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De Giovanni Accademico dei Lincei. «La filosofia come diritto alla politica»

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Il caffè amaro, i quadri del Seicento napoletano alle pareti, la presenza di un gatto silenzioso e invisibile da qualche parte in giro: Biagio De Giovanni mi fa accomodare nel suo bel salotto, e comincia a parlare. Oggi diventa accademico dei Lincei e la nomina prestigiosa è un’occasione per ripercorrere una vita di studi e di pensieri. «Io ho la passione per il parlare. Mi è capitato di recente di imbattermi in un pensiero di Benedetto Croce: “altro è lo scrivere, altro il parlare”. Anche per me è così», mi dice, e intanto io osservo che però questi suoi ultimi anni sono stati pienissimi di scrittura. E che scrittura. Sono usciti uno di seguito all’altro, negli ultimi anni: un dialogo a due voci con Marcello Montanari su Gramsci e il Novecento (“Sentieri interrotti”); uno studio sul pensiero moderno nei suoi esiti più alti (“Hegel e Spinoza. Dialogo sul Moderno”); un saggio teso e drammatico su Giovanni Gentile e Emanuele Severino (“Disputa sul divenire”); due grandi lavori al confine tra filosofia, politica e diritto, là dove si trova il centro degli interessi intellettuali di De Giovanni: “Alle origini della democrazia di massa” e “Elogio della sovranità”: non si può dire che in età avanzata il filosofo napoletano abbia rinunciato a pensare.

Così, faccio un po’ fatica a riportarlo indietro nel tempo, ai suoi inizi, agli anni trascorsi all’università di Bari, all’impegno politico, all’esperienza parlamentare a Strasburgo: la conversazione precipita di continuo sul presente, sull’Italia di oggi, sulla crisi della sinistra e l’avanzata del populismo, su Macron e sulla Germania. Ed è inevitabile che mi annunci l’uscita di un paio di libri: uno su Croce, in cui De Giovanni pubblica la prolusione tenuta all’Istituto di studi storici lo scorso anno; l’altro invece su Kelsen, Schmitt e le categorie della politica novecentesca.

Ma io sono qui, nella sua grande casa a Mergellina, in un pomeriggio quieto e raccolto, per fargli raccontare le stagioni di una vita lunga e intensa. Mi accorgo di avere più nostalgia io della sua vita che non lui stesso.

«La laurea in giurisprudenza? Io ho un libretto universitario da iscritto a filosofia. Ma mio padre, avvocato penalista, mi chiese se fossi proprio sicuro della mia passione. Se ti iscrivessi a giurisprudenza, mi disse, avresti qualche possibilità professionale in più. Io accolsi questo consiglio, avendo però comunque in testa di laurearmi in filosofia del diritto. A volta i padri riescono perfino a vedere lontano: da lì è cominciato tutto».

Gli studi di legge non sono infatti restati senza seguito: sono anzi ben dentro l’idea stessa che De Giovanni ha del lavoro filosofico: «Secondo me, il laureato in giurisprudenza, proprio perché ha cognizione del funzionamento dello Stato, finisce con l’avere un pensiero più concreto, senza eccessivi teoretismi. Qualche volta i filosofi peccano di astrattezza. Il laureato in giurisprudenza, rispetto al puro filosofo, ha in testa la polis, il senso dell’organizzazione della vita umana, e tende ad avere un pensiero più dentro le cose».

De Giovanni non sta parlando solo dei suoi primi interessi, di quel piccolo classico che è diventato ormai il suo primissimo libro, «La nullità nella logica del diritto», ripubblicato di recente. Sta parlando del rapporto fra filosofi e giuristi, della sottovalutazione del momento giuridico in tanta parte del pensiero novecentesco:

«Più che sottovalutazione, direi un enorme isolamento del diritto nella mera dimensione della coercizione, della violenza. C’è tutta una tradizione di pensiero che ha ridotto la giuridicità a questo. Il testo di Walter Benjamin su diritto e violenza è un riferimento centrale. Ma questo riduzionismo comincia prima, c’è già in Marx, e prosegue dopo, per esempio in Foucault. C’è qui tutto il dramma del Novecento, ci sono Kelsen e Schmmitt, i grandi apici del pensiero novecentesco, due visioni del mondo alternative e connesse.

«Io provo invece a inserire il diritto nel processo di civilizzazione della forza. E in questa idea del diritto non come violenza ma come grande ordinamento della vita io ho avuto in Giuseppe Capograssi un costante punto di riferimento. Personale all’origine e vivissimo ancora oggi».

Gli chiedo allora cosa pensi della costruzione biopolitica contemporanea, che di nuovo sembra tenersi assai lontana, nel pensare il mondo odierno, dall’impiego di una concettualità di tipo giuridico:

«Quello che mi lascia attonito sono le modalità attraverso le quali questa interpretazione in chiave biopolitica si fa distruttiva di tutta la storia della filosofia politica, di tutte le categorie fondative con le quali la filosofia politica moderna ha funzionato. È un vero strappo concettuale. Quando fai questa operazione, in una fase nella quale le discontinuità sono vive nella vita degli uomini e delle società, è vero: cogli qualcosa dello spirito del tempo; ma il moderno come io lo penso è un’altra cosa. La modernità resta un libro chiuso, o del tutto travisato, se lo pensi senza il suo momento giuridico. La dialettica tra politica e diritto, non intese come discipline ma come mondi vitali, è il nucleo essenziale dell’Occidente. È la vitaIità del mondo che nasce in questo nesso contrastato, oppositivo e aspro fra ordinamento giuridico e autonomia della decisione politica».

La filosofia del diritto, dunque, e il ricordo del primo maestro, il gentiliano Angelo Cammarata, che insegnò a Napoli nel dopoguerra per circa un decennio, e che con ironia tutta siciliana soleva dire a De Giovanni: «come sarebbe bella l’università senza gli studenti!». È così che dall’attualità delle dispute intellettuali di oggi cerco di precipitare di nuovo indietro nel tempo. Da Napoli a Bari: gli anni dell’insegnamento universitario, la scuola barese che si raccolse tra l’università, il partito comunista e la casa editrice De Donato, il ruolo di Gramsci nella cultura italiana:

«Bari per me è stato un incontro fortunatissimo. Il mio primo incarico risale al 1959: avevo 28 anni. Ero incaricato di storia delle dottrine politiche. La filosofia del diritto non si poteva toccare: era riservata ad Aldo Moro, che pur essendo penalista scriveva di teoria dello Stato e teneva i corsi di filosofia del diritto per non lasciarli a quel “branco di comunisti” che veniva da Napoli o da altre facoltà.

«Sono poi passato a insegnare filosofia morale, ma quegli anni sono stati una svolta, nella mia vita. A Bari ho conosciuto la politica. Ero un timido, un introverso, con molte paure di parlare in pubblico. Un po’ le vicende del ’68, un po’ l’incontro con Beppe Vacca, di cui seguii la tesi, mi cambiarono. Arcangelo De Castris, Franco De Felice, Beppe Vacca, gli incontri alla De Donato: si creò un’atmosfera che mi trascinò letteralmente a vivere la riflessione e lo studio a tavolino in una prospettiva diversa. E nel ’69 – dopo la scelta del PCI sulla Cecoslovacchia, quando mi sembrò, forse un po’ ingenuamente, che si stava allentando il rapporto con l’Unione Sovietica – entrai nel partito comunista. In seguito, ho dovuto considerare la mancata chiamata a Napoli, nel ’67, la mia più grande fortuna. Se fossi andato a Napoli, non avrei fatto un’esperienza di vita e di pensiero che, forse, non avrei potuto conquistare in altro modo. E a quella stagione appartiene anche il mio libro su Hegel, “Hegel e il tempo storico della società borghese” che fu per me uno spartiacque».

Dopo il libro su Hegel, del 1970, il libro su Marx, del ’76, sull’analisi delle classi ne Il Capitale: un libro assai meno fortunato:

«Ignorato da tutti! È che la congiuntura stava cambiando. Uscì “Krisis” di Massimo Cacciari, che cambiò profondamente lo scenario culturale italiano. Fu un contributo dirompente, quello di Cacciari: critica del marxismo, pensiero negativo, Nietzsche e Wittgenstein, un insieme di riferimenti che metteva in crisi anche lo sforzo del gruppo di gramsciani baresi dei quali io facevo parte, sia pure in dialettica con certe letture che giudicavo troppo chiuse».

Sulla questione Gramsci chiedo a De Giovanni di soffermarsi. Perché quando negli anni Settanta lascia Bari per Salerno e poi per Napoli, si allontana anche da quella fucina di riflessioni sul pensiero gramsciano:

«I miei ripensamenti sono stati abbastanza radicali. Nella mia vita ho avuto più discontinuità che continuità. Scarti a volte più umorali, a volte più riflessivi. Me lo ascrivo a merito, ma anche a demerito. Il gruppo barese, formato ancora oggi da miei carissimi amici, ha però trasformato nel tempo la riflessione su Gramsci in una forma per me troppo rigida. Io mi sono sentito sempre più lontano dalla cristallizzazione del gramscismo, dall’idea che il gramscismo potesse essere la chiave che apre tutte le porte. A partire dagli anni Ottanta, avvertivo l’esigenza di una via d’uscita».

Nasce così l’idea de “il Centauro”, la rivista diretta da De Giovanni dal 1981 al 1986. Solo sei anni, ma intensissimi («ma puoi fare con Cacciari una cosa che duri più di sei anni?», mi chiede scherzoso De Giovanni), aperti da un editoriale in cui il Direttore manifestava l’esigenza di “accogliere qualcosa che ponga in discussione i vincoli di tradizioni che si considerano già interamente pensate”. Non a caso in quella rivista scrissero tutti, meno gli amici gramsciani di Bari.

«Furono loro scettici nei confronti della mia scelta. Ma intanto veniva fuori un’altra generazione di pensieri, non solo di persone ed età. “il centauro nacque anche contro la volontà dei maggiorenti del partito. Accettarono la cosa solo quando di riviste ne vennero fuori due: da una parte “Laboratorio politico” di Mario Tronti, con dentro l’operaismo italiano; dall’altra “il Centauro”, che dirigevo io, che almeno avevo il merito di non avere niente in comune con l’operaismo. Fu comunque un’operazione molto aperta, antidogmatica, in cui Gramsci finì con con il perdere la centralità avuta negli anni precedenti».

E come finì, quella esperienza?

