlamentare Antimafia.

Ebbene, che Paese è questo, che si può raccontare solo in termini di inchieste, scandali, tangenti? Non voglio fare il solito discorso sul garantismo e sul giustizialismo: in questione non è se siano tutti innocenti o tutti colpevoli, ma la domanda su quel che resta della vita pubblica di un Paese quando tutto finisce in coda alla montagna di carte che si riversa sui giornali, le redazioni, i notiziari televisivi. Persino il voto di ieri del Senato sulla riforma del processo penale (che contiene anche inasprimenti di pena a gran voce richiesti su reati come furti e rapine, e la delega al governo su intercettazioni e ordinamento penitenziario) passa non in secondo, ma in terzo o quarto piano, vista la quantità di notizie fornita dalle cronache giudiziarie. E la stessa sorte tocca alla politica estera, col voto in Olanda, alle notizie economiche, col referendum sui voucher, all’udienza del Papa, con le forti parole di solidarietà ai lavoratori licenziati. Tutte notizie relegate nei tagli bassi, solo dopo avere traversato sani e salvi la burrasca dell’attività inquirente.

A suo tempo, Gramsci diceva che i grandi giornali redigono la cronaca giudiziaria secondo gli schemi e le attrattive del romanzo d’appendice. I lettori, evidentemente, si appassionano. Ma quali altre passioni civili e politiche restano, quando non vi sono altre carte da leggere, quando sfogliare un giornale significa leggere le migliaia di pagine che accompagnano le ordinanze di custodia cautelare?

Di nuovo: il punto non è se i quotidiani facciano bene o male, e neppure se non debba essere denunciato il solito circuito mediatico-giudiziario: queste riflessioni le abbiamo già proposte molte altre volte, e sono comunque impari rispetto alla mole delle inchieste in corso. Lasciamo pur dire che non bisogna prendersela con chi racconta i fatti, ma con chi li commette. Resta però il dato che il fiume in piena della giudiziaria travolge ogni altra possibilità di discorso pubblico, e rende consunte e inservibili tutte le categorie con le quali si pensava di poter leggere il mondo.

Sempre Gramsci: «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura». Gramsci continuava spiegando che no, non si tratta di uno scherzo, ma oggi: come potremmo noi continuare? È più facile, molto più facile, che qualcuno scriva sul suo blog che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come collusi o inquisiti, e che, pur essendo un comico di professione, aggiunga che non si tratta affatto di uno scherzo o di una caricatura, ma del discorso ormai egemone nella società.

Così è. Il populismo imperante si nutre di questa opinione diffusa, di questo luogo comune – alla lettera: è il luogo nel quale tutti siamo – di questa maligna intelligenza delle cose e della realtà. E fornisce la chiave d’interpretazione presso che esclusiva degli eventi politici, economici o sociali: perché il declino dell’Italia? Perché i politici rubano. Perché la Juventus vince lo scudetto? Perché la Juventus ruba. Perché non c’è lavoro? Perché gli immigrati ce lo rubano. Ruberanno pure tutti quanti, ma purtroppo non basta affatto arrestare, espellere o squalificare tutti, per avere la crescita, il lavoro o lo scudetto.

Quello che invece si ottiene, è un drammatico impoverimento dello spazio pubblico, e l’eclisse di ogni idea di grandezza associata alla vita dello Stato, alla politica e alle istituzioni. Proprio come diceva Gramsci. Che in fondo variava, in una prospettiva storica, una vecchia frase, ripreso in tanta letteratura moderna, da Montaigne a Hegel: che nessuno è eroe agli occhi del proprio cameriere. L’adagio non contiene la sdegnata protesta aristocratica nei confronti del punto di vista basso e volgare del popolino. Né è la «casta» degli eroi che si lamenta perché i camerieri origliano, intercettano e diffondono. Quel che è in gioco, è se mai la necessità di non perdere del tutto la memoria della grandezza che la politica ha mantenuto per tutto il Novecento. E che, se non fornisce eroi, procura almeno il senso dei compiti ai quali si è chiamati quando la storia del mondo si rimette in moto, come sta prepotentemente accadendo in questi anni. Proprio mentre l’Italia, consumata nel suo spirito pubblico, scivola purtroppo sempre più ai margini.

