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Macron, l’outsider

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Quando Emmanuel Macron diede alla prestigiosa rivista “Esprit” il suo saggio sui labirinti del politico, nell’imminenza delle elezioni del 2012, forse non pensava ancora che la volta successiva si sarebbe candidato lui, il giovane assistente del filosofo Paul Ricoeur, formatosi sui testi del maestro, di Machiavelli, di Hegel. O forse sì, forse in cuor suo ci pensava già: l’uomo è certamente ambizioso, competente, sicuro. Non ha illustri natali, non vanta precedenti esperienze da sindaco o da deputato, non ha strutture di partito che lo sostengano, eppure, senza aver ancora raggiunto i quarant’anni, ha già costruito un curriculum invidiabile: uscito nel 2004 dalla prestigiosa École nationale d’administration, da cui proviene il fior fiore dell’alta burocrazia dello Stato, ha impiegato solo dieci anni per approdare al governo del Paese, con l’incarico di Ministro dell’economia, su indicazione diretta del Presidente Hollande. Si è poi dimesso nel 2016, per fondare un movimento politico, En marche!, «In cammino», con il quale è arrivato ad essere tra i favoriti dello «spasmo presidenziale» di oggi. Lo ha chiamato così proprio lui, in quel pensoso saggio di cinque anni fa, e mai come questa volta l’espressione è indovinata, con la tensione che si respira nel Paese per l’ultimo attentato terroristico nella capitale e la suspence per un risultato più in bilico che mai. Ad ogni nuova elezione, tutto il sangue che scorre nelle vene della Francia affluisce nella scelta del nuovo inquilino dell’Eliseo e ingolfa il Paese; solo dopo lo «spasmo» del ballottaggio il sangue riprende a circolare normalmente e il cuore della Francia torna a battere con regolarità.

O almeno così accade, di solito. Questa volta però il batticuore è grande, perché non c’è un vero favorito, e tra i possibili vincitori ce ne sono un paio – Mélenchon all’estrema sinistra e Marine Le Pen all’estrema destra – che tengono i cugini d’Oltrealpe (e i mercati) col fiato sospeso. Partito come outsider, Macron si è trovato così ad essere il candidato vezzeggiato dai media e dall’establishment, soprattutto dopo che il partito socialista si è messo fuori gioco con la debolissima candidatura di Hamon, e il candidato della destra gollista, Fillon, si è trovato invischiato in guai giudiziari.

Ma la parabola di Macron è cresciuta, nei mesi scorsi, per altre ragioni. Il giovane politico dagli occhi azzurri, dal largo sorriso e dalla facile oratoria ha guadagnato consensi e suscitato entusiasmo grazie alla mossa di tirarsi fuori dagli schemi politici tradizionali, incentrati sulla sfida tra il candidato moderato e quello socialista. Ha saputo rappresentare una novità credibile, affidabile, positiva, in grado di attirare simpatie su più versanti: tra i socialisti delusi dalla scialba presidenza di François Hollande, fra i centristi persuasi dal suo profilo post-ideologico; fra i moderati in cerca di una figura stimata, priva delle ammaccature del politico di professione che appesantiscono Fillon; tra le giovani generazioni in cerca di nuove motivazioni, e in generale nell’opinione pubblica repubblicana preoccupata di respingere il populismo lepenista.