«Cacciari se la prese perché secondo lui in un mio scritto lo avevo confuso con il pensiero debole. In realtà, la nostra diversità aveva funzionato per qualche anno come collante, ma a un certo punto ci rendemmo conto che prolungare la cosa non aveva senso. Ricordo la riunione in casa di Giacomo Marramao, a Napoli. Io parlai della “linea della rivista”. Dal fondo si sentì una voce dire in veneziano: “se entra la linea esco io”. Era Cacciari. Aveva ragione. Avevamo contribuito a mostrare consapevolezza di una discontinuità e di una crisi. L’effetto c’era stato, almeno in certi ambienti culturali, e ci bastò quello».

Finisce “il Centauro”, nel 1986. Ma è ormai prossimo alla fine tutto un insieme di rapporti intensissimi fra vita intellettuale e vita politica, che avevano segnato l’esperienza italiana.

«In Italia c’era stata un fatto particolarissimo: un partito comunista senza paragoni nel resto d’Europa. Ricordo i comitati scientifici dell’Istituto Gramsci: Luporini, Badaloni, Franco Ferri… Discussioni sui destini del mondo, seminari politico-filosofici che rifluivano poi nel Comitato Centrale del partito. Avevi la sensazione – in parte vera, in parte no – di un’effettiva dialettica, retto da una struttura della storia che ormai non c’è più. La dirigenza del PCI poteva anche chiudersi, ma era colta, in grado di dialogare con il mondo della cultura. Palmiro Togliatti era uno che all’uscita del rapporto sui crimini di Stalin rispose su “Rinascita” con una sua traduzione dal tedesco di un frammento di Hegel ignoto ai più. Hegel diceva: anche il volto di un assassino è illuminato da un punto di luce. Cioè: la personalità umana non ha un solo lato, è sempre molto complicata. Tu capisci? Di Maio non conosce i congiuntivi, Togliatti traduceva Hegel dal tedesco. Sbagliando, facendo errori ciclopici: però era Togliatti».

A proposito di Togliatti, che dire dell’articolo in prima pagina sull’Unità, a venticinque anni dalla morte? Siamo nell’agosto dell’89. De Giovanni siede nella direzione nazionale del partito, fresco di elezione al Parlamento europeo. Ha pubblicato a inizio d’anno un libro, “La nottola di Minerva” che contiene già l’ambizione di una rottura con la tradizione continuista del PCI.

«Ma dei libri non si accorge nessuno. Quando mi chiamo il vicedirettore dell’Unità, Giancarlo Bosetti, io gli chiesi se avesse letto il libro. In verità mi disse di sì, che proprio per questo avevano pensato a me. Mi sentii più tranquillo e scrissi. L’articolo uscì in prima pagina, col titolo: «C’era una volta Togliatti e il comunismo reale». In quell’articolo dicevo che un mondo era finito. Successe l’ira di Dio. Mi ritrovai il pezzo in televisione. Duecento e più articoli. Fu ripreso persino dal Washington Post.

«A settembre, alla prima riunione della direzione nazionale, avvertii il gelo intorno a me. Giancarlo Pajetta, di solito scherzoso, a stento mi salutò. Mi misi sul fondo. Natta introdusse il discorso dicendo: “D’estate i compagni devono stare molto attenti a quel che dicono, perché possono avere dei colpi di sole”. Tempo sei mesi e fui fatto fuori dalla Direzione».

Era comunque cominciata la stagione dell’impegno europeo. Il Pci aveva abbandonato nel corso degli anni Ottanta le posizioni antieuropeiste. E nel decennio successivo appoggiò convintamente la scelta di Maastricht. De Giovanni trascorse dieci anni a Strasburgo. Non posso non chiedergli che cosa è successo all’Europa, da allora.

«È stato il momento più bello e illusorio: l’unificazione tedesca, l’allargamento a est, l’unione monetaria, la codecisione del Parlamento europeo, lo spazio Schengen. Tutto sembrava possibile. Io ebbi una grande esperienza come presidente della commissione istituzionale negli ultimi due anni e mezzo del mio secondo mandato, quando approvammo il Trattato di Amsterdam».

Perché però quel percorso si è arrestato? Perché alla Costituzione europea non si è mai arrivati?

«Perché la Germania si è unificata. Ma non sto dando una risposta antitedesca. È che l’unificazione della Germania ha scosso tutti gli equilibri. La Germania non si è chiamata fuori, non ha scelto il “Sonderweg”, ma non è riuscita ad assumere il ruolo di grande nazione europea. Questo elemento ha compromesso il vecchio equilibrio franco-tedesco e bloccato la possibilità di progredire. L’altro elemento che ha pesato è l’interpretazione della globalizzazione come un processo soft, come l’avvio del grande cosmopolitismo. Ne veniva la convinzione che non vi fosse più bisogno di politica. Quando poi ci si è scontrati con la durezza della globalizzazione, l’Europa non ha saputo dare risposte perché non aveva più dentro di sé la dimensione del conflitto politico».

Il pensiero di De Giovanni su questi temi è consegnato in particolare a due libri, “L’ambigua potenza dell’Europa” e “La filosofia e l’Europa moderna”, usciti alla fine di quella stagione, nei primi anni Duemila. Nel primo, in particolare, De Giovanni sosteneva che la sovranità statuale dovesse rimanere il perno della costruzione europea:

«Ne “L’ambigua potenza” davo ancora un’interpretazione ottimistica di questo processo. L’ineliminabilità della statualità, l’insufficienza del puro patriottismo della Costituzione di hambermasiana memoria: tutto questo è entrato in crisi. Da un lato rimane necessario, dall’altro è difficile se non impossibile. Nessuno mi farà pensare che la Commissione possa diventare all’improvviso il governo dell’Europa. Nessuno però mi riesce più a far capire come questa necessaria relazione fra gli Stati riesca ad essere creativa di spazi politici comuni. Chissà se dopo questa crisi drammatica l’Europa non sia costretta a rimettersi a pensare, a cercare un terreno meno friabile di costruzione dell’Unione».

L’esperienza nelle istituzioni comunitarie finisce nel ’99, quando, nonostante l’indicazione dell’allora segretario Veltroni, De Giovanni non viene rieletto. Le ragioni della mancata rielezione rimangono, per carità di patria, fuori dal taccuino. Il filosofo in lui rinato allo studio e alla ricerca preferisce cavarsela con una battura: «Ringrazio il Padreterno per non essere stato eletto, perché dopo quei dieci anni al Parlamento sono tornato a tempo pieno sui libri». Prima però di chiudere con il bisogno di filosofia che gli riempie le giornate, gli chiedo qualcosa sulla politica nazionale. Gli chiedo della questione meridionale. De Giovanni è tranchant:

«La questione meridionale è completamente fuori dalla cultura politica contemporanea. Il dualismo nasce rigorosamente all’interno di una nazione. Quando l’unità nazionale si incrina, e non ci sono più risorse per politiche distributive, finisce anche la questione meridionale. Vedi del resto la Catalogna: ormai le regioni ricche non guardano più le regioni povere».

E il Pd? De Giovanni ha ripreso la tessera, in controtendenza rispetto all’emorragia che il Pd ha subito negli ultimi tempi. Non è del resto la prima volta che De Giovanni va controcorrente. Si è iscritto al partito democratico per sostenere Renzi nelle primarie di quest’anno.

«Il rischio populistico è fortissimo. Sarà sbagliato, settario, ma io considero i Cinquestele una patologia della democrazia. E quindi il ruolo del partito democratico (sarà di destra, di sinistra: lasciamo perdere) non può che essere quello di punto di equilibrio per la difesa e lo sviluppo della democrazia rappresentativa e per un rapporto critico ma forte con l’Europa. È l’unico partito che può farlo. La centralità del Pd non deriva da astrazioni categoriali ma da compiti politici concreti, dalla necessità di deve combattere l’estremismo salviniano e la patologia populista. Che c’è a destra come a sinistra».

Sono trascorse più di due ore. Ho lasciato fuori da questo insufficiente resoconto gli anni salernitani, il velo di commozione con cui De Giovanni ricorda i libri splendidi di Roberto Racinaro, rettore a Salerno negli anni di Tangentopoli, finito in carcere e poi completamente assolto da ogni vicenda, ma distrutto moralmente e fisicamente. Ho lasciato fuori i rapporti con Napolitano, l’esperienza come Rettore all’Orientale di Napoli, l’incredibile storia del quadro di Caravaggio posseduto per un giorno soltanto, le pagine di Musil sull’Europa e sulla guerra – l’uomo che “straccia la sua esistenza al vento” – e infine i recenti, importanti discorsi di Macron. De Giovanni mi chiede di alzarmi. Apre una porta, mi mostra il suo ultimo quadro, da gran collezionista qual è: «Questo è un Giovanni Lanfranco», mi dice, e mi lascia di stucco. Le chiese di Napoli, pietre e luce, Caravaggio e Vico: tutto cammina ora con i suoi passi e nella sua voce.

«Noi siamo sempre figli degeneri di Hegel. Questo è tempo di scissioni. Quindi la filosofia è necessaria. Non c’è epoca più filosofica di questa. Essendo radicale la scissione, nel suo senso più lato, la filosofia – questa malattia del pensiero, come la definiva Croce –irrompe perché non basta più la storiografia, non basta più la storia degli storici. Diviene necessaria, perché necessaria diviene una rifondazione delle cose. Lasciami dire però – poiché non ne abbiamo parlato fin qui – che per me non è senza Croce, ma senza Gentile che non esiste la filosofia italiana. Non esisterebbe Gramsci come non esisterebbe Severino. L’attualismo è stata la vera filosofia italiana del Novecento. E Gentile è stato una delle chiavi della mia vita filosofica».

“Io che origlio alle porte dei filosofi”: così ha detto una volta De Giovanni di sé, con una modestia che i suoi ultimi libri non giustificano. È per via degli eccessi di teoria che sente come estranei, ma non certo perché non sappia leggere e interpretare il bisogno di filosofia del nostro tempo.

«Per me la filosofia è tornata così. Qui stanno i miei ultimi libri. Siamo tornati ai grandi momenti di crisi in cui il rapporto fra vita e forme si interrompe e la crisi diventa generale. Le forme consolidate – la famiglia, la società, il partito, lo stato – si vanno dissolvendo. Come riorganizzi allora la vita comune dell’umanità? Rottura di confini o ritorno delle identità? E che significa ritorno delle identità? O al contrario: il mondo sopporta la distruzione dei confini?».

Domande, pensieri che non si arrestano, questioni che rimangono aperte. Fuori è ormai sera, Napoli lungo il mare è bella come non mai.