(Il Mattino, 16 marzo 2017)

La misura della verità

Acquisizione a schermo intero 09022016 205923.bmpChi vede il corpo di un ragazzo torturato e ucciso avverte non solo il dolore enorme e lo strazio, ma anche un’altra esigenza lancinante: vuole verità. Verità: costi quel che costi. Dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, che reca i segni delle violenze subite, le autorità italiane chiedono in queste ore che sia fatta piena luce sull’assassinio, e usano parole ferme e nette. Ma sanno anche quali profonde relazioni l’Occidente, e l’Italia in particolare, intrattiene con l’Egitto del generale Al-Sisi. Relazioni economiche, politiche, geostrategiche. Perciò è difficile sottrarsi alla domanda più scomoda, la più scabrosa: quanta verità siamo in grado di sopportare? Vogliamo davvero tutta la verità, e soltanto la verità? Non siamo disposti a scendere a patti con nessuno: non per  il petrolio egiziano né per la pace a Tripoli?

No, non siamo disposti. E non c’è motivo di avere dubbi delle parole di nessuno. Ma la verità non è solo affare di parole. La verità non è una pellicola adesiva trasparente che si attacca o si stacca con facilità dalle nostre proposizioni, come il retro delle figurine dall’album delicato dei nostri pensieri. No: è molto di più. La verità si conficca e penetra nella carne degli uomini, nella forma della società, nella vita delle istituzioni. La verità, come del resto l’errore.

Quanto era vero, allora, che con la primavera araba anche l’altra sponda del Mediterraneo avrebbe finalmente conosciuto la democrazia? Quanto abbiamo creduto e fatto nostra quella storia? Abbiamo pensato che una folata di vento avrebbe fatto cadere uno dopo l’altro tutti i regimi autocratici, come un fragile castello  di carte. Ben presto, però, all’entusiasmo è seguita la delusione, quando sono tornati i militari, quando gli squarci di democrazia aperti dalle persone che a centinaia di migliaia occuparono piazza Tahrir, al Cairo, si sono purtroppo richiusi. È stato dunque un errore, ma non è vero che un errore, una volta corretto, non lascia alcuna traccia. Di tracce ne lascia, invece: nella difficoltà di riorientare giudizi e politiche. Di prendere le misure al nuovo potere che ha stabilizzato l’Egitto e di cui l’Occidente, dopo la sbandata di cinque anni fa e nel disordine in cui versa tutta l’area, non può fare a meno.

C’è Occidente, del resto, perché c’è un Oriente: volenti o nolenti, raccontando che cosa sono i musulmani, che cosa sono i palestinesi o che cos’è il Medioriente noi raccontiamo noi stessi. Cinque anni fa la solida e cinica realpolitik che ci permetteva di tenere come alleato Mubarak senza farci troppe domande sui suoi metodi è franata. In maniera certo precipitosa, inaspettata, affrettata: però è franata. Le cose non sono andate come speravamo, col risultato che una politica netta e chiara per quella regione del mondo non ce l’abbiamo più. O almeno: la dose di verità che siamo in grado di sopportare non è più lo stessa. A torto o a ragione. Non si torna mai al punto di prima. Non ci si scrolla mai veramente di dosso gli errori e le verità per le quali passiamo.

Così oggi nulla in apparenza è cambiato rispetto a qualche anno fa, e come sinceri democratici chiediamo tutta la verità. Sta infatti qui il discrimine fra regimi autocratici come quello di Al-Sisi e regimi democratici come il nostro. Solo i primi hanno la polizia non soltanto per proteggere, ma anche per spaventare. Solo i primi hanno assoluto bisogno di quei coni d’ombra, di quelle strade buie, di quegli scantinati deserti in cui poter sequestrare un uomo, un ficcanaso, un testimone scomodo o semplicemente uno che è capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sequestrarlo, e picchiarlo. Sequestrarlo, e torturarlo. Fino alla morte. E nel frattempo predisporre e dare alla luce la versione ufficiale, col mandato di occupare il più a lungo possibile la scena.

