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Comunicare, ovvero il noi che viene prima dell’io

(Questa recensione, a firma di Corrado Ocone, è uscita in una forma lievemente ridotta sul quotidiano di oggi)

Comunicazione è diventato un termine à la page, una sorta di parola passepartout. Quando il significato di un termine si slarga, è necessario fermarsi a riflettere e mettere un po’ d’ordine. Nulla di meglio, allora, che richiamarsi ai fondamenti filosofici, interrogando direttamente la tradizione filosofica occidentale e collocando i nuovi problemi all’interno degli orizzonti di senso consolidati. E’ questo il pregio e anche la particolarità di un libro originale e rigoroso come Ermeneutica dellacomunicazione, appena pubblicato da Massimo Adinolfi per i tipi di Transeuropa (pagine 495, euro 28).

Il volume è diviso in diciotto capitoli o “lezioni” che accompagnano quasi per mano il lettore alla scoperta di ciò che c’è prima e oltre ciò che comunemente si intende per comunicazione. Certo, la comunicazione è l’elemento portante, e per certi aspetti onnipervasivo, delle nostre società. E indubitabile è il fatto che la globalizzazione mediatica abbia scardinate le tradizionali categorie spaziali, tanto che “vicino” è ciò che è comunicato (soprattutto attraverso le immagini televisive), non necessariamente ciò che è “a portata di mano”. Tuttavia ci si sbaglierebbe di grosso, ci avverte Adinolfi, se si considerasse la comunicazione semplicemente come una tecnica, uno strumento a nostra disposizione. La comunicazione è, più radicalmente, uno dei modi originari di essere al mondo dell’essere umano, segnato proprio per questo da un’originaria intersoggettività che è precedente e costitutiva della stessa individualità personale. In tale ordine di discorso, la comunicazione, come spiega con dovizia di particolari questo libro, non può intendersi secondo il modello standard che la vorrebbe “essenzialmente trasporto e movimento di una certa quantità di informazioni dal mittente al ricevente”. La comunicazione reale è un dialogo che si costruisce strada facendo, sempre aperto all’incomprensione e all’errore, fatto di ragione ma anche di sentimenti e passioni, costantemente proiettato verso un orizzonte di eccedenza che è propriamente l’indicibile e l’incomunicabile a cui Adinolfi dedica l’ultimo capitolo. Non credo che esistano altri manuali di comunicazione che si pongano il problema dell’altro da sé, che cioè fuoriescano dall’orizzonte empirico dei significati, e quindi del comunicabile, ponendosi la questione del senso della comunicazione come ciò che per logica di cose si sottrae alla stessa comunicazione (il senso immanente alla comunicazione, dice l’autore, non può essere cercato in un discorso sulla comunicazione). Risulta perciò comprensibile anche la critica serrata e convincente che Adinolfi fa alla cosiddetta “teoria dell’agire comunicativo” elaborata all’interno della Scuola di Francoforte da Habermas e Apel: non si tratta tanto di un richiamo alla distanza fra modello normativo (l’ideale di una astratto di una “comunicazione non distorta”) e comunicazione reale, quanto di una presa d’atto del fatto che non è auspicabile “spogliare l’intrigo comunicativo di tutti gli elementi passionali, vernacolari, irregolari che lo abitano per indossare l’abito grigio della razionalità linguistica”.

In conclusione, si può dire che chiamare la scienza della comunicazione a rispondere davanti al tribunale della filosofia, cioè della ragione speculativa, come fa Adinolfi in questo volume, aiuta in ultima istanza conservare un atteggiamento distaccato, uno spirito critico e non conformista, rispetto a un fenomeno che tende per sua natura a porsi come totalizzante e a soggiogare le anime più deboli. E’, indirettamente, un contributo alla democrazia e alla crescita delle coscienze.  

Il Mattino, 29 giugno 2012

Culture e luoghi: sentirsi europei ma non abbastanza

“L’importanza esagerata che si dà al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro risale all’età delle orde di nomadi, quando bisognava tener bene a mente dov’erano i terreni da pascolo”. Volete sapere cos’è l’Europa? A occhio e croce: l’unico luogo in cui possano nascere simili pensieri, l’unico luogo in cui qualcuno può pensare (e quel qualcuno è uno dei più grandi scrittori del ‘900, Robert Musil) che non conta in quale luogo si viva, si lavori, si scrivano libri come «L’uomo senza qualità», frutto tra i più alti del genio europeo. L’unico luogo in cui si possa sperimentare una così profonda contraddizione performativa, per cui si pensa che non conta ciò che solo conta per nutrire siffatti pensieri: l’essere europei, l’appartenere non semplicemente ad una nazione, ad un terreno da pascolo o a una stirpe di guerrieri, ma ad un vincolo anzitutto ideale e intellettuale.

Musil, «L’uomo senza qualità», e una città in surplace, Vienna, osservata un minuto prima che la catastrofe dei nazionalismi travolgesse l’Impero austro-ungarico, la stranissima creatura politica del passato che ancora sopravviveva nel cuore del continente, agli inizi del ventesimo secolo. Di essa, e dei favoriti dell’imperatore Francesco Giuseppe, non si può avere alcuna nostalgia: da essa, come dalla giornata da cui inizia il romanzo, non poteva ricavarsi più nulla. Ma quella condizione inutile ed eccezionale – proprio nel senso in cui poteva allora costituire un’eccezione incomprensibile il coacervo di popoli e lingue che formava l’Impero  – torna in mente ogni volta che l’Unione europea, che di popoli e lingue ne mette insieme anche di più, prova a muovere un passo in direzione di una maggiore integrazione, e a dotarsi di un profilo più netto, di un’identità più robusta.