(Il Mattino, 10 novembre 2017)

Filosofia: un bisogno, non solo un sapere

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Ovunque, nel mondo, vi è stata una grande filosofia, lì vi è stata anche la posizione filosofica della questione del suo insegnamento, della sua trasmissione, della sua tradizione e della sua pratica. Platone, per dire non l’ultimo ma il primo arrivato, ci volle fondare su un’Accademia, e ha disseminato i suoi dialoghi di istruzioni, implicite ed esplicite, sul buon uso del logos filosofico. Dopo di lui, tutti gli altri: non solo gli antichi (per i quali era più facile: bastava fondarla, una scuola), ma anche i moderni, che hanno dovuto acconciare la materia alle esigenze (evidentemente non solo didattiche) delle istituzioni dell’epoca, la Chiesa e lo Stato. Oggi la filosofia si trova là: nell’università, dove da poco più di due secoli – dopo tutto: non un tempo lunghissimo – viene insegnata in regolari corsi di studio, e dove continua naturalmente a entrare in conflitto con le altre facoltà, come ben sapeva Kant.

Se però è vero che ci vuole una grande filosofia per porre daccapo la questione di cosa significhi insegnarla, è anche una fortuna che le grandi filosofie non si succedano l’una dopo l’altra come i cambi d’abito: ad ogni nuova stagione. Altrimenti, con la stessa frequenza, si dovrebbero richiedere riforme legislative. Thomas Kuhn diceva che ci sono periodi in cui la scienza, il sapere in genere, se ne sta tranquilla dentro i propri paradigmi, e periodi in cui invece prova a sovvertirli. Ora, in che razza di periodo viviamo, dal punto di vista del sapere filosofico?

Qualche anno fa, in un’informata guida alla filosofia contemporanea si mostrava come non fosse possibile restituire un’immagine del pensiero contemporaneo senza includervi il tratto di “fine della filosofia” che sembra sbucare fuori ovunque: perché il suo credito scientifico è ridotto al lumicino, perché la tecnica si mangia ogni cosa, perché andare a braccetto con la storia l’ha fatta precipitare in un indistinto relativismo, perché non solo la scienza ma anche altri ambiti della cultura umana che di solito si accompagnavano alla filosofia si sono un po’ stufati: la politica ad esempio, per via della famosa fine delle ideologie in Occidente, oppure l’arte, che avrebbe scelto la strada più diretta della sua riproducibilità finanziaria (Andy Warhol: fare buoni affari è la forma d’arte più affascinante).

Può darsi che questa immagine non sia generosa, che vi siano miriadi di problemi particolari su cui i filosofi possono esercitarsi con profitto, che sia non il mestiere del filosofo ma solo i suoi paramenti sacerdotali ad essere caduti in disuso. Sta di fatto che le grandi filosofie latitano, e quindi le riforme che ne investono la caratura universitaria non debbono scontrarsi coi “funzionari dell’umanità”, ma solo con quelli più prosaicamente addetti al calcolo del numero dei crediti universitari necessari per accedere alla relativa classe di concorso.

La situazione, dunque, sta così: che non è previsto, nello schema di decreto legislativo in discussione, un numero minimo di crediti nella didattica specifica della disciplina. Si insegna a insegnare la qualunque, con l’idea che in questo modo si insegna a insegnare pure la filosofia. È un’idea assai discutibile: ma chi la discute? Ci hanno provato i presidenti delle Società di filosofia con una lettera, apparsa qualche giorno fa sul Corriere della Sera, accolti da un generale silenzio. Ieri è stata la volta di Mario De Caro e Pietro Di Martino, sul Sole. Ma non è di buon senso supporre perlomeno che per insegnare filosofia, per quanto malconcia essa sia, bisogna comunque averla studiata? Se sì, come mai allora il laureato in filosofia che acceda all’insegnamento di storia e filosofia nella scuola deve avere incamerato 36 crediti in discipline filosofiche, mentre un laureato in materie antropo-pisco-pedagogiche, per lo stesso insegnamento, può fermarsi a 24?

È solo colpa della fortuna declinante di quella che una volta, molto tempo fa, era la regina delle scienze, oppure c’è il concorso di una disattenzione, almeno altrettanto colpevole, del legislatore, che mentre cambia le vie di accesso alla professione docente (con qualche merito innegabile: mettendo fine ai megaconcorsi e costruendo un percorso formativo triennale, tra scuola e università, sulla base dei posti effettivamente disponibili), cambia pure lo status della disciplina, relegandola nella serie B dei saperi? Certo, si può anche decidere che non occorre conoscere la filosofia per insegnarla, oppure che è giunta l’ora di non insegnarla affatto. Che non c’è alcun “bisogno di filosofia”, come diceva quel cane morto di Hegel, oppure che è la sua esistenza universitaria a non potersi più giustificare. Importante è dirlo però chiaro e tondo, farci magari anche un bel dibattito su, e non farlo di soppiatto, cambiando qualche numeretto, e relegando la tradizione filosofica del pensiero in una posizione puramente ancillare rispetto al resto delle scienze umane. (Ma la filosofia, infine, è davvero una scienza “umana”?)

(Il Mattino, 8 maggio 2017)

Se la politica si perde tra i congiuntivi

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Tre congiuntivi in un colpo solo non sono uno scherzo. Sono, forse, un record. Perché uno può capitare, due è già più difficile, ma sbagliare tre volte lo stesso verbo, nella stessa frase, per esprimere lo stesso concetto: ci vuole dell’arte. E sicuramente non è colpa dei poteri forti. Fosse stato Grillo, avrebbe comunque trovato il modo di dire: questa volta abbiamo fatto tremare l’Accademia della Crusca, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e la Società Dante Alighieri tutti in una volta. Ma è una versione che non troverebbe corso neanche tra i più fedeli seguaci del vicepresidente della Camera dei Deputati.

Il quale, forse, di simili obbrobri non è materialmente responsabile. Magari è stato qualche suo collaboratore. Ma vige in questi casi la responsabilità oggettiva: come nello sport. Cosa vi è infatti di più oggettivo della lingua, nel senso, almeno, in cui quel cane morto di Hegel parlava di spirito oggettivo? Se però quello se ne frega dei congiuntivi, quell’altro manda a ramengo le subordinate, e quell’altro ancora non si raccapezza più con la «consecutio», tutta codesta oggettività delle istituzioni culturali, massime della lingua, va a farsi benedire.

Prima di Hegel, però: ricordate quel simpatico personaggio di Lewis Carroll, Humpty Dumpty, l’uovo parlante, che avvia una singolare conversazione con Alice? I due non è che si intendano molto, perché l’uovo ha l’improntitudine di far significare alle parole esattamente quello che vuole lui, e lui soltanto. Certo, Humpty sa che alcune parole hanno un brutto carattere: «I verbi, in particolare, sono i più orgogliosi: con gli aggettivi si può fare qualunque cosa, ma con i verbi; però – prosegue – io riesco a dominare tutto il gruppo».

Manca poco che non aggiunga: dal momento che uno vale uno, come dicono i miei amici pentastellati, non ci può essere nessuna autorità linguistica al di sopra di me ad impormi questo o quel significato, quel tempo o quel modo verbale. Perciò faccio quello che voglio, e se voglio che due soggetti, anziché spiare le massime autorità dello Stato, le spiassero le avessero spiate o le spiano, come dice il mio amico Di Maio, amen e così sia! Con buona pace di Alice e di tutti gli elettori votanti.

Sembra il paradiso della lingua – o della democrazia: fate voi – in realtà ne è la pura e semplice cancellazione, perché non è possibile alcuna lingua dove ciascuno assegna alle parole significati a piacimento, o capovolge e sconvolge la grammatica del linguaggio. Come insegnava quell’altro filosofo: un linguaggio privato non può esistere, è una contraddizione in termini. Il linguaggio o è pubblico o non è; o si fonda su regole condivise, accettate, o non è linguaggio. (E quel che è vero del linguaggio vale anche per un mucchio di altre cose: grosso modo, per tutte quelle che Hegel considerava facenti parte dello spirito oggettivo).

Ora si dirà: ma non è un po’ troppo scomodare tutta questa dottrina e tutte queste citazioni per qualche innocente capitombolo linguistico? Forse sì (anche se a pensarci: se Carroll ha potuta infarcire di pensieri un testo per ragazzi come «Alice attraverso lo specchio», si potrà pure infilare qualche riflessione quasi filosofica in un articolo dedicato alle disavventure di Luigi Di Maio con la lingua italiana, o no?). Ci sono, in realtà, tanti modi per scusare Di Maio (o il suo collaboratore): innanzitutto, dove sta scritto che per fare il vice presidente della Camera dei Deputati bisogna sciacquare i panni in Arno e parlare «la meglio lingua»? In secondo luogo, non è forse vero che l’italiano parlato è molto cambiato, e il congiuntivo è ormai una rarità? E tu che scrivi e che ti ergi a pontefice della lingua, sicuro che non hai qualche scheletro nell’armadio, qualche verbo sghembo e slogato nascosto in qualche articolo, o almeno qualche correzione dell’ultimora fatta grazie a un occhiuto correttore di bozze? Ancora: non sai che il purismo linguistico è roba da reazionari delle lettere, che i «grammar nazi» che girano in rete, pronti a lapidarti per l’uso improprio della punteggiatura, combattono una battaglia di retroguardia, già mille volte persa? Come si può pensare che l’italiano si mantenga uguale a se stesso nei secoli dei secoli, passando dalla meditata compilazione di una pagina alla concitata scrittura di un tweet? Se muore il congiuntivo, bisogna farsene una ragione. Muoiono ogni giorno parole e forme linguistiche, cambia ogni giorno la grammatica, che sarà mai la perdita di una coniugazione completa?  (Infine, immancabile: pensi forse che Di Maio perderà voti o non piuttosto li guadagnerà, grazie alla sua straordinaria naÏveté linguistica?).

Mi permetto di alzare la posta: tutto vero, tutto giusto. Ma se è così, che fine fa Ulrich? Ulrich è un altro personaggio letterario. Sta ne «L’uomo senza qualità» di Robert Musil, uno dei più grandi capolavori del Novecento. Ulrich possiede – e tiene in maggior conto del senso della realtà – il senso della possibilità: «chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talatra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa». Ma per articolare tutte queste riflessioni c’è bisogno di congiuntivi come dell’aria. Per non soccombere alla dittatura del presente, per non essere schiacciati dalla realtà, per non accontentarsi solo di ciò che è sotto mano, più vicino e più pratico, per dare senso e determinazione a nuove possibilità, e in definitiva: per pensare e per fare pensieri lunghi, di congiuntivi c’è assoluta, vitale, inderogabile necessità. Perché c’è il reale e c’è il possibile; c’è l’indicativo e c’è il congiuntivo; c’è l’affermazione e c’è la negazione. Ma se vi tenete solo l’uno, e rinunciate all’altro, certo non sbatterete mai contro una porta chiusa, però non avrete mai la più pallida idea di cosa potrebbe esserci di là, se invece fosse aperta.