L’ambasciator italiano che ha raccontato le ore angosciose del ritrovamento, la visita all’obitorio, i gelidi colloqui con le autorità egiziane, non ha dato mostra di volersi accontentare, anzi. Con grande determinazione, e senza nemmeno usare modi troppo felpati, ha rappresentato lo sconcerto dell’Italia per l’assassinio di un nostro connazionale che ha tutte le sembianze di un delitto commissionato per motivi politici.

Ma la politica ha le sue ragioni che a volte la buona fede dell’opinione pubblica democratica non è detto sia forte abbastanza  per volerle conoscere, e magari cambiare. Sa allora chinarsi sui suoi morti, secondo la misura della verità che la pietà umana richiede, ma non più trarre da una morte orribile una qualche verità che guidi anche la sua politica. Non si usano i morti, si dice, ma non è vero: altrimenti non vi sarebbero tutti i monumenti che vediamo. Ma usarli è difficile, è la cosa più difficile del mondo. Piangerli è più facile, ci vuole meno forza e meno verità.

(Il Mattino, 07 febbraio 2016)

Enzo Tortora

Kafka

Pensavamo che il caso Tortora fosse ormai chiuso: su responsabilità o colpe, omissioni o negligenze si può discutere , ma non sul fatto che si trattò di errore giudiziario. Più o meno clamoroso, più o meno grave, più o meno inammissibile, ma errore fu. E invece no. Invece Lucio Di Pietro, uno degli accusatori di allora, ha pensato bene di riaprirlo. Intervistato da questo giornale, il sostituto procuratore che, insieme a Felice Di Persia, mise le manette a Enzo Tortora, ha spiegato che non si trattò affatto di un errore, se per errore si intende una cantonata, un passo falso, uno sbaglio. Frutto anche solo di distrazione, di disattenzione, di sciatteria. Nulla del genere, nulla di tutto questo: «con gli elementi a nostra disposizione, non potevamo fare altrimenti», dice oggi sicuro e tetragono Di Pietro, e prosegue sciorinando i meriti di un’istruttoria che si concluse con la bellezza di 434 condanne definitive. Non solo: «molti degli assolti furono poi uccisi», il che probabilmente significa per lui che vanno considerati senz’altro colpevoli anche loro. Infine, l’istruttoria, e quel che ne seguì, ebbe pure il non piccolo merito di consentire alla giustizia italiana di familiarizzare con i nuovi strumenti introdotti per fronteggiare il crimine organizzato: la gestione dei pentiti, la contestazione del  416 bis sull’associazione mafiosa. Se non ci fossero di mezzo degli innocenti sbattuti in galera, quasi si dovrebbe dire: chapeau!

Nell’intervista, al riguardo, non c’è altro: non una parola sui molti che furono assolti, e che non usarono agli inquirenti la cortesia di confermare l’impianto accusatorio facendosi in seguito ammazzare. Non un dubbio sul «concorso a premi» per i pentiti – così lo definì lucidamente Tortora: chi fa il nome del presentatore famoso porta a casa sconti di pena e trattamenti di riguardo, e a farlo furono addirittura in quindici, spalleggiandosi l’un l’altro –. Nessuna considerazione, neanche di circostanza, per la famiglia di Tortora, o per le figlie. Nessuna parola di stima o di rispetto, neanche postuma, per l’uomo la cui vita fu distrutta da quell’indagine. E nessuna parola di scusa: d’altra parte, chi mai chiederebbe scusa per un errore che non ha commesso? Infine, nessuna considerazione di diritto, che getti sul lavoro condotto allora in Procura una luce diversa dai numeri. I quali numeri, poi, il dottor Di Pietro non ricorda interamente: le condanne furono 434, ma gli ordini di cattura furono la bellezza di 856 (e gli errori di persona qualche centinaio). Numeri da copertina, numeri da prima pagina. Che però, all’esito del processo, dicono: per ogni condanna un’assoluzione, o quasi; per ogni colpevole un non colpevole. Certo, Di Pietro chiede che si faccia la tara dei morti ammazzati. E di nuovo: il diritto evidentemente non c’entra e non gli interessa, il metodo e il merito del procedimento e delle contestazioni elevate non rilevano, la sentenza di colpevolezza è semplicemente fatta uguale all’ammazzamento.