Questo è peraltro il tratto più significativo della proposta di Macron. Finché infatti ripete il mantra del candidato che si colloca al di là della destra e della sinistra, e che – come diciamo da queste parti – non recita la sua parte nel vecchio teatrino della politica, siamo ancora in una zona incerta, persino ambigua, alla quale attingono tutti i populismi antipolitici che percorrono l’Europa. Quello che però fa la differenza è che, senza rinnegare l’essere di sinistra, Macron torna a ridefinirne il senso con un’offerta politica progressista che scava un abisso con tutti gli altri: «La vera differenza oggi è tra progressisti e conservatori», dice. E non ha timore di cavalcare tutte le bestie nere che scorrazzano sul continente gonfiando il consenso dei partiti anti-sistema. Cosa vi fa più paura: l’euro, la globalizzazione, i migranti, i musulmani? Macron non vi spaventerà con nessuno di questi spauracchi. Anzi. Convintamente europeista, vi farà l’elogio della globalizzazione e magari vi aggiungerà che proprio la dimensione europea costituisce il miglior modo per rispondere alla sfida. Disponibile a collocare le frontiere della Francia non a Ventimiglia, ma a Lampedusa, vi farà l’elogio dell’apertura, contro un mondo chiuso e diviso, anche se, libero da certi retaggi culturali, vi dirà pure che è compito dello Stato dare più sicurezza ai cittadini e assumere più poliziotti. Di ferme convinzioni liberali, non cercherà capri espiatori per le difficoltà del Paese, non se la prenderà con la Cina, con l’India o con l’Ue, ma con la burocratizzazione dell’apparato statale, con la perdita di dinamismo dell’economia. Il che però non gli impedisce di ipotizzare una tassazione più elevata per la rendita da capitale.

Se Macron ce la farà, i lineamenti della sinistra francese ne usciranno, è chiaro, profondamente ridisegnati. In un Paese che a sinistra vanta ancora salde tradizioni troztkiste, non sarebbe una cosa da poco. Così come non lo è, anche per noi, il significato della sua impresa politica: se dovesse riuscire, sarebbe la dimostrazione che il populismo lo si può sconfiggere senza inseguirlo sul suo stesso terreno.

(Il Mattino, 23 aprile 2017)

Francia al bivio tra governabilità e futuro nell’Ue

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A una settimana dal voto in Francia, l’incertezza regna sovrana. Ed è un’incertezza che pesa sul futuro dell’intera Europa, non solo su quello dell’Eliseo. Perché la quadriglia di candidati che i sondaggi danno favoriti offre un ventaglio di soluzioni molto ampio. Che può significare il definitivo naufragio del progetto europeo, o il primo passo di una nuova navigazione.

Favoriti sono, stando alle ultime rilevazioni, Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il primo è il più europeista del lotto; la seconda, la più critica nei confronti dell’Unione europea. Il primo faceva parte del governo guidato dal socialista Valls, dal 2014 al 2016, ma si è poi collocato, con il suo movimento En Marche, «oltre la destra e la sinistra». La seconda invece è l’ultima espressione della destra nazionalista francese, più ingentilita rispetto a un passato razzista e antisemita, ma ancora in grado di suscitare preoccupazione nelle forze democratiche.

Inseguono, a pochi punti percentuali di distanza, François Fillon e Jean Luc Melenchon. Melenchon è il candidato dell’estrema sinistra, la bestia nera (anzi rossa) dell’establishment economico-finanziario. Fillon, già primo ministro con Sarkozy, è invece il candidato di quel che resta della destra moderata, azzoppato dagli scandali giudiziari. Se non arrivasse al ballottaggio, sarebbe la prima volta che un erede della tradizione gollista, su cui si è fondata la Quinta Repubblica, non corre per la vittoria finale. Raccolti a quanto pare in un fazzoletto di voti, ci sono insomma due candidati europeisti, e due candidati antieuropeisti; due candidati di sinistra e due candidati di destra; due candidati estremisti, e due candidati moderati; due candidati populisti, e due candidati riformisti; due candidati graditi alle capitali europee, e due candidati sgraditi.

E nessuno è in grado di dire quale coppia uscirà dal primo turno del 23 aprile.