(Il Mattino, 15 gennaio 2017)

Il filosofo grillino spara con le parole

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Non sarà l’ideologo del Movimento Cinque Stelle, però Paolo Becchi è perlomeno filosofo, e conosce quindi l’importanza delle parole. Sa perciò quel che dice, quando dice: «Se qualcuno tra qualche mese prende i fucili non lamentiamoci, abbiamo messo un altro banchiere all’Economia». Ora i deputati di Grillo hanno preso le distanze; Grillo stesso ha chiarito che Becchi non rappresenta il Movimento, perciò non proporremo alcuna interpretazione del rapporto che queste parole intrattengono con la retorica che il comico genovese ha messo in campo dal Vaffa Day in qua, a colpi di «Siete tutti morti!» e «Arrendetevi! Siete circondati!». Però prendiamo quelle parole esattamente per quel che dicono. Esse dicono che se il Presidente della Repubblica nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, un alto dirigente della Banca d’Italia al Ministero dell’Economia, è naturale, è nell’ordine delle cose che la gente si armi e spari. E quando accadrà, nessuno avrà il diritto di lamentarsi o di recriminare, perché l’una cosa è stretta conseguenza dell’altra. Questo dice Paolo Becchi, filosofo del diritto, il quale sa che la rivoluzione non è un pranzo di gala e che non si fa nessuna rivoluzione senza una buona razione di violenza armata.

Ovviamente, da un filosofo uno si aspetterebbe anche un briciolo di coerenza fra quel che dice e quel che fa. Ma il caso di Paolo Becchi è singolare: un ideologo della rivoluzione che, con la barba filosofica d’ordinanza, accetta volentieri comparsate in tv non s’era infatti visto ancora, sicché le velleità sovversive del professore finiscono facilmente per apparire semplici bizzarrie senili.

Le parole, però, restano di una gravità assoluta, anche se chi le ha pronunciate non finisse di coprirsi di ridicolo. Quelle parole suonano infatti minacciose per la democrazia stessa, non soltanto per il ministro Saccomanni o i suoi predecessori. La democrazia è, per essenza, il luogo della parola. Più precisamente è quel luogo in cui gli uomini accettano di regolare in forma pacifica, nel confronto verbale e nella forma rappresentativa della dialettica parlamentare, i conflitti di potere. Dopodiché essa concede a tutti il diritto di parola. Proprio a tutti, si potrebbe aggiungere: persino al professor Becchi e alle sue contundenti intemperanze, anche se queste si collocano sul suo bordo estremo, dal momento che si fanno interpreti, quando addirittura non caldeggiano, la violenza che è agli antipodi della politica come pratica delle parole.

Un altro filosofo un po’ più autorevole di Becchi, un certo Giorgio Federico Guglielmo Hegel, diceva che purtroppo al giorno d’oggi (e sotto questo aspetto la sua attualità – si badi – è la nostra stessa attualità, dal momento che noi come lui pensiamo la politica dopo l’esplosione rivoluzionaria del 1789 e la nascita della modernità politica), al giorno d’oggi ciascuno, come sta in piedi e cammina, così è convinto di poter intendersi di tutto e su tutto sentenziare. Così si spiega pure un Paolo Becchi che prende la parola per infiammare gli animi.

Ora, Hegel non era certo un campione di democrazia, e anzi la sua filosofia del diritto fu giudicata da qualcuno una giustificazione «scientificamente fondata» dello Stato di polizia. Ma Hegel in realtà ne sapeva dello Stato e delle forme di mediazione richieste dal suo funzionamento. E anche se non si può cercare in lui l’esaltazione della democrazia liberale e dei diritti dell’individuo, vi si può trovare il problema, di come cioè possa tenersi saldo un ordine politico nonostante l’inevitabile difficoltà che passi per pensare, e per libero pensare, pure quello del professor Becchi.

La democrazia deve quindi la sua legittimazione, come forma politica e non semplicemente come contenitore dei diritti fondamentali dell’individuo, alla capacità di «affermare il vero nelle pubbliche leggi». Così diceva Hegel, consegnandoci se non altro il compito di secernere verità nel dibattito pubblico e grazie ad esso, e di non accontentarci di un inerte e indifferente relativismo. Il compito, detto in altri termini, di mettere nelle parole di ogni spirito democratico tutto il peso e la gravità necessaria, per respingere con assoluta fermezza gli sputi rancorosi del professor Becchi.

Il mattino 3 maggio 2013

Eluana, dibattito senza umanità

Quando suonano a morto le campane delle chiese di Udine, Maria (Alba Rohrwacher) è già lontana, ha già lasciato le amiche e gli altri attivisti riuniti in preghiera dinanzi ai cancelli della clinica “La quiete”, dove Luana Englaro si è spenta. Perché allora non dovrebbero valere per lei le parole rivolte a Pietro: “prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”? Perché il rintocco delle campane, che invade lo schermo del film di Bellocchio, La bella addormentata, non dovrebbero lacerare la coscienza di Maria quanto il canto del gallo? Ma Maria è lontana per amore. La vita, la passione, la giovane età la portano lontano da dove le sue ragioni e convinzioni l’avevano fin lì condotta, e non importa se sia debolezza o forza, tradimento o buona fede: l’unica cosa che il film dimostra, è che la virtù e il corso del mondo non coincidono mai. Non nell’esistenza di Maria, ma neppure in quella degli altri protagonisti della pellicola, che nel momento decisivo, quando il presidente del Senato della Repubblica Italiana dà in aula la notizia pubblica della morte privata di una ragazza, si trovano tutti un passo prima o un passo dopo l’appuntamento che si erano dati con se stessi, con le loro proprie vite. Bellocchio non ha fatto un film a tesi: ha voluto offrire un grumo di storie che si raddensa negli ultimi giorni della vicenda Englaro intorno a un unico nodo, e all’impossibilità di scioglierlo senza che le esistenze non ne siano toccate, perfino straziate.

Nella vita, non nel Parlamento. Nel Parlamento, il decreto legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire con urgenza che “l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese” doveva contenere la soluzione: fermare il padre di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film ripropone.

Rivedendosi sul grande schermo, Quagliariello ha osservato giustamente che le storie raccontate nel film, mentre sullo sfondo si consuma la battaglia politico-parlamentare sul decreto Sacconi, non hanno nulla di simile al caso di Eluana: non si tratta in nessuna di esse del problema, posto da Beppino Englaro ai tribunali italiani, di rispettare la volontà della figlia, ricostruita in base a dichiarazioni e testimonianze. Proprio per questo, però, il film è in grado di consegnare alla nostra memoria la collera di Quagliariello come una delle scene madri della vicenda politica italiana degli ultimi anni. E se anche è vero che il film di Bellocchio contiene – come è stato scritto – troppe scene madri per considerarsi perfettamente riuscito, almeno dal punto di vista cinematografico, è anche vero che riesce invece a dirci, senza entrare nel dibattito legislativo sul fine vita, che cosa a quel dibattito, culminato nella stizza rabbiosa di Quagliariello, mancasse per davvero: l’umanità.

Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la morte, per cui non abbiamo da preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, e il film accumula situazioni in cui avviene questo incontro, una faccia del foglio si ripiega e si volta nell’altra, come in uno strano anello di Moebius in cui non si può stabilire qual è il recto e quale il verso. Queste situazioni hanno i nomi e le parole dell’amore, e del dolore, e Bellocchio presta ai suoi personaggi un tono a volte un po’ didascalico, o troppo sentenzioso, per distillarne il senso: ma non è vero che l’amore acceca, dice la giovane Maria. E il padre, il senatore Beffardi (Toni Servillo), che si appresta a votare tra molti tormenti in dissenso dal gruppo contro il decreto Sacconi: “il dolore non nobilita l’uomo”.

Mettendo con materiale d’archivio la politica sullo sfondo, il film suggerisce che di questa umanità non vi fu, in quella vicenda, quasi nessuna traccia. Non è un caso che le uniche riprese televisive proposte nel film (oltre a quelle legate a Eluana) riguardano uno straniante documentario sulla vita che gli ippopotami conducono in acqua: una vita-solo-vita, una vita interamente e sordamente naturale, muta come in una specie di acquario e sempre uguale. Ma non è vero che la vita e la morte rimangono uguali, come cantava Gucccini: rimangono tali solo se la vita viene fissata come nuda vita di contro alla morte, e la morte non viene vissuta come un’esperienza umana, di cui è possibile appropriarsi (se si è laici) o in cui (se si è credenti) è possibile affidarsi.

Ma non è vero neppure, ed è l’unico appunto che vorremmo muovere al film, al di là del suo valore estetico, che la politica è solo una commedia macabra e farsesca, e che l’unico politico serio è quello che si dimette e lascia lo scranno di senatore, invece di urlare rancoroso in Parlamento. Anche la politica ha una sua nobiltà. Che può ritrovare, se rinuncia a far coincidere il corso del mondo (magari con la forza di una pretestuosa decretazione d’urgenza) con le nostre esacerbate virtù, e prova invece ad alleviare il peso della loro mancata coincidenza nelle vite di ognuno di noi, mettendolo in un destino comune.

L’Unità, 9 settembre 2012

Hegel: la logica del mondo globale

Chi se la sente di celebrare Hegel? Chi se la sente di celebrare la Scienza della Logica, il cui primo volume, la «Dottrina dell’essere», compie oggi duecento anni? Primo e in certo modo ultimo, dal momento che Hegel ne cominciò la revisione poco prima di morire, così che rimane di fatto il suo testamento filosofico. Ma chi affiderebbe oggi il proprio lascito spirituale a un’opera che pretende, nientemeno, di esporre il regno della verità, ovvero: “Dio  com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito”. Diciamolo francamente: nessuno. Da un bel po’ di anni i filosofi, e non solo loro, si sono così abituati all’idea che di verità supreme non c’è modo di stabilirne che accettano di buon grado di lasciare ad altri saperi, per esempio alla scienza, le indagini intorno ai fondamenti ultimi della vita o dell’universo, e si accontentano o di un conciliante relativismo, oppure di affermare piccole verità intorno a oggetti di formato quotidiano – montagne, ciabatte o cacciaviti – tutto il resto essendo abbandonato al mutevole gioco delle individualissime opinioni.