È da credere, comunque, che per tutti loro, per tutti quelli che furono scarcerati, Lucio Di Pietro pensa ancora oggi che non c’era da far altro che privarli della libertà: gli elementi a disposizione c’erano tutti, e l’arresto era obbligatorio. Forse il magistrato non si rende conto che, per assolvere se stesso, firma in questo modo il più duro atto d’accusa nei confronti della giustizia italiana: che giustizia è infatti una giustizia che per acchiappare un colpevole deve obbligatoriamente  arrestare almeno un innocente? Quale anima nobile, lette queste valutazioni, può ancora pensare che è segno di civiltà giuridica che mille colpevoli stiano fuori purché un innocente non finisca dentro? Chi oserà sostenere ancora che il diritto non dovrebbe recare traccia di quella logica del capro espiatorio dal cui fondo ancestrale pretende con fatica di staccarsi? La politica può forse – con molte prudenze, in circostanze particolari, e con un senso tragico delle proprie responsabilità – piegare alle proprie più dure ragioni i diritti dei singoli. Per farlo, l’esistenza stessa di un ordinamento reale, la sicurezza di un popolo o la vita dello Stato deve essere in gioco. Ma nessuna considerazione realistica, o strumentale, o meramente quantitativa come quella che porta Di Pietro nell’intervista può invece intervenire in tribunale, pesare su un atto giudiziario, gravare su una sentenza. È perciò un vero e proprio obbrobrio dire che per sgominare la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo bisognava che Tortora e gli altri ci andassero di mezzo. Eppure il magistrato, a distanza di trenta e passa anni da quei fatti ragiona ancora così. Tortora doveva andare in carcere, non poteva non andarci. E ovviamente Lucio Di Pietro non subire il minimo contraccolpo professionale, anzi: fare carriera. Chi dei due sia andato in verità verso una miglior sorte, solo un dio può saperlo. Così almeno disse un filosofo greco dinanzi a dei giudici, tanto tempo fa. Era Socrate, e credeva nella giustizia molto più dei suoi giudici, e dei suoi accusatori.

(Il Mattino, 31 dicembre 2015)

I fatti gravi e le parole da pesare

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Un’inchiesta come quella della Dia di Napoli sulla gestione dell’azienda ospedaliera di Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, che ha portato in carcere o agli arresti domiciliari decine di persone, offre uno spaccato davvero inquietante del livello di penetrazione camorristica raggiunto in alcune aree della nostra regione, e non può non destare la massima preoccupazione nell’opinione pubblica, che giustamente si interroga non solo sulla ben nota pericolosità delle organizzazione criminali, ma anche sulle conseguenze di più ampia portata di una così profondo inquinamento politico e sociale. Tutti i rapporti su cui si basa un’ordinata convivenza civile – quelli di mercato, quelli politico-elettorali, quelli che legano il cittadino allo Stato e all’amministrazione pubblica – sono infatti gravemente alterati e corrotti, se la camorra riesce a controllare così pervasivamente appalti e affidamenti di lavori all’interno di una struttura pubblica.

A dirlo è lo stesso gip  Giuliana Tagliatela nella sua ordinanza, che descrive il sistema proprio in questi termini, per abbandonarsi poi a questa indignata considerazione: «Chi paga? Il cittadino della Campania, che paga le tasse, foraggia il politico che fa clientela, il camorrista che si arricchisce e l’imprenditore che droga la concorrenza. Salta il mercato dell’economia, salta la libera determinazione dell’elettore, salta il rapporto fra lo Stato e la criminalità organizzata. Salta la democrazia, al Sud più che altrove». La citazione è lunga ma andava riportata per esteso, non solo per l’efficacia della domanda retorica e per lo sfogo che ad essa si accompagna, ma perché figura senz’altro meglio in un fondo di giornale piuttosto che in un’ordinanza cautelare. E però – sia consentito dirlo – è in quest’ultima che la si legge: dunque nell’atto di un giudice, che accogliendo l’impostazione dei pm, autorizza mandati di arresto.