Un primo dato è però già evidente. Il fatto che tra i quattro non si trovi Benoît Hamon, il vincitore delle primarie del partito socialista, cioè del partito del Presidente uscente Hollande – che per scelta politica personale ha deciso, fatto inedito nella recente storia delle elezioni presidenziali, di non ricandidarsi – è indicativo di una crisi profonda delle famiglie politiche tradizionali. Crisi che si presenterebbe uguale a destra, qualora, come sembra probabile, anche Fillon dovesse rimanere fuori dal secondo turno. Un simile esito non certificherebbe la fine del clivage destra/sinistra, ma la fine della sua interpretazione storicamente determinata, quella che ha prevalso nella seconda metà del Novecento, nell’epoca della divisione del mondo in due blocchi. Venuto meno quell’ordinamento del mondo, la destra e la sinistra si sono trovate dinanzi a una nuova alternativa: rifiutare la realtà del mondo globalizzato, provando a ridisegnarlo secondo nuove, aspre linee di frattura, oppure accettarlo, cercando di smussarne le contraddizioni in una chiave social-progressista o liberal-moderata.

Sono differenze che sperimentiamo anche in Italia: a destra, è la distanza che separa Salvini e Meloni (ma anche Grillo) da Berlusconi e Alfano; a sinistra, è il fossato che si va allargando fra il Pd di Renzi e le sparse formazioni dei vari Fratoianni, Civati, Speranza. In Francia, però, il doppio turno consente di verificare con chiarezza l’articolazione dell’offerta politica, senza impedire che al ballottaggio il voto si polarizzi in una sfida a due: quale maggioranza si formerà poi, nell’Assemblea Nazionale, è un problema ulteriore, e non è detto che il futuro Presidente non sarà costretto a scomode coabitazioni con maggioranze di colore e orientamento diverso.

Ma, a sette giorni dalle urne, la Francia ha il fiato sospeso. Fino a qualche settimana fa, infatti, sembrava che al ballottaggio le forze europeiste avrebbero avuto comunque un uomo su cui puntare: Macron, che in un eventuale ballottaggio godrebbe del favore di tutta la Francia repubblicana, disponibile a fare blocco pur di sbarrare la strada al pericolo Le Pen. Con il suo programma di riforme nell’ambito del lavoro, della previdenza, del fisco, Macron è forse più inviso alla tradizionale gauche che ai moderati di centro, e può quindi rappresentare un’alternativa per chi non vuole una Francia dominata dalla retorica populista, anti-euro e anti-immigrati di Marine Le Pen. Dopo aver rottamato la sinistra di Hamon, Emanuel Macron si vede però  incalzato dal populismo di Melenchon. Il cui programma sociale punta a coagulare tutto il consenso che Macron, spostandosi al centro, lascia al suo fianco sinistro. E dunque: pensione a 60 anni, settimana lavorativa di 30 ore, patrimoniale sui grandi redditi. Il tutto condito da toni che sembrano adatti a riesumare gli scontri ideologici del passato.

O forse a riproporne di nuovi la crescita di Melenchon nei sondaggi sottolinea. È probabile che alla fine Macron ce la faccia, e che toccherà a lui fermare Marine Le Pen (l’ipotesi che Fillon recuperi a sua volta consensi a destra è, ad oggi, la più remota: entrato da favorito nella corsa, è ora il più lontano dal rush finale), ma dopo il trauma della Brexit e l’elezione a sorpresa di Trump, la sensazione che si sia ulteriormente ridotto, in ambito europeo, lo spazio delle forze che “tirano” il sistema, senza ambire a rovesciarlo con bruschi scossoni, si fa ancora più forte. E più cupo e minaccioso si fa il cielo della politica. In fondo, Macron ha guadagnato voti proponendosi come un volto nuovo e senza tessere di partito. Non appena però è prevalsa l’impressione che la sua novità non comportava una discontinuità radicale con il passato recente – basti il fatto che l’ormai impopolarissimo Hollande ha fatto intendere che lo avrebbe sostenuto – il suo slancio si è affievolito. E si è rafforzata la proposta estremista di Melenchon. A un passo dal voto, l’Europa dunque non sa se prevarranno le spinte disgregatrici che annunciano una nuova età di ferro, o se invece la Francia rimarrà dentro i Trattati, come il primo pilastro di una rinnovata politica di integrazione europea, che avrà nei mesi prossimi le sue decisive prove anche in Germania e anche da noi, nella cenerentola Italia.