Hegel, invece, no. Eppure in quel lontano 1812 accadevano nel mondo fatti di tale portata, che non era mica così facile orientarsi nel pensiero: figuriamoci fare dell’idea assoluta l’unico contenuto della filosofia! Napoleone, per esempio, aveva sistemato il fratello Giuseppe sul trono di Spagna, e aveva avviato i preparativi per l’invasione della Russia. Le cose gli andarono male su entrambi i fronti: in Russia l’armata francese fu disfatta, da Madrid Giuseppe fu cacciato. L’“anima del mondo a cavallo” – così Hegel aveva definito l’imperatore apparso nel 1806 per le vie della sua città, Jena  – cominciava a claudicare un po’, e però il filosofo ne continuava a vedere, a ragione, il significato storico-universale.

E questo è un primo, ottimo motivo per non trascurare l’anniversario. Con Hegel, la filosofia si fa definitivamente consapevole della sua responsabilità pubblica. Hegel è il primo filosofo che interroga sistematicamente la posizione della filosofia e del sapere in generale rispetto al mondo. Prima di lui, i filosofi potevano trascurare di considerare da quale tribuna parlassero: collocati in quale angolo di mondo, parlando quale lingua, appartenendo a quale tradizione e anche, perché no?, vivendo e lavorando dentro quale sistema economico e politico. Tutte domande che solo con Hegel diventano ineludibili: se Cartesio e Kant avevano scoperto in filosofia il soggetto, Hegel ne ha arricchito, e di molto, il profilo. Il soggetto non è più un distaccato osservatore della natura, ma un uomo immerso nel mondo, che porta su di sé la responsabilità di condurre non solo i suoi privati pensieri, ma l’intera sua epoca al concetto, cioè ad un sapere razionale libero.

Che c’entra però la Scienza della logica, uno potrebbe dire? Questa è piuttosto materia della filosofia politica. E in effetti è nei famosi, anzi famigerati, Lineamenti di filosofia del diritto che Hegel formula espressamente questo problema: la collocazione della filosofia nella realtà. Siccome però la realtà nel frattempo era cambiata e l’ordine era stato restaurato: Napoleone era finito a Sant’Elena e la tempesta gallica era passata, eccolo tromboneggiare dalla più ambita cattedra tedesca di filosofia, a Berlino, contro l’assurda pretesa di ciascuno di dire la propria su questo e su quello, e soprattutto sullo Stato.

Questa è lo Hegel dipinto come illiberale quando in Europa, dopo la sua morte, torna a soffiare forte il vento della rivoluzione: prima liberale, poi democratica e socialista. Lo Hegel dello Stato etico, dello Stato totalitario: da giovane credente negli ideali della rivoluzione francese, nella maturità fervido fiancheggiatore della polizia prussiana. Il giudizio sullo Hegel politico resta, in effetti, controverso, ma va riconosciuto che nel suo sistema non si trovano né l’idea di una sfera pre-politica di diritti fondamentali, né la concezione liberale della separazione dei poteri, né il principio democratico del suffragio universale. Non si trovano, insomma, i lemmi fondamentali del lessico politico contemporaneo.

Poi però uno entra nelle pagine hegeliane, e vi trova ad esempio una coscienza acuta dell’insufficienza del gioco spontaneo degli interessi a comporre l’unità politica fondamentale che non è affatto inutile rimeditare. Trova le pagine sulla società civile, sulle quali nei decenni scorsi si interrogava tanta parte dell’intellettualità di sinistra in Italia e non solo (da Biagio De Giovanni a Giacomo Marramao a Roberto Racinaro, per fare solo qualche nome) e si accorge nuovamente che gli anatemi liberali passano di molto a lato dei nostri problemi attuali. Se la lasci fare, diceva Hegel, la società civile forma pochi sempre più ricchi da una parte, e molti sempre più poveri dall’altra: non un problema da poco, e non un problema che più non ci riguardi.

Problema che Hegel voleva mettere nel pensiero (e ricomporre grazie allo Stato). Non dunque risolverlo solo in teoria, lasciando in pratica le cose come stanno. Al contrario (al contrario anche di quanto pensava Marx), per Hegel si trattava di dare ai pensieri un posto nel mondo. E farlo in forza dell’idea che senza pensieri, senza un’unità di senso, il mondo non si tiene, e che il solo urto delle forze economiche non basta a fare un mondo.

I pensieri, a loro volta non provengono solo dalla testa delle persone, ma dal mondo stesso. Certo, l’individualismo resiste all’idea che i pensieri vanno raccolti non semplicemente dalle parole di ciascuno, ma nelle cose e tra le cose: costituiscono, diceva Hegel, l’automovimento della cosa stessa. Ma prendete pure tutte le prudenze del caso – e prendetele, invero, assieme allo stesso Hegel, il quale sapeva bene che il mondo cristiano-borghese aveva ormai introiettato definitivamente il valore infinito della soggettività – come non vedere che i pensieri sono contenuti rappresi negli oggetti del mondo, nei libri come nelle automobili, nelle leggi come nei computer? La Scienza della Logica non modula in fondo che quest’unico pensiero. E quanto sarebbe salutare se qualche filosofo lo coltivasse ancora, invece di tirare i remi in barca e rassegnarsi a dar forma alle proprie personali idiosincrasie.

Alla fine, cosa insegna infatti la Scienza della Logica? Che la libertà anche per il pensiero è una conquista. “Assoluto” vuol dire infatti solo “assolto”, sciolto cioè da vincoli e legacci che il mondo, quando ne subiamo la logica, ci impone. Pensare liberamente è possibile non fuggendo via nei propri privatissimi pensieri, ma immettendosi nel mondo e dopo averlo tutto pensato, tutto portato al concetto. E, a pensarci, la prima liberazione, quella del singolo individuo, è roba di pochi; l’altra, invece, è roba che non può non investire i molti, anzi potenzialmente tutti.

L’Unità, 28 aprile 2012

Hegel


CONGRESO INTERNACIONAL

 LÓGICA DE LA CONSTITUCIÓN, CONSTITUCIÓN DE LA LÓGICA

(A la luz de 200 años de la Ciencia de la Lógica, de hegel).

16-20 de abril de 2012

Círculo de Bellas Artes – Departamento de Filosofía de la Universidad Autónoma

Colabora el Instituto Goethe de Madrid

PROGRAMA

FACULTAD DE FILOSOFÍA Y LETRAS

UNIVERSIDAD AUTÓNOMA DE MADRID (CANTOBLANCO)

(13 HORAS)

SALA DE CONFERENCIAS (PLANTA BAJA)

 LUNES, 16 

Prof. Massimo Adinolfi: Hegel y el ateísmo del mundo político.

  SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

MARTES, 17

Prof. Román G. Cuartango: Lógica de la Idea y comprensión especulativa del Estado.

SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

MIÉRCOLES 18

Prof. Ernesto Forcellino: El lugar de la lógica, entre el arte y la política.

SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

JUEVES 19

Prof. Jacinto Rivera de Rosales: Constitución y realidad efectiva histórica.

(CÍRCULO DE BELLAS ARTES)

TARDES, 19.30 HORAS

LUNES 16 DE ABRIL – MODERA: Jorge Pérez de Tudela

Bernard Bourgeois :  Lógica del Estado y Estado de la Lógica

Jean-François Kervégan: La ciencia de la idea pura

 MARTES 17 DE ABRIL – MODERA: Valerio Rocco

José Luis Villacañas: Sattelzeit y Ciencia de la Lógica: el caso español de Cádiz 1812.

MESA REDONDA – Luciana Cadahia / Antonio Gómez / Valerio Rocco / Gonzalo Velasco: Sujeto, historia y política.

MIÉRCOLES 18 DE ABRIL – MODERA: Félix Duque

Jorge Pérez de Tudela : Sobre la antigua pasión de los hombres por levantar monumentos.

Vincenzo Vitiello : La constitución lógica de la Objetividad. La cuarta forma del silogismo hegeliano.

 JUEVES 19 DE ABRIL – MODERA: Félix Duque

Klaus Vieweg : El Estado como ‚Sistema de tres silogismos‘. La fundamentación lógica hegeliana de la idea del Estado.

Walter Jaeschke: Una nueva configuración del pensar y la realidad.

VIERNES 20 DE ABRIL -MODERA: Jorge Pérez de Tudela

Juan Manuel Navarro Cordón: Individuo y Estado.

Félix Duque: Sujeto y libertad.

Non toccate la domenica

Se non c’è domenica non c’è più tempo eccezionale: non c’è interruzione né rinascita, non rigenerazione né ricominciamento. Almeno così pensano gli antropologi, più preoccupati dei sindacati per l’apertura domenicale degli esercizi commerciali. L’impressione è che non basta rievocare i significati simbolici connessi al tempo festivo: il valore economico di una giornata lavorativa in più li spazza via tutti. Come se il riposo o la festa fossero tempo sprecato; e siccome non c’è più da scialare, non possiamo permetterci nemmeno la calma magnificenza di una giornata trascorsa a rigirarci i pollici da mane a sera.  Per non rinfocolare polemiche fuori luogo, non chiederemo se il governo in carica non sia la prosecuzione della politica di Berlusconi con altri mezzi: troppo evidenti sono le diversità. Però questa cosa che una domenica in cui tutti insieme si porta a spasso il cane, si vede la partita, si comprano i dolci o si fa una gita fuori porta – che una domenica così, un po’ diversa dagli affanni di ogni giorno, sia un lusso insostenibile sembra prolungare l’eco di quel che diceva un certo ministro del precedente dicastero, per il quale con la cultura non si mangia. La cultura è di troppo, insomma, e pure la domenica.

Ma che c’entra la cultura? C’entra e come, c’entra quanto l’Estetica di Hegel. Non perché vogliamo i musei aperti anche di domenica (e questo è giusto), ma perché commentando l’esistenza “retta e serena” rappresentata nella pittura olandese rinascimentale, Hegel aveva trovato questa felice espressione: sembra di vedere la domenica della vita. Le scene popolaresche erano per lui colte, in quei dipinti, nel loro momento ideale: in letizia e schiettezza, in freschezza e serenità. E siccome i temi del lavoro e della vita contadina entravano per la prima volta nella storia della pittura, a fianco di dei ed eroi, santi ed altezze reali, il filosofo assicurava: le persone che sono così cordialmente di buon umore, in osteria o nel mezzo di una festa, “non possono essere del tutto cattive e basse”. E voglio vedere: se posso posare la vanga e bermi un buon bicchiere, dopo una settimana di duro lavoro, anch’io, che sono contadino, tocco il mio momento ideale.