Ora, lungi da me il voler confondere la pagliuzza con la trave, anche se molte pagliuzze rischiano di ingolfare qualunque macchina, figuriamoci quella così delicata della giustizia. Ma sta il fatto che l’inchiesta «Croce nera» della Dia di Napoli ha certo consentito meritoriamente di scoperchiare la pentola di malaffare e corruttela in cui il clan Zagaria teneva la vita amministrativa ed economica dell’ospedale, ma ha lambito, lambito appena, alcuni di quei rapporti di cui parla il Gip nella sua ordinanza. Si dovrà indagare ancora: sicuramente e con la massima determinazione. Ma, allo stato, i personaggi che sono coinvolti non appartengono affatto alla politica che conta. O almeno: non sono coinvolti dal punto di vista penale, che è però il solo punto di vista che conta in un atto come quello firmato dal Gip. I nomi grossi – quelli che consentono ai giornali di fare i titoli – non ci sono. O per meglio dire: ci sono, ma intervengono solo nella descrizione letteraria del sistema, non in relazione a fattispecie precise per le quali siano stati raggiunti da provvedimenti della magistratura. Non è una distinzione di grana troppo sottile: eppure viene bellamente saltata. Capita così che il procuratore Colangelo debba precisare alla stampa che la tal intercettazione, in cui compare il tale nome, che magari il Gip riprende nella sua ordinanza, non contiene in verità notizie di rilievo penale, e che al suo aggiunto, Giuseppe Borrelli, venga perciò fatto di osservare che, tuttavia, ha un rilievo giornalistico, e che per questo viene messa a disposizione della stampa.

Melius abundare. Diciamolo allora un’altra volta: la gravità delle connivenze all’ombra delle quali imprenditori, clan, funzionari pubblici e notabili locali si spartivano affari è tale, da suscitare legittimamente il più grande allarme. E la politica ha sicuramente enormi responsabilità: responsabilità politiche, appunto. Ma proprio per ciò, e proprio perché l’impianto accusatorio mostra sicuramente una notevole robustezza, è lecito chiedersi perché spingersi anche più in là, dove l’inchiesta non soccorre con pari robustezza il giudizio politico o morale, e dove anzi questo non avrebbe titolo per comparire: forse perché la notizia giornalistica è la prosecuzione della notizia penale con altri mezzi? I politici, che a detta del Gip «orchestrano, nominano, revocano, danno direttive e tutto sovraintendono», compiono reati, così orchestrando nominando e revocando? Se sì, tocca alla magistratura perseguirli senza sconti. Se no, tocca all’opinione pubblica discuterne e far conoscere, e tocca poi all’elettorato giudicare ed eventualmente sanzionare. Ma senza commistione di ruoli, senza sovrapposizione di ambiti. Senza infilare qua e là questa o quella pagliuzza. Senza, insomma, che si inneschi un’altra volta il circo mediatico-giudiziario in cui inchieste e processi diventano parti di un rituale sociale, non potendosi svolgere dentro le aule giudiziarie.

(Il Mattino, 22 gennaio 2015)

Prescrizioni

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«Per colpa di un accento/ un tale di Santhià/ credeva d’essere alla meta/ ed era appena a metà». Ma magari fosse arrivato almeno a metà! Non quel tale della poesia di Gianni Rodari, dico, ma il processo sui rifiuti, su cui ieri è stata messa una pietra tombale. Nessuno in verità si era illuso che sarebbe arrivato alla meta: già lo scorso anno era a tutti chiaro che le udienze sarebbero continuate, il dibattimento sarebbe proseguito, ma – altro che metà! – il processo non sarebbe arrivato nemmeno alla sentenza di primo grado.