(Il Mattino, 16 aprile 2017)

I grillini, il palazzo e il profumo della prima volta

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Sono loro, i Cinquestelle, la più vistosa differenza fra quello che c’era ieri e quello che ci sarà domani, in esito a questa crisi. Perché sono cominciate le consultazioni del Quirinale, che prenderanno almeno un paio di giorni e sopratutto vedranno sfilare una ventina di gruppi parlamentari, e non si è sentito ancora nessuno che si scagliasse contro questi consumati riti della vecchia politica, o magari che chiedesse di mandare tutto in streaming, perché i cittadini hanno il diritto di sapere cosa dicono i loro rappresentanti.

C’è una ragione: il Movimento non è mai stato così vicino al Palazzo, alle istituzioni, al governo. Con qualche sussulto interno per via della corsa per la leadership ma vicini, vicinissimi. Intendiamoci. In nessuna delle soluzioni di cui si ragiona, è previsto che i Cinquestelle entrino in una qualche maggioranza. Si tratti di un governo istituzionale, di un governo di scopo, di un governo di responsabilità nazionale, di un governo del Presidente o infine di un Renzi-bis, i Cinquestelle non ne faranno parte. La loro richiesta rimane una: al voto subito. Dopodiché molto dipenderà dalla legge elettorale, naturalmente, ma il voto sarà comunque, con ogni probabilità, anche una risposta alla domanda se Grillo e i suoi siano, per gli italiani, pronti per governare.

Lo sono? Secondo Alessandro Di Battista sì. Nell’intervista data al giornale tedesco «Die Welt», ripresa da «Repubblica», uno dei più autorevoli esponenti del Movimento – secondo il giornale, il più popolare – ha provato a delineare i contorni di una forza che non è più, anzi non è mai stata un semplice movimento di protesta. Che ha le idee chiare sui temi decisivi dell’attuale fase storica, quelli che determinano le linee di faglia lungo le quali si dispongono le principali formazioni politiche in Europa. Anzitutto l’immigrazione e l’euro. Sul primo tema, Di Battista è lapidario: «chi è privo di diritto d’asilo deve essere espulso». Sul secondo un po’ meno, nel senso che non dice esplicitamente che l’Italia deve uscire dalla moneta unica (i grillini vogliono che a decidere sia un referendum), ma attribuisce all’euro la responsabilità di tutti o quasi i mali dell’economia italiana.

Se a queste indicazioni aggiungiamo l’enfasi sulla green economy, l’idea di rilanciare lo sviluppo economico del Paese su enogastronomia, turismo e cultura, la lotta alla corruzione, la ricerca di una base sociale nella piccola e media impresa, la diffidenza verso la finanza che ruota intorno alle grandi banche, bene: otteniamo tutti i colori che Di Battista usa per completare il suo ritratto del Movimento. Che sono però due soltanto: il nero e il verde.

Di rosso, infatti, ce n’è pochino. Ma forse perché di rosso ce n’è sempre meno in tutta Europa: nell’Austria che domenica scorsa si è affidata al candidato verde per battere il candidato nero alla presidenza della Repubblica. E nella Francia che sembra andare sempre di più, alle presidenziali del 2017, a una sfida fra la destra lepenista e quella moderata, per archiviare definitivamente il settennato di Hollande. D’altronde, se si guarda dentro il partito socialista europeo: pure lì, il rosso sbiadisce sempre di più.

Ora però, tornando in Italia, il carattere antisistema o antipolitico del Movimento non dipende forse dal fatto che quei colori non erano compresi nella tavolozza costituzionale della prima Repubblica (e neanche nel progetto originario della comunità europea)? Il solo fatto di impiegarli ha effetti dirompenti. D’altra parte, lo scenario non solo politico, ma culturale e ideologico della prima Repubblica è cambiato, ormai un quarto di secolo fa, e tutti questi anni non sono bastati ad allestirne uno nuovo. La proclamata fine delle ideologie è, in realtà, la fine di alcune ideologie soltanto, perché è difficile non definire ideologiche certe prese di posizione, come quella dell’espulsione per tutti i migranti (fatti salvi, buon dio!, i soli richiedenti asilo) o il referendum sull’Euro (che procurerebbe più sobbalzi all’economia di quanti ne procuri la pura e semplice uscita). Si può dire anzi il contrario: che ad avere maggior fortuna elettorale sono proprio le forze in grado di innalzare la temperatura politica del voto, di investirlo di significati netti, persino drammatici, ben lontani dalla retorica delle necessarie riforme o dal ritornello grigio e burocratico della responsabilità.