Ora invece che con la domenica, a quanto pare, abbiamo chiuso, il momento ideale s’allontana, e pure il connesso buon umore.  Il fatto è che però, riducendo la domenica a un giorno come gli altri, non si eliminano solo i circoletti rossi sul calendario (provate però a vedere che effetto fa una sfilza di numeri tutti neri, tutti uguali), ma si cancellano anche due o tre cose a cui dovremmo tenere. La prima vale per i cristiani: è il precetto di santificare le feste, di celebrare l’irruzione del tempo di Dio nel tempo degli uomini. Ma le altre due dovrebbero valere un po’ per tutti, perché ne va del famoso significato antropologico, e quello non è uno scherzo, se resiste da diverse migliaia di anni. Padre Enzo Bianchi lo presentava così: c’è una qualità di vita da salvaguardare, e c’è, soprattutto, la necessità di un giorno in cui gli uomini “simultaneamente riposino per potersi incontrare”. Qualcuno penserà forse che, se non si riposa tutti insieme, la domenica si farà meno fila ai caselli autostradali: è probabile, anche se sarebbe bene tornassimo a considerare importante la qualità di vita del lavoratore, non solo quella del consumatore.  Ma è dell’idea che ci si possa incontrare insieme che si sono perse le tracce. E se non si fa questione del solo tempo religioso, perché viviamo in uno Stato laico, non si tratta nemmeno del solo tempo libero, e di come andare insieme al cinema o allo stadio. Si tratta invece di un tempo collettivo che è pur’esso prezioso, legato com’è all’esistenza politica dell’uomo, alla sua dimensione costitutivamente pubblica.

Certo che però se si ritiene che no, gli uomini conducono un’esistenza autentica solo nel privato, allora non si capisce proprio a che serva la domenica, e un semplice esercizietto econometrico ne potrà dimostrare tutta l’inefficienza.

L’Unità, 5 marzo 2012

Il padrone dei media

Il titolo completo recita: “Il Sessantotto realizzato da Mediaset ovvero il conflitto di disinteresse e inoltre la Grande Rimozione della Vittima in un Dialogo agli Inferi fra Machiavelli e il Tenerissimo”. Il testo di Valerio Magrelli, di cui presentiamo un estratto – l’inizio dell’Atto terzo – ha la forma di un «dialogo con i morti»: genere letterario minore ma, come spiega l’autore, ricorrente nella cultura europea. E si capisce perché: quando la realtà compie una capriola, e si presenta quasi rovesciata, occorre procurarsi un punto di vista ben distante, per osservare il rovesciamento e non rimanerne catturati. Si guarda la vita dagli inferi, quando la vita assume connotazioni quasi infernali. Un tempo di questi meccanismi si occupava la dialettica: ma chi osa più servirsi di un simile ferro vecchio? Hegel aveva addirittura coniato l’espressione: die verkehrte Welt, il mondo rovesciato, e dopo di lui si sono susseguiti numerosi tentativi di rimettere il mondo sui suoi piedi, a testa in su. Con esiti, è vero, quasi sempre disastrosi. Anche di questi funesti rovesciamenti abbiamo uno specchio letterario: il geniale rivoluzionario Sigalev, nei Demoni, autore di un piano di emancipazione universale, che si conclude, ahilui, con il dispotismo illimitato.

Il fatto però che piani come quelli dell’ideologo Sigalev finiscano in malora non deve impedirci di vedere tutte le storture del nostro tempo. Un’opera di fantasia – così definisce Magrelli il suo dialoghetto, nella breve avvertenza premessa al testo – non è meno un’opera di verità. E non affronta con minore serietà, nonostante il tono leggero, il problema di cui non ci si è potuti a lungo capacitare: com’è possibile, leggiamo a un certo punto, che in un paese in declino una maggioranza di italiani progressivamente impoveritasi abbia dato convintamente il proprio voto all’uomo più ricco e più potente del paese, «il padrone dei media»? La parte del testo che pubblichiamo contiene qualche elemento di una possibile risposta. Ma uno di essi si trova già nel lungo titolo sopra riportato: non c’è stato in Italia solo un gigantesco conflitto di interesse, mai regolato o mal regolato, c’è stato anche – e in parte c’è ancora – un altrettanto grande conflitto di disinteresse. La domanda, diviene allora, per noi: com’è possibile ricostruire un interesse, si direbbe quasi una nuova sensibilità, per la cosa pubblica, per i beni comuni, per il diritto e per i diritti di tutti?

Questo fascicolo di Tamtàm intende favorire, in tutti i suoi contributi, l’opera di ricostruzione civile del Paese che il partito democratico giudica oggi necessaria. È un’opera che passa anche per un (non facile) scioglimento del disinteresse che circonda lo stato della cultura – e in particolare dell’istruzione e della formazione. Ed è per questo motivo che pubblichiamo il testo di uno dei nostri maggiori scrittori su questi anni. Non scomodiamo la parola «impegno», per non riaprire in forme trite e stucchevoli la questione del rapporto degli intellettuali con la realtà, ma possiamo provare a dire (con le parole di un intellettuale del nostro ‘900, che vi ha riflettuto a lungo) che ci sono stati certo tempi in cui la politicità saturava l’arte o la letteratura, fino a soffocarla, ma vengono pure tempi in cui un’insufficienza di politicità rende la letteratura vacua e oziosa. E forse è da questi ultimi tempi che dobbiamo allontanarci. Magrelli lo fa. Nella direzione di Kant, più che di Hegel:  dalla parte del «legno storto dell’umanità» che invano i Sigalev proveranno a raddrizzare, ma anche con tratti di intransigenza morale e l’invito, rivolto alla sinistra italiana, a reinventarsi «realistica, oggettiva, pragmatica», senza fuggire dinanzi ai problemi o accontentarsi di mere enunciazioni di principio.

Nel libro, l’autore si congeda dal lettore ricordando una pagina di Filippo De Pisis sulle solfatare di Pozzuoli. De Pisis vi descriveva lo spettacolo (ad uso dei turisti) del cane che, avendo respirato le esalazioni della fangaia, dapprima danza in stato di ebbrezza, poi stramazza esausto al suolo. Una metafora del rapporto fra lo scrittore e la società: «nella figura di chi si occupa di letteratura, io non riesco a scorgere né una sentinella, né un soldato d’avanguardia, né un antesignano, né un diagnosta, ma semplicemente una cavia: il cane che cade per primo». Ma perché non pensare anche al primo che si rialza, e a come rialzare il Paese?

Il dialogo è stato completato nel giugno 2011, ma pubblicato solo a novembre. Magrelli ha fatto a tempo a inserire un Post scriptum, steso quindi a ridosso del cambio di governo e dell’uscita di scena di Berlusconi, in cui formula l’augurio che «queste pagine risultino tanto meno urgenti per il presente, quanto più istruttive per il futuro».  Ecco: perché siano istruttive, bisogna pensare che l’ebbrezza passi, e che il cane e il paese si rimettano per davvero in piedi.

(Questo testo introduce lo stralcio del libro di Valerio Magrelli, Il ’68 realizzato da Mediaset, Einaudi 2011, pubblicato dalla rivista del Partito Democratico) Tamtàm

Questioni di antropologia economica: oltre l’utilitarismo

Tra gli effetti della crisi economica e finanziaria che ha investito l’Occidente negli ultimi anni si possono mettere anche le parole con le quali Chris Hann e Keith Hart aprono la loro recente sintesi sullo stato attuale dell’antropologia economica: scrivono infatti che la crisi “ha opportunamente dimostrato che la questione non è soltanto un affare da eruditi antiquari” (prosegue su tamtàm democratico

Cambiare o morire. Partiti alla prova

Formidabile quest’anno. Cominciato con le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia e la vigorosa riscoperta del sentimento nazionale, si affretta verso la conclusione con la sensazione che nulla è scontato, nemmeno la coesione nazionale. Cominciato con la memoria dell’Italia che ce l’ha fatta, si conclude con i dubbi e gli interrogativi sull’Italia che ce la può, perché ce la deve, fare. Cominciato con un governo, finisce con un altro, ma l’impressione è che in gioco ci sia molto più che non la durata di un esecutivo; che in via di definizione sia l’assetto dell’intera legislatura prossima ventura e forse di un’altra Italia, quella che verrà fuori dalla crisi della seconda Repubblica.

All’orizzonte, ovviamente, non c’è nessun Napoleone, e quindi è difficile entusiasmarsi (o atterrirsi) per l’incedere dello spirito del mondo a cavallo, come accadeva a Hegel poco più di duecento anni fa. Però è indubbio che qualcosa si è messo in moto, e che quel che si è messo in moto ha la forza di un mutamento storico. Sembra proprio che la storia, con buona pace di Fukuyama che ne aveva celebrata festosamente la fine, non sia ancora giunta all’happy end. Tutt’altro.

Orbene, con quali strumenti è possibile affrontare cambiamenti di così ampia portata, quali quelli che si annunciano per gli anni a venire? In Italia, da qualche turno elettorale in qua, quel che ci è rimasto dei partiti si sforza di trovare il proprio ubi consistam intorno a una cosa chiamata programma. Ma il programma di un partito, ormai privo di un chiaro profilo culturale e ideale, non è molto diverso da un decreto mille-proroghe: si riempie delle istanze più diverse, per mera accumulazione. Per dare unità a quello che altrimenti sarebbe solo un disparato elenco di cose da fare, si è pensato di investire sulla comunicazione. Anche se a monte non c’è più nulla, o forse proprio per questo, qualcuno avrà pensato: facciamo comunque in modo che ci sia qualcosa a valle. E siccome comunicare è, anzitutto, semplificare, quale migliore semplificazione del partito personale? Questo processo si è quindi presentato nella forma più pura là dove non è stato affatto il partito a cercarsi un leader, bensì piuttosto il leader a dotarsi di un partito.

Ora, nessuno rimpiange sintesi ideologiche capaci di chiamare in causa l’interpretazione del corso del mondo anche quando si trattava di parchi marini o di dimensioni e colori dell’etichettatura merceologica, ma è chiaro che se davvero è in gioco la tenuta del paese, il senso stesso della presenza dell’Italia in Europa e un riallineamento geopolitico di portata globale, solo una forza (e una nazione) che abbia cultura politica e senso storico può farcela.