E così è stato. E però, ora che la prescrizione è intervenuta, non si può non rimanere amareggiati e indignati. Anche perché non si trattava certo di un processo qualunque (come se poi, per le parti in causa, i processi potessero mai essere processi qualunque), bensì di un giudizio portato sulla vicenda che più ha influito sulla vita pubblica della Regione Campania, e di riflesso persino sulla vita nazionale: trovarsi ora dinanzi non ad un verdetto, ma ad una prescrizione, appare come la riprova, l’ennesima, del fallimento clamoroso della giustizia nel nostro Paese.

Perciò, se anche disporremo in un’unica filastrocca e diremo tutto d’un fiato che Roma è stata la culla del diritto e l’Italia la patria della prima scuola giuridica al mondo ed è stata ed è ancora il paese degli Azzeccagarbugli ma è pur sempre il paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria – ecco: quand’anche volessimo provare a consolarci così, non avremo attenuato di una virgola lo scandalo per vicende processuali di enorme significato politico che finiscono, però, nel nulla. Tra soldi spesi inutilmente, tempo ed energie sprecate e, inevitabilmente, diritti calpestati.

Non senza però che si producano effetti. Non effetti di giustizia, ma effetti politici e mediatici che della giustizia non conservano neanche l’ombra. Le parole che sono state pronunciate ieri in aula dall’accusa, circa le gravi responsabilità della struttura commissariale negli anni in cui fu guidata da Antonio Bassolino, benché non approdino a nulla e non siano recepite (né peraltro respinte) in una sentenza, non cadono infatti nel vuoto, ma finiscono sui taccuini dei cronisti, e rimbalzano nei servizi televisivi. È il sacrosanto principio della pubblicità del processo (in questo caso, peraltro, assicurato con molta fatica): guai a toccarlo. Ma esso si traduce, di fatto, nella seguente maniera: siccome i processi non si riescono più a chiudere, siccome non terminano più dove dovrebbero, cioè nelle aule, vediamo allora di pronunciare sonore requisitorie a beneficio, almeno, dell’opinione pubblica. Così però non è un beneficio, bensì un maleficio, un avvelenamento del dibattito pubblico. La penalizzazione diviene infatti una stigmatizzazione mediatica, in mancanza di meglio. Il processo non ha più come possibile esito la pena, ma costituisce esso stesso la pena. E la prescrizione, che un altro elementare principio di civiltà giuridica richiede a tutela degli imputati, perché nessuno può essere sottoposto a processo vita natural durante, diviene invece orrendo motivo di biasimo per chi ne fruisce. Ancora un sacrosanto principio rovesciato: se io devo rinunciare alla prescrizione per dimostrare la mia innocenza – altrimenti è come se ammettessi implicitamente di essere un farabutto -, vuol dire che non si tratta più di dimostrare, a processo, la colpevolezza, come il diritto invece richiede.

Ma quale vita economica, quale vita politica, quale vita civile può fiorire in simili condizioni? Con la prescrizione di ieri, è come se la materia del processo percolasse un’altra volta, e questa volta non nel martoriato territorio campano, ma direttamente nel tessuto sociale del paese.

«Il mondo sarebbe bellissimo, se ci fossero solo i bambini a sbagliare», annotava Rodari nel suo libro degli errori. Ma non si illudeva: sapeva ben che non basta correggere i dettati, gli accenti o le doppie: bisognerebbe correggere il mondo. Solo che dei luoghi a ciò deputati da noi non ce n’è uno che funzioni, e quelli che si ergono a correttori del mondo parlano ormai da altre, più comode tribune, dove non si perde tempo con notifiche, collegi e terze parti. Meglio allora sorridere di quel tale di Santhià, o di quell’altro che voleva correggere addirittura la Torre di Pisa, perché altri motivi di sorridere, purtroppo, dopo l’udienza di ieri non ce ne sono.

