Su cosa si sostiene il governo Renzi? Sulla maggioranza parlamentare, certo. Ma una maggioranza parlamentare non basta a sostenere un governo che si è formato nel corso della legislatura e non direttamente nelle urne, se non persegue un disegno chiaro e non si assegna un compito definito. E soprattutto se non convince il Paese che è in grado di realizzare quel disegno e assolvere quel compito. Il Parlamento che vota la fiducia a Matteo Renzi è il Parlamento eletto nel 2013. Ricordiamolo: un Parlamento che viene dopo il naufragio dell’ultimo governo Berlusconi, la fine di Bossi, il fallimento politico di Monti, la «non vittoria» di Bersani. E il clamoroso successo di Grillo. Ieri Renzi ha parlato di un’Italia che per vent’anni è rimasta in pausa, paralizzata dal confronto fra Berlusconi e l’antiberlusconismo. Ma il rischio che la pausa si prolungasse ancora, e che in una «morta gora» ristagnasse l’intera legislatura uscita da quel voto c’era tutto. O, anche, il rischio di una rapida interruzione della legislatura: di un ritorno al voto (senza una legge elettorale decente), di una forte instabilità e di una crisi politica che avrebbe potuto avere conseguenze sul piano economico e sociale.
Su questo sfondo va dunque compreso il compito che Matteo Renzi ha assegnato al suo governo: quello di fare le riforme. Ieri Renzi non ha fatto altro che ricordarlo. Questa è il punto politico di legittimazione dell’operato del suo governo. Perciò il premier ha elencato le leggi portate ad approvazione – dalla buona scuola alla riforma della pubblica amministrazione, dalla responsabilità civile dei magistrati al jobs act, dagli ottanta euro alla legge elettorale – e ha indicato i prossimi impegni parlamentari, insistendo in particolare sul motivo delle tasse (dal prossimo anno via Tasi e Imu) e su quello della riforma del Senato. Su quest’ultimo tema, in particolare, si apriranno subito le ostilità: il mezzo milione di emendamenti che attende la navigazione del disegno di legge costituzionale, le aperte critiche della minoranza interna del partito democratico, i numeri risicatissimi al Senato.
È ovvio che Renzi minimizzi le difficoltà e mostri sicurezza. Altrettanto ovvio, d’altra parte, che nelle prossime settimane non verrà risparmiato nulla di ciò che la tattica parlamentare richiede, per conseguire il risultato. Poiché però il passaggio rimane stretto, e c’è caso che i voti della maggioranza non bastino, e che anzi se ne perda qualcuno a sinistra per conquistarne qualcun altro al centro e alla destra dell’emiciclo (o nelle terre desolate del gruppo misto e delle formazioni minori), il Presidente del Consiglio è ieri tornato su un vecchio refrain, per porre implicitamente una domanda al Paese: la domanda che accompagnerà probabilmente il cammino parlamentare delle riforme. Il refrain è quello del berlusconismo e dell’antiberlusconismo che per vent’anni hanno bloccato il paese: lo scontro ideologico, la delegittimazione reciproca. In verità, basta voltarsi intorno, ascoltare i discorsi in spiaggia o al supermercato, per accorgersi che la linea di divisione fra gli opposti schieramenti non passa più di lì. Quel che più conta dunque è la domanda, e cioè se gli italiani vogliono che il disegno delle riforme venga completato, e su una tale base giudicare l’operato del governo. Renzi scommette che sia questo ciò che gli chiede il Paese, e ha se non altro il merito di rendere chiara la scommessa politica. Dopo anni di governi tecnici, che facevano le cose in nome di una qualche necessità e quasi per conto terzi, Renzi prova a far prevalere una chiara volontà politica: le necessità – ivi compresi eventuali voti in libera uscita del centrodestra – vengono o verranno di conseguenza. Se non è più tempo di anatemi ideologici, non meraviglia dunque che le riforme Renzi le voglia fare con chi ci sta. In un certo senso, numeri o non numeri, il suo stesso governo procede così fin dai suoi primi passi, visto che i gruppi parlamentari del Pd sono stati formati sotto la segreteria Bersani, su tutt’altre premesse politiche e programmatiche.
Ma quid mali? Cosa c’è di male? Non è così che si afferma una leadership? Non è in questi termini che si costruisce una visione del Paese? E non è da una simile visione, cioè da una sfida politica e da una reale posta in gioco che dipende quel poco di coerenza che si può chiedere ai comportamenti politici? I vent’anni di pausa di cui ha parlato Renzi sono stati anche, paradossalmente, vent’anni di transumanze parlamentari: la più fiera opposizione di principio andava cioè di pari passo con il più disinvolto trasformismo. Le divisioni posticce, artefatte, appiciccate, che si sono trascinate in questi anni, anche fuori tempo massimo, non hanno infatti più senso, e non servono a nessuno. Auguriamoci magari che se ne formino di nuove, radicate però nelle questioni vere che attendono l’Italia: un nuovo modello di democrazia parlamentare, la sfida epocale dell’immigrazione e una nuova caratura politica dell’Europa. Auguriamoci che le forze politiche su questi temi parlino e operino, si dimostrino vive e vitali, si compongano e scompongano se occorre e si lascino giudicare dagli elettori. Se andrà così, quale che sarà il giudizio, la pausa almeno sarà finita.
(Il Mattino, 26 agosto 2015)