A Hegel toccò una volta di dover rispondere, in aula, a un certo signor Krug, che gli aveva chiesto di dedurre dal sistema della filosofia – se poteva – la sua penna. Hegel non si scompose. Replicò che lo si sarebbe potuto anche fare, non prima però di essersi occupati di tutto ciò che in cielo e in terra vi è di più importante della penna del signor Krug. Guai dunque a rispolverare vecchi dogmatismi e intollerabili spiriti di sistema; e dunque: niente presunzioni intellettuali o, peggio, fanatismi ideologici. Ma non è indispensabile avere ancora partiti capaci di definire il senso delle priorità nazionali, la misura di una sfida di portata epocale, e i punti in cui la teoria deve tornarsi ad applicarsi alla realtà storica? Noi ci troviamo in uno di questi punti, in uno di questi tornanti. Lo diceva anche il ministro Tremonti, la bellezza di un anno e mezzo fa: “L’intensità del fenomeno che viviamo è storica e ha modificato tutti i paradigmi, dalla politica all’economia. Non siamo dentro una congiuntura ma in un tornante della storia. È difficile da commentare standoci dentro”. E infatti è stato sbalzato fuori. Ma pochi si possono permettere di fare dell’ironia, perché tutti rischiano di fare la stessa fine, senza un’adeguata consapevolezza di ruoli e compiti.

È inevitabile: in una crisi si entra in un modo, si esce in un altro. L’unica differenza la fa la capacità di orientare i cambiamenti, e non semplicemente di subirli. I partiti che verranno saranno quelli che, senza più alleggerimenti o imbellettamenti postmoderni, in mezzo o alla fine ci saranno riusciti.

Il mattino, 23 dicembre 2011

Spinoza. La politica e il moderno

E’ uscito il fascicolo 1/11 della rivista Il Pensiero (ESI), disponibile in libreria, dedicato a Spinoza. La politica e il moderno, e da me curato. Dentro vi trovate: B. De Giovanni, Spinoza e Hegel. Dialogo sul moderno; M. Adinolfi, Res quae finitae sunt. Qualche riflessione sui fondamenti ontologici dei concetti politici spinoziani; F. Pellecchia, Essenza dell’amore nell’Etica di Spinoza; Ch. Ramond, Sedizione, ribellisione e insubordinazione nella filosofia politica di Spinoza; C. Sini, Dall’etica di Spinoza a Nietzsche: profezie di un’etica futura? (e inoltre A. Gatto, Di un’impossibile confessione. Il soggetto cartesiano e la libera creazione delle verità eterne, V. Vitiello, De Trinitate. In dialogo con Piero Coda.

Qui sotto inserisco la premessa che ho scritto per la presentazione del fascicolo:

“Essere spinoziani, è l’inizio essenziale del filosofare”, così sentenziava Hegel, nelle lezioni di storia della filosofia. Celebre ma velenoso complimento, dal momento che per Hegel l’inizio è appunto soltanto un inizio: manchevole di tutto ciò che dall’inizio viene. E manchevole fin dall’inizio, visto che fin dalla prima definizione della sostanza, fin dal concetto “veramente speculativo” di causa sui, Spinoza manca per Hegel di svolgere quel che nell’inizio è contenuto.  Resta vero però che per il filosofo di Stoccarda lo spinozismo non ha mai cessato di essere una posizione fondamentale del pensiero, “un punto talmente importante della filosofia moderna – così riteneva – che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo”.

Non sorprende dunque che tutta la storia della filosofia moderna, nonostante anatemi e maledizioni, non abbia mai smesso di misurarsi con Spinoza: da Leibniz, che secondo Hegel rappresentava “l’altro lato del centro spinoziano, cioè l’esser per sé, la monade”, l’individualità, insomma, di contro all’essere in sé dell’unica sostanza , a Kant, che non sembra aver scritto la Critica della ragion pratica per altre ragioni che non fossero la  più rigorosa confutazione dello spinozismo; dal giovane Marx, che ricopiava diligentemente Spinoza nei suoi quaderni di appunti, a Nietzsche, che si entusiasmò alla scoperta di avere nell’ebreo di Amsterdam una gran “razza di precursore”.

Anche il ‘900 non ha mancato di cimentarsi col suo pensiero, anche grazie a un significativo accrescimento degli studi storiografici: dai lavori quasi pioneristici di H. A. Wolfson e L. Robinson sull’Etica sino ai due grossi volumi sistematici di Martial Gueroult su Dio e l’anima; dall’opera classica di Paul Vernière sulla fortuna di Spinoza nel pensiero francese prima della Rivoluzione, alle più recenti ricerche di E. M. Curley o di Y. Yovel (ma anche, in Italia, ai lavori di P. Di Vona, P. Cristofolini, F. Mignini, E. Giancotti e altri). A partire dagli anni Sessanta emergono anche nuove, robuste interpretazioni filosofiche, soprattutto in terra francese. Basti pensare ai testi deleuziani su Spinoza e l’espressionismo in filosofia, o alle nuove letture di Alexandre Matheron su individuo e comunità ed Étienne Balibar sul transindividuale in Spinoza, ma anche al libro di Antonio Negri sull’ontologia sovversiva dell’olandese.

Questa sorta di Spinoza-Renaissance, che data grosso modo dalla fine degli anni Sessanta e coincide almeno in Italia con una certa crisi del mainstream storicista, è in effetti segnata dall’attitudine a presentare il pensiero spinoziano come un’alternativa all’hegelismo. In odio alla dialettica, ma anche come rimedio agli sdilinquimenti post-moderni, Spinoza è parso offrire un modello di pensiero capace di collocarsi in un mondo finalmente copernicano, ‘più grande’ di qualunque coordinata critico-trascedentale o esistenziale-negativa, e in grado pure di catturare quella “commistione fra argomentazione razionale e scuola di vita”, come ha scritto M. E. Scribano, ossia fra ontologia ed etica, che sembra riprendere un altro tratto fondamentale delle preoccupazioni della filosofia contemporanea – quella, almeno, non isterilitasi in inutili formalismi.

Nel fascicolo che presentiamo al lettore qualcosa di questo ampio fascio di problemi e prospettive si può forse cogliere, anche se con accenti di misurata sorvegliatezza e secondo percorsi a volte anche critici rispetto a certe abitudini interpretative, classiche o moderne che siano. È quel che si coglie anzitutto nel saggio che apre il fascicolo. Biagio De Giovanni torna infatti proprio sul confronto fra Spinoza ed Hegel: non però per riproporre lo schema tradizionale di un superamento del primo nel secondo – secondo l’interpretazione suggerita da Hegel stesso e accolta dall’idealismo italiano, da Spaventa a Gentile – ma neppure per disegnare un’opposizione ineludibile tra i due, come nella lettura di Pierre Macherey e in generale in quella linea del marxismo francese, di stampo althusseriano, che mira a riconnettere Marx a Spinoza ‘saltando’ a piè pari la mediazione hegeliana, bensì per presentarli insieme, come “due rappresentazioni della crisi del moderno”, due “filosofi del negativo, della lotta fra adeguato e inadeguato che mai ha termine, e, in forme assai diverse, della potenza del negativo che si porta dietro l’irrequietezza della vita, la quale comprende dentro di sé anche l’esperienza della morte”.

Di un cammino decisamente fuori della tradizione onto-teologica, in particolare nella sua configurazione moderna, parla invece Carlo Sini, che nel primato spinoziano dell’etica vede profilarsi “il destino ultimo della metafisica, ovvero il suo definitivo superamento”, in virtù della crisi dell’ordinamento morale del mondo, di stampo platonico-cristiano, che si profila già in Spinoza e trova infine in Nietzsche il suo definitivo annuncio. Quel primato, l’esigenza pratica di liberazione si svolge nel luogo della teoria solo per “quel tanto che, nonostante la finitudine umana, è indispensabile e sufficiente sapere per un vivere saggio e «adeguato», o adeguatamente felice”.

Non è dunque lo Spinoza consueto quello che così si profila, lo Spinoza del Pantheismusstreit acceso da Jacobi contro Lessing, lo Spinoza che cancella il finito nell’unica sostanza e s’acquieta in un finale sapere assoluto, bensì quello che dal finito e nel finito, secondo dunque la capacità e la misura del ‘modo’, si es-pone con serenità al movimento della vita infinita.

Completano la sezione monografica del fascicolo i saggi di Ramond, Pellecchia e Adinolfi, che toccano punti sensibili dell’attuale confronto con il pensiero spinoziano. Con gli strumenti dell’analisi testuale, Charles Ramond polemizza apertamente con l’idea di Spinoza teorico della rivoluzione, e approda a un’idea della democrazia formale ed esteriore, nient’affatto deleuziano “regno della potenza intensiva”, che contrasta apertamente l’ontologia politica della multitudo. Nel testo di Pellecchia viene invece affrontato uno degli assi portanti dell’antropologia spinoziana, quello che si fonda sulla passione dell’amore, e sul progetto etico di trasformazione che lo conduce sino alla sua dislocazione nella figura culminante dell’amor Dei intellectualis. Lo scrivente, infine, prova a saggiare teoreticamente le forme del rapporto tra ontologia e politica, con particolare riguardo all’infrastruttura concettuale impiegata da Balibar per introdurre la nozione del transindividuale, in un tempo in cui torna forse a riproporsi l’esigenza di connettere la politica con spezzoni di teoria generale della realtà o della storia. Il volume è completato da una lettura di Descartes, volta a saggiare limiti e condizioni dell’”esorcismo” con il quale il cogito, inaugurando la modernità, ha provato ad assicurare se stesso contro la potentia Dei, un movimento di pensiero antipodale rispetto al de Deo con cui comincia Spinoza, che pure non poté non formare il suo linguaggio proprio nel confronto con Descartes – suo contemporaneo capitale, per dirla con Henri Gouhier.

Tutto ciò, naturalmente, con le cautele del caso. È noto che il motto che Spinoza scelse come sigillo della propria corrispondenza recava appunto la parola “caute”. Con la quale forse il pensatore olandese si riferiva meno alla propria attitudine a procedere cautamente – sulla falsariga del larvatus prodeo cartesiano – che all’invito a maneggiare il suo pensiero con tutte le precauzioni necessarie. Non solo perché gravava su di lui il sospetto di ogni possibile nefandezza, tanto che in vita poté pubblicare soltanto i giovanili Principi della filosofia di Cartesio, e, anonimo, il Trattato teologico-politico, ma perché la sua filosofia, ossia l’Ethica, quella filosofia che, sola, intendeva fosse vera e che però sapeva costituire una sfida aperta alla “religione costituita”, non smette ancora oggi di provocare il pensiero.

 

La normalità e l’anomalia al tempo di Monti

Ieri tutti i giornali dicevano: una fiducia da record. E si capisce: 556 voti favorevoli, 61 contrari, il governo Monti ha stracciato ogni precedente. Non solo, ma si è anche costituito in tempi eccezionalmente brevi: meno di una settimana. Questi numeri non sono normali. Segno di una fase di emergenza che il Paese attraversa, e che ha richiesto decisioni rapide ed efficaci, oltre che grande senso di responsabilità da parte di tutti gli attori, politici e istituzionali. Ma se nessuno si metterà a fare l’elogio della lentezza o l’apologia della flemma, resta vero che a introdurre l’ossessione dei record in politica è stato Silvio Berlusconi, e fare i conti con la sua eredità significherà anche decidere se lasciarsi afferrare o meno da una simile ansia da prestazione.