Il Mattino, 11 giugno 2013

L’alleanza al tempo dei partiti deboli

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«Domani si vedrà!», ha detto ieri Felice Casson (Pd) in versione Rossella O’Hara. Ma quel che si è visto finora non offre i migliori presagi: Nitto Palma, che doveva andare alla guida della Commissione Giustizia del Senato, non è passato. Per due volte. E tutto sembra tornare in discussione, perché qualora non passasse nemmeno oggi, alla terza votazione, è chiaro che il Pdl non starebbe a guardare. E le ripercussioni potrebbe lambire anche Palazzo Chigi. Né d’altra parte si può pensare che un partito, impegnato in un governo di larghe intese, che dunque deve necessariamente collaborare per assicurare una tranquilla navigazione parlamentare al governo, stringa accordi formali tramite i suoi capigruppo, lasciando che però i componenti del gruppo li disattendano alla prima occasione. Questo, infatti,  è quel che è accaduto: i capigruppo Pd Zanda e Speranza hanno concluso con i loro omologhi del Pdl un patto, che i senatori del Pd si sono dati subito la pena di non osservare .

Ora, dalle parti del Pd si spiegherà perché il nome di Nitto Palma, già commissario del Pdl in Campania, amico dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino (ora agli arresti) non andasse bene. Ma non è questo il punto. Il punto è se, in generale, dopo che si è fatto un governo, qualcuno non si debba prendere la briga di rifare i partiti, e cioè di dare loro un’ossatura, una spina dorsale, una conduzione sufficientemente univoca. Innanzitutto per il bene del partito medesimo, che non può recitare a soggetto ad ogni votazione; poi per il buon funzionamento delle istituzioni parlamentari, i cui regolamenti poggiano sulle attività di gruppo, prima che sull’interpretazione solista affidata ai singoli parlamentari; infine per il governo medesimo, che deve poter contare su una maggioranza minimamente affidabile.

Allo stato, non sembra che queste condizioni si siano ancora realizzate. Al Pd evidentemente non è bastata l’esperienza fatta con Monti, quando Bersani ripeteva che non era quello il governo che voleva, salvo però appoggiarlo: nelle urne, questa schizofrenia non è stata premiata. Tantomeno lo sarebbe oggi, che a capo del governo c’è Letta, cioè il vicesegretario del Pd.

Ma forse bisognerà attendere l’Assemblea Nazionale di sabato prossimo, quando sarà eletto un nuovo segretario, dopo le dimissioni di Bersani. Già sembra però che si vada verso soluzioni transitorie, provvisorie, che lascerebbero di fatto la deputazione parlamentare libera di regolarsi secondo le circostanze. Il Pd non avrà bisogno di un Grande Timoniere, ma neppure gli può bastare un semplice traghettatore. Accade infatti come nelle squadre di calcio: quando i giocatori sanno che l’allenatore che li guida non è lo stesso che sarà in panchina nel prossimo campionato, finisce che fanno un po’ quello che vogliono. Ora, nel Pd non ci sarà un’aria da rompete le righe, ma non si può dire che, dopo le figuracce sull’elezione del Presidente della Repubblica, le file si siano ricompattate.

Ed è un paradosso. Il partito democratico è l’unica formazione politica che mantiene nelle proprie insegne la parola «partito», così bistrattata al giorno d’oggi. È il partito che più di ogni altra forza politica si attiene al dettato della Costituzione, la quale chiede di adottare metodi democratici al proprio interno. Fa (con esiti alterni) le primarie, le parlamentarie, i congressi. Ma tutto questo produce debolezza piuttosto che forza. Disperde energia politica invece di concentrarla. E le difficoltà e le incertezze che il Pd continua a manifestare finiscono col mettere la sordina anche ai limiti del Pdl. Il «partito di plastica», il «partito-azienda» mostra infatti una compattezza che, di rimbalzo, risalta come la prima delle virtù politiche. Certo, l’identificazione con Berlusconi facilita le cose. Finché dura, però. Anche il Pdl, infatti, si troverà scosso, quando questa simbiosi produrrà più problemi che soluzioni: non è questo che è accaduto, durante la scorsa legislatura? La brillante campagna elettorale e gli attuali sondaggi coprono il tallone d’Achille del Cavaliere, ma è un fatto che nelle prove di governo le sue maggioranze si sono sempre sfaldate, dal ’94 in poi.