Se così non fosse, il passaggio che l’Italia è chiamata ad affrontare non sarebbe così stretto. Perché la tavolozza dei colori è ormai mutata, e la sconfitta di Renzi è anzitutto la sconfitta di una via d’uscita dalla crisi della seconda Repubblica in grado di assorbire e far arretrare i Cinquestelle. Ma loro non sono arretrati; sono, anzi, avanzati.

E anche se una legge elettorale di impianto proporzionale dovesse svolgere la funzione di tenere i grillini lontano dall’area di governo, neanche così sarebbe un mero ritorno al paesaggio della prima Repubblica. Che aveva altri colori, un altro sistema politico e un altro orizzonte ideologico.

(Il Mattino, 9 dicembre 2016)

I migranti e l’Europa a due velocità

LQQ44W2E7012-kHmE-UdHu4aaZqzQrwFI-1024x576@LaStampa.itIl fenomeno, senza precedenti, di crescita dei flussi migratori sta mettendo seriamente in pericolo i pilastri fondamentali dell’integrazione europea e della solidarietà fra gli Stati membri: così cominciava il documento con il quale il governo italiano, lo scorso aprile, presentava al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e al Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, la proposta italiana di un Migration Compact, di un «percorso per migliorare l’efficacia delle politiche migratorie esterne dell’Unione». Siamo quasi alla vigilia del vertice europeo di Bratislava, che si terrà a metà settembre, e l’appuntamento di Ventotene, fra Renzi, Hollande e la Merkel, è servito anche per preparare l’agenda del prossimo incontro su uno dei punti più difficili che i leader europei dovranno affrontare. Uno di quegli argomenti sui quali sta o cade il senso stesso del progetto europeo.

A Ventotene la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha confermato la linea del suo governo, passato dalla contrarietà all’europeizzazione del tema alla richiesta di una maggiore integrazione fra i paesi europei, chiamati a condividere il peso dell’immigrazione. La Merkel ha anche aggiunto che proseguirà la cooperazione con la Turchia, per contenere la pressione migratoria lungo la rotta orientale, alimentata dalla catastrofe umanitaria in Siria. Ma non ha chiarito fino in fondo qual tipo di impegni l’Unione chiederà invece al suo interno, nella revisione del regolamento di Dublino che disciplina le azioni di ricollocazione fra gli Stati europei.

Su questo terreno, la condivisione latita ancora. Prevalgono invece gli egoismi nazionali. La Germania ha assicurato che farà la sua parte, ma altri Paesi fanno orecchie da mercanti. Obblighi giuridici, prima ancora che morali, vengono disattesi, tanto che il sottosegretario Gozi ha dichiarato ieri a questo giornale che sussistono le condizioni per aprire procedure di infrazione (che però prendono parecchio tempo: possono essere uno strumento di pressione, ma non certo una soluzione).

Un sistema sostenibile ed efficace di ripartizione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, allo stato, non c’è. Così come non c’è un vero diritto europeo di asilo, nonostante le dichiarazioni, le norme, le procedure, gli uffici. Nonostante, va aggiunto, i numeri dei rifugiati siano ancora contenuti: se rapportati però non alle capacità di assorbimento dei singoli paesi, ma alla complessiva popolazione europea.