Da dove viene, però, la smania dei record? Da più lontano e da un altro ambito. Viene dallo sport, che per Robert Musil è stata la vera invenzione del Novecento. Ulrich, il giovane protagonista de L’uomo senza qualità, era capace di tirare in ballo gli allenamenti sportivi per spiegare addirittura le esperienze mistiche, e la cosa poteva funzionare, perché mentre “lo sport è un fatto contemporaneo, la teologia è cosa di cui non si sa quasi niente”. Con la  «discesa in campo» di Berlusconi, non è accaduto lo stesso? Non ha invaso lo sport anche la politica? Non è per la stessa ragione che Maurizio Crozza ha presentato in tv la squadra di ministri come fosse una formazione di calcio, con allenatore il sottosegretario Catricalà e direttore di gara Mario Monti?  Perché meravigliarsi dunque se si vuole che il governo macini record su record? E la stessa storia dello spread: non è di nuovo una faccenda di primati?

È anche altro, naturalmente. E non è neppure il caso di prenderla anto sportivamente, visto che ne va dell’equilibrio finanziario del Paese. Ma poiché da parte di tutti c’è la consapevolezza che con il nuovo governo si chiude un’intera stagione politica e si apre una fase nuova, di ricostruzione morale e civile del paese, perché non riflettere anche su elementi della cultura politica di questi anni, per vedere se anche lì non ci sia qualcosa da ricostruire? In effetti, se non c’è nulla di male a trovare analogie sportive per i fatti della teologia, nulla di male vi sarà neppure a servirsi di termini calcistici per intendere la politica: ma un conto è analogare, un altro identificare, applicando la stessa logica all’uno e all’altro ambito. È invece la vita delle istituzioni non si presta gran che alla fame di record delle competizioni sportive, e si orienta invece in base ad altri parametri. All’opposto dei numeri ad effetto non c’è infatti solo la retorica della pacatezza, ma stanno anche continuità, solidità, serietà, la capacità di dispiegare gli effetti della propria azione in un arco di tempo lungo, senza fretta né gare, senza risultati da polverizzare o avversari da sbaragliare. La mediazione invece della furia del dileguare, per dirla addirittura con Hegel.

Il Presidente del Consiglio sembra esserne consapevole. Nel primo discorso tenuto al Senato, ha sottolineato ad esempio che, in tema di riforme, bisognerà certo aver presente lo stato dei conti, ma essere anche determinati ad introdurre principi la cui validità si estenda ben oltre la contingenza. Se d’altra parte l’imperativo unico fosse esclusivamente fare cassa, ben difficilmente si riuscirebbe a mantenere fede all’impegno di equità preso con il Paese. In ogni caso, ragionare di riforme considerandone gli effetti strutturali, lenti ma progressivi, è indice di un approccio ben diverso da quello che ispirava le conferenze stampa di Berlusconi, capace di annunciare riforme a grappoli, a decine, pur di dimostrare di aver battuto ogni record in materia – poco importa se per riforme si intendesse di tutto e di più, e se oltre l’effetto annuncio non si è riusciti ad andare quasi mai.

Non è il caso, ora, di coltivare nostalgie democristiane. Ma è vero quello che proprio ieri ricordava il neoministro della cooperazione Andrea Riccardi, su un terreno tra i più delicati che nei prossimi mesi sarà forse sondato dalle forze parlamentari: la DC era contraria al maggioritario perché temeva una legislazione a corrente alternata, un sistema elettorale che a ogni nuovo cambio di legislatura costringesse, con nuove maggioranze, a ricominciare tutto daccapo. Una vittoria dell’oggi che si traduce in un conflitto irrimediabile domani potrà forse giovare a una parte politica, ma di sicuro nuoce al paese.

Questo non significa che alternanza, bipolarismo, spoil system siano incompatibili con la continuità istituzionale, con una buona cultura dell’amministrazione e una chiara individuazione delle responsabilità politiche. Ma sono tutte cose che suppongono una tessitura comune, una trama civile e politica più resistente dei cambi di maggioranza. Proprio questo tessuto il berlusconismo ha stressato in ogni modo, sottoponendolo a continui strappi, in molteplici direzioni – e segnatamente, verso tutti i presidi posti a garanzia di quella più solida continuità.

Forse Napolitano, nominando Monti senatore a vita, ci ha voluto obbligare a tenere sempre a mente la frase di Gasperi: un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione. Oggi, bisognerebbe anche aggiungere che uno statista non guarda neppure ai sondaggi, o all’audience da record dell’ultimo programma televisivo. E forse neppure allo spread, se questo gli accorcia troppo la vista.

(L’Unità, 20 novembre 2011)

Il vecchio e il nuovo

 

Sul fatto che ci sia bisogno di idee nuove, facce nuove, storie nuove c’è poco da scherzare: chi se la sente di difendere idee, facce e storie vecchie? Per stare dalla parte del nuovo c’è dunque una buona ragione: non si può stare da nessun altra parte. Il ragazzino vuole un gioco nuovo, la sorella un vestito nuovo, e pure i genitori sarebbero contenti se potessero permettersi una nuova automobile. E la vita intera si rinnova: per legge di natura.

Dopodiché però non tutto funziona a questo modo. Nessuno, ad esempio, si augura un commercialista o un chirurgo nuovo di zecca,  se non quando giudica ignoranti quelli in cui si imbatte. Non è allora che sono vecchi, bensì incapaci o incompetenti.  Figuriamoci poi se in questione è quello che Hegel chiamava ‘spirito oggettivo’, lo spirito cioè che si rapprende in storia, istituzioni, abitudini di vita. Il tempo dello spirito, spiegava il filosofo, è diverso da quello naturale: in natura, il nuovo si succede al vecchio, e però la vita si ripete sempre uguale a se stessa; nelle cose dello spirito, invece, il nuovo non si limita a rimpiazzare il vecchio, ma in tanto riesce ad essere veramente nuovo, in quanto consente al vecchio di riconoscersi nel suo superamento.

In realtà, non occorre scomodare i massimi sistemi per capire la politica italiana. È sufficiente un Presidente del Consiglio palesemente incapace di tirare l’Italia fuori dalla crisi e che però resta lì, a dispetto dell’opinione pubblica, dell’opposizione e probabilmente di buona parte della stessa maggioranza, per far sorgere nel paese un prepotente desiderio di novità. Ma a pensarci: fra le cause della sua inamovibilità, a parte la faccia tosta, non sta forse il fatto che viene da un partito tutto nuovo, che di ‘oggettivo’, nel senso hegeliano del termine, cioè di robusto, autonomo e durevole, non ha proprio nulla, e che quindi è incapace di affrontare in maniera fisiologica il tema del ricambio?

Che dire, invece, del Pd? Per il principale partito di opposizione le cose non dovrebbero andare diversamente? Il Pd è, all’anagrafe, un partito nuovo. Se vuole essere una cosa diversa e di maggior valore, deve allora dimostrare al proprio elettorato non di sapersi rinnovare, ma di saper durare. Gli tocca crescere, non estinguersi. Radicarsi nella società, non lasciarsi travolgere dall’ansia di novità.

Resta vero, ovviamente, che si può giudicare insufficiente una certa proposta politica, e battersi per cambiarla, ma il fatto che si punti a rappresentarla come vecchia e non come inadeguata cosa vuole dire? È forse il segno che il vocabolario della moda, del consumo e dello spettacolo è penetrato profondamente nella sfera della politica, orientando i comportamenti dei suoi protagonisti? Perché è solo lì, è solo dove prevale una logica di tipo pubblicitario che la novità rappresenta un valore in quanto tale.

I linguisti spiegano che le parole che usiamo prendono senso in rapporto a quelle a cui si oppongono e a quelle al posto delle quali stanno. Lasciamoci istruire allora da un dizionario dei sinonimi e contrari. Invece di guardare ai termini a cui “nuovo” si oppone, perché, s’è visto, è troppo facile prendersela con ciò che è sorpassato, arretrato o antiquato, badiamo ai sinonimi. Sono tanti: da moderno a innovativo, da inedito a rivoluzionario, passando per attuale o originale. Nella tradizione politica della sinistra europea c’è però almeno un termine che a lungo ha assunto, ben più di “nuovo”, alcuni di questi significati, ma che, chissà perché, nessuno dei novatores se la sente di impugnare: è il termine “progresso”.

In effetti, è molto più facile promettere il nuovo che promettere di realizzare un progresso rispetto a ciò che ci si limita a sostituire con la novità. Il progresso indica qualcosa in più: un senso di marcia. Ora, non si tratta del fatto che si è appannata la direzione, sono finite le filosofie della storia e il mondo naviga a vista. Daccapo: non è una faccenda di massimi sistemi; il punto è che seguire una direzione richiede un impegno duraturo, che non si esaurisce nel tempo breve e sincopato della novità.

L’Italia repubblicana, la cosa più bella fatta dalle generazioni che ci hanno preceduto, la nuova Italia nata dalla Resistenza, richiese la dedizioni di uomini, organizzazioni, partiti che pur’essi erano nuovi o profondamente rinnovati: nell’Assemblea Costituente entrarono molti giovincelli divenuti solo poi padri della patria. Costoro sapevano però che il fondamento della loro legittimità politica e il significato della rottura col passato non stava nella mera proposta di novità, ma nella capacità di prospettare un futuro lungo, un orizzonte lontano. Qualcosa, insomma, che durasse e imponesse un vincolo tra le generazioni.

Ecco: sarebbe bello prendere esempio da quel consesso di giovanotti e uomini maturi, e puntare non ad accorciare il ciclo di vita dei prodotti politici, partiti o leader, ma a migliorarne la qualità e l’affidabilità. Sarebbe già tanto.

(L’Unità)

Tutti a Ravenna

Tutti ad acquisire gli "strumenti critici connessi a questa proposta culturale dove uno studioso contemporaneo si confronta con il lascito di un grande maestro dell’età moderna, proponendo l’approfondimento dei principali protagonisti della modernità" (qui). Tutti "a risolvere, o almeno ad impostare in modo corretto, le grandi questioni che attendono ancora al varco l’umanità, soprattutto in tempi depressi e spaesati come i nostri" (qui), tutti a "impostare un’altra conversazione sulle grandi questioni a cui l’umanità tenta di dare risposta" (qui).

Siete depressi, siete spaesati? Tentare di dare risposte? La conversazione del sottoscritto con Hegel, domani alle 17.30, è quello che fa per voi.