E invece il sistema politico italiano ha estremo bisogno di corpi intermedi dotati di forza organizzativa e di una fisionomia netta, di stampo europeo. Se dunque vacillano appena si ingrossa l’onda della Rete, oppure arrancano sotto gli attacchi populisti sferrati da Grillo (che di fare un partito non ha bisogno: gli basta un blog e un’associazione fatta insieme col nipote e col fido commercialista) non ce la si può prendere col destino cinico e baro, ma con tutto quello (ed è tanto) che non è stato fatto finora nella costruzione di una solida cultura politica.

E come vanno le cose lo si deve vedere oggi, non domani, perché, per come è messo il Paese, domani è già troppo tardi. 

Il mattino, 8 maggio 2013

La giustizia italiana e i latrati di Trasimaco

Il 2008 si è chiuso là dove la vicenda politica era cominciata: al primo libro della Repubblica di Platone. Più precisamente: siamo al punto in cui Socrate, disceso al Pireo e ospite del ricco Cefalo, ha finito di chiacchierare con Polemarco, e Trasimaco, il lupo Trasimaco, non vede l’ora di dire la sua sull’argomento in discussione: cosa sia mai la giustizia. E dopo qualche breve schermaglia la dice, senza alcun infingimento: la giustizia è l’interesse del più forte. Ma siccome Socrate fa mostra di non capire, aggiunge: in tutti gli Stati la giustizia è sempre l’interesse del potere costituito, il quale è forte abbastanza perché sia detta giusta sempre la stessa cosa. L’interesse del più forte, per l’appunto.
(continua su Left Wing)

Risposte

Provo a rispondere alle domande rivoltemi non più tardi del maggio scorso (sono celere con le risposte, come vedete) in questa ‘lettera aperta’ che seguiva le giornate della Scuola di Camerota, e un breve contributo apparso su 2/2008 di Italianieuropei.
Cerco di farlo il più brevemente possibile (tanto se ne riparlerà).
1. "Non condivido la liquidazione della razionalità liberaldemocratica a metafisica fra le tante". Neanch’io la condivido: e infatti non la sostengo. Dire che ci vuole una bella metafisica alle spalle della razionalità liberaldemocratica perché questa funzioni (una metafisica alla quale han lavorato in tanti, da Descartes in poi), non vuol dire che è una fra le tante possibile, e che tutte per me pari sono.
Ho poi molti dubbi sull’idea che il relativismo falsificazionista (che dopo tutto si riduce esso pure a un insieme di regole) non abbia bisogno per funzionare di qualcosa che non sta dentro quelle regole, e non mi riesce quindi di capire quale autonomia dal campo della metafisica possa vantare. Naturalmente bisogna intendersi sulle parole, per esempio sulla parola metafisica. Se è metafisica solo una roba che fa affermazioni su Dio, allora d’accordo: il falsificazionismo non ce l’ha. Ma se le distinzioni ricordate nella ‘lettera aperta’ (formale/materiale; essere/dover essere, ecc.) sono, come credo, distinzioni metafisiche, distinzioni in cui ne va cioè, come direbbe taluno, del senso d’essere dell’ente, allora non sono affatto d’accordo sull’autonomia di alcunché.
2. Se così stanno le cose, cade anche questa seconda obiezione: che io e Mario e voi tutti siamo infatti d’accordo su cosa sia e su come funzioni la razionalità procedurale rende sicuramente plausibile che sia questa proceduralità la migliore (non direi l’unica)  fonte di legittimazione delle regole. Ma appunto plausibile, in un determinato contesto in cui io e Mario condividiamo un sacco di cose, prima di convenire su ciò che è plausibile e ciò che non lo è. (E la cosa peraltro finirebbe là, e finisce effettivamente molto spesso, se non ci fossero però casi in cui questo convenire non basta più, o si restringe).
3. Qui chiedo: a quale senso di giustizia ti appelli, per porre la domanda che poni? La giustizia di Rawls, peraltro, non mi entusiasma affatto, e visto che scrivo dopo la giornata De Martino, domando banalmente: credi tu che sarebbe bastata ai contadini meridionali che De Martino incontrava "oltre Eboli"?