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Tagli, il filosofico paradosso

Data la situazione non era possibile fare altrimenti, si dice. E sul filo di simili, amare constatazioni si prova a mandar giù il nuovo pacchetto: dopo l’Imu, le pensioni , la riforma del lavoro. Non è la stessa cosa, ci viene spiegato: finalmente si tagliano sprechi e inefficienze, enti inutili e spese fuori linea. Ma il fatto è che fuori linea ci sarebbero pure ospedali, istituti di ricerca, enti locali. Mentre però un buon numero di giornali si dedica al genere della ritrattistica, elogiando le affilatissime  mani di forbice del grande risanatore, il supertecnico Enrico Bondi (c’è sempre un tecnico più tecnico di te che prende le decisioni al posto tuo), si chiede ai partiti di fare il favore di spiegare al colto e all’inclita (cioè all’elettorato) che, per l’appunto, data la situazione, non era possibile fare altrimenti. Quando si dice che il governo è tecnico ecco dunque quel che si intende: è tecnico quel governo che prende decisioni che passano per le uniche possibili, decisioni che sono sempre quelle che i partiti non saprebbero prendere se toccasse loro, e di cui tuttavia i partiti medesimi devono accollarsi la responsabilità. Ma, data la situazione, come si potrebbe fare altrimenti?

Sia pure. Ma ci sarà un giorno, un’ora o un momento in cui, a proposito di responsabilità, ci si potrà fermare a riflettere, per domandare: già, d’accordo, ma se questa è la situazione data, chi è che ce l’ha data questa situazione? I fatti sono fatti, va bene; e contro i fatti è inutile sbattere la testa. Ma di nuovo: qualcuno li avrà pur fatti, codesti coriacissimi fatti!

Nel corso del Novecento, secolo grande e terribile, l’umanità si è più volte cacciate in situazioni difficilissime, a confronto delle quali la crisi di questi anni è poco più di un buffetto su una guancia. In mezzo a quei frangenti, una certa intellettualità, quella che si diede il compito di mandar giù simili situazioni, o almeno rendere onorevole la sconfitta di fronte ad esse, trovò il modo di inventarsi un’etica della situazione, per decretare che, per l’appunto, la situazione è data e null’altro c’è da fare se non accettarla.

Nessun paragone è possibile, naturalmente. Se non, forse, per mettere in luce quel che nel corso di quello stesso secolo anche si è affermato, distante tanto da una cultura ineluttabilmente  tragica quanto da una cultura irresponsabilmente tecnica: dico una cultura progressista, critica, democratica, per la quale le situazioni non sono mai semplicemente date e la decisione non può mai consistere semplicemente nel prendere atto. Dentro questa tradizione politica e culturale la questione non può mai essere una soltanto, e cioè: “quali sono i dati?”, ma tocca sempre chiedersi anche come sono dati, chi li ha dati, e perché.

Ad esempio: la situazione in cui il governo ha condotto la spending review e preso severe misure di riduzione della spesa è una situazione di crisi, che minaccia la stabilità finanziaria della zona euro, e in particolare il nostro paese, a causa dell’elevatissimo debito pubblico (che però non è una novità di questi giorni, e non è neppure da intestare indifferentemente a tutti i governi di vario colore succedutisi negli ultimi anni: un conto insomma è stato Berlusconi, un altro il centrosinistra). Ad ogni modo:  lo spread sale, questa è la situazione data. Ora però: chi ce l’ha data? Ovvero: da dove viene l’attuale (dis)ordine finanziario? Da lontano: dalla fine di Bretton Woods, dagli eurodollari, dal sistema monetario europeo, dalle misure di deregolamentazione de mercati finanziari, infine dalla creazione di un’area monetaria senza adeguato sostegno politico. In breve: da una serie di responsabilità politiche precise. E a tal proposito, per stare solo all’ultimo tratto di questa storia, inaugurato a Maastricht: quella insopportabile Cassandra di Wynne Godley, grande economista inglese di recente scomparso, ebbe a scrivere sulla London Review of Books – nel ’92: ben vent’anni fa! – parole che si sono poi rivelate terribilmente vere: se un paese non ha più il potere di svalutare la propria moneta, o non beneficia di un sistema di perequazione fiscale (altro che fiscal compact!), allora nulla potrà arrestarne il declino. E aggiungeva, più o meno: capisco la Thatcher, capisco gli inglesi che di fronte alla prospettiva di una perdita di sovranità monetaria preferiscono scendere dal treno della moneta unica. E capisco anche i federalisti, che puntano invece a una federazione europea e a un vero bilancio federale. Quello che proprio non capisco è come si possa puntare alla moneta unica senza dotarsi di istituzioni adeguate (a parte la banca centrale).

Certo, uno potrebbe dire: avranno pure avuto ragione le poche Cassandre che si sono ascoltate in questi anni, ma ora che la frittata è fatta?  Ora che la frittata è fatta non sarebbe male rileggere tutto intero l’articolo di Goodley. Perché lì c’è scritto anche da quale insieme di idee è nata la frittata. E precisamente: della convinzione che i sistemi economici moderni  sono capaci di autoregolarsi. Se è così,  l’idea stessa di una politica economica appare superflua. Anzi:  è persino dannosa. Sentite Goodley: si tratta di una versione cruda ed estrema del punto di vista che da qualche tempo ha costituito il pensiero prevalente in Europa, che cioè i governi non sono in grado di raggiungere nessuno dei tradizionali obiettivi di economia politica, come la crescita e la piena occupazione, e perciò non dovrebbero neanche provarci.

Se questa è la situazione, ai tecnici non resta altro che affilare le forbici della spending review. Ma è questa la situazione? Davvero non c’è dato altro? E soprattutto: non ci sono date altre idee?