Nel provare a definire i contorni dell’identità europea, il filosofo che più di ogni altro vi ha riflettuto sopra, il tedesco Jürgen Habermas, ha indicato sette caratteristiche fondamentali: la secolarizzazione, lo Stato prima del mercato, la solidarietà prima dell’efficienza, un certo scetticismo nei confronti della tecnica, la consapevolezza dei paradossi del progresso, il ripudio del diritto del più forte, il pacifismo come conseguenza dell’esperienza storica delle guerre europee e mondiali. Queste caratteristiche hanno qualcosa in comune: si mantengono tutte in un rapporto di tensione, se non di aperta contraddizione, con le tendenze fondamentali del nostro tempo. Ciò è evidente quando Habermas parla di paradossi del progresso (della dialettica dell’illuminismo, per dirla con Horkheimer e Adorno), ma è implicito in ogni punto del suo elenco. Nella secolarizzazione, per esempio, che non può più essere assunta come un processo unico e irreversibile. Ma soprattutto: cosa sono il mercato, l’efficienza e la tecnica se non gli imperativi della nostra epoca, le onde d’urto che investono con forza inusitata i pilastri della costruzione europea? E tuttavia, se vuole essere Europa, l’Unione è chiamata a comporle con le istanze che ad esse fanno attrito. L’Europa è tale se mantiene un punto di vista critico sui progressi della tecnica, senza cadere nell’oscurantismo; se difende il modello sociale di mercato e dunque la solidarietà, senza lasciarsi travolgere dall’inefficienze o dai debiti; se riesce a difendere gli spazi politici della democrazia finora assicurati dentro i confini statali, senza assumere gli scambi e il mercato come verità finale dei rapporti fra gli uomini (e senza rinunciare a legittimare i processi politici in maniera democratica, invece di accontentarsi di accordi intergovernativi). E anche nelle relazioni internazionali, nell’arena mondiale in cui l’Unione deve ritagliarsi un profilo geopolitico forte, l’essere europei comporta un’idea tendenzialmente cosmopolitica del diritto o della pace, o almeno una scelta per il multipolarismo, che costituisce la sua vocazione specifica, benché sempre problematica.

La contraddizione più forte è però proprio nell’esperienza del luogo, contraddizione che lo spirito europeo ha già nella sua prima radice greca. Chi non ricorda il paradosso di Epimenide cretese, il quale soleva dire che tutti i cretesi mentono, rendendo inassegnabile il valore di verità o di falsità della sua stessa affermazione? Proprio di questo si tratta, quando un europeo dice che il luogo non conta. Il problema che è toccato allo spirito europeo è di costruire proprio quel luogo, in cui non conta essere di quel luogo. Un luogo siffatto è, in generale, lo spirito e, in senso universale, la civiltà. Ma proprio essa è una creazione originale del pensiero europeo, e del suo concerto di nazioni. Il quale si trova dunque sempre su un sottile crinale, stretto fra universalismi e particolarismi, fra inclusioni ed esclusioni, voti e veti. È questa tensione non risolta né risolubile che ha reso particolarmente complessa, sempre indifferibile e sempre differita, la costruzione europea, ben più che non la formazione degli altri grandi spazi mondiali, come la Cina o l’America.

Nell’ora difficile che oggi vive l’Unione europea, questo essere in tensione si avverte particolarmente. Di fronte alle sfide portate dalla globalizzazione, grande è il pericolo che la tensione si allenti, e che l’intero progetto europeo si ridimensioni. Ma è bene sapere che se è vero che quel progetto sopporta una contraddizione, è anche vero che scioglierla ha voluto dire, in passato, patire il contraccolpo più violento, e lo scatenamento delle orde più ferocemente attaccate alla terra.

L’Unità, 11 dicembre 2011

Un carico da undici per giocatori di briscola

Su la Repubblica di oggi, c’è la replica di Habermas a un saggio dell’esimio collega Paolo Flores d’Arcais, dal titolo Le tentazioni della fede. Undici tesi contro Habermas, che apparirà il prossimo sette dicembre su Micromega. Il saggio di Flores è stato parzialmente tradotto e pubblicato da die Zeit, dove compare anche la replica di Habermas tradotta oggi da Repubblica.

Ora, sarebbe molto bello distribuire torti e ragioni. Non avendo però letto le tesi di Flores, sarebbe veramente scorretto lanciarsi in commenti di qualunque natura. Sta però il fatto che la polemica di Flores fa seguito all’intervento pubblico di Habermas a Roma, di poche settimane fa, e che la replica odierna consiste nientepopodimeno che nella mera autocitazione di un paio di passi di quell’intervento all’Eliseo.

Habermas non spreca una parola per nuovamente argomentare. Invita Flores a rileggerlo. E mi getta nell’atroce dubbio che il carico da undici di Flores sia perfettamente inutile. Sicuramente lo è agli occhi di Habermas, e chi sono io per?