C’è invece una contraddizione patente tra due pretese di segno opposto. Da un lato, c’è infatti la nobile ambizione di evocare – ad ogni nuovo vertice, in ogni nuova riunione dei capi di stato e di governo – un sistema europeo comune di asilo; dall’altro, c’è invece la volontà, un po’ meno nobile, di vincolare gli spostamenti tra i migranti dentro lo spazio di sicurezza, libertà e giustizia definito dagli accordi di Schengen, che si vuole mantenere privo di controlli alle frontiere interne. Fino però a quando vi si riuscirà, in queste condizioni? È evidente infatti che le due pretese cozzano l’una con l’altra, e finiscono col produrre soluzioni complicate, burocratiche e squilibrate. Così, ad esempio, la proposta della Commissione europea di revisione del cosiddetto “sistema Dublino” mantiene un punto – che la domanda di asilo venga presentata e gestita dal primo Stato che il migrante richiedente protezione incontra – che lascia inevitabilmente il cerino nelle mani degli Stati più esposti alla pressione migratoria (Italia e Grecia), cercando poi faticosamente di “comprare” un po’ di solidarietà in più dagli altri Stati, anche grazie a un sistema di multe. Ma non sono le multe, o i tempi di gestione della procedura, o i criteri di ripartizione: è l’idea che vi sia un “primo” Stato – quello che, affacciato sul Mediterraneo, assiste sgomento e impotente alle tragedie del mare, inevitabilmente con più oneri rispetto ai paesi dell’entroterra continentale – è questa stessa idea che si sposa molta male, per non dire che contraddice apertamente i pilastri giuridici dell’Unione. Quelli che la lettera del governo italiano ricordava.

Vedremo i risultati di Bratislava, il mese prossimo. Intanto, il governo trova temporanea sistemazione ai rifugiati che raggiungono le nostre coste utilizzando le caserme. È una soluzione obbligata, forse persino inevitabile, presa sull’onda di un’emergenza che non accenna certo a finire, ma che può avere contraddizioni, se protratta nel tempo. Il rischio è quello di creare di fatto spazi di reclusione o di segregazione, anche se diversamente definiti: campi di concentramento, luoghi di internamento in cui la soglia della difesa della dignità umana può essere troppo facilmente violata. Giorgio Agamben ha sostenuto che non la democrazia e i diritti umani, ma il “campo”, in cui scompare la differenza fra la regola e l’eccezione, rappresenta purtroppo la forma politica esemplare del nostro tempo. Anche in condizioni di emergenza, dobbiamo evitare che ciò accada o torni ad accadere. L’Europa, se deve servire a qualcosa, deve servire a questo.

(Il Mattino, 24 agosto 2016)

Houellebecq e l’imbecillità “degli altri”

michel_houellebecq_gq_2014_511xUna «spaccatura abissale» si è venuta a creare tra «i cittadini e coloro che dovrebbero rappresentarli»: dovrebbero, perché di fatto non li rappresentano, anche se non è affatto chiaro, temo, il significato della rappresentanza democratica a chi scrive queste cose. Chi scrive è Michel Houellebecq, che sulle pagine del Corriere di ieri ha affibbiato la patente di imbecillità all’intero classe politica francese, a cominciare da quel «ritardato congenito» che risponde al nome di François Hollande, Monsieur le Président. Houellebecq se lo può permettere, non solo perché è uno dei più grandi, e uno dei più discussi, scrittori francesi contemporanei, ma anche perché ha dato quest’anno alle stampe un romanzo, Sottomissione, in cui descrive una Francia ormai politicamente, intellettualmente e perfino sessualmente esausta e infiacchita, e immagina che in un simile  scenario, in un futuro non troppo lontano, possa salire all’Eliseo un leader musulmano moderato. Tutte le paure francesi hanno trovato ricetto nelle pagine di Houellebecq, tutto l’orgoglio gallico se ne è dovuto risentire. E  così il libro ha fatto discutere: molto. In verità ogni libro di Houellebecq fa discutere, e anche l’articolo di ieri fa discutere e va discusso.

Perché, dunque, imbecilli, i politici francesi? Perché hanno fatto l’opposto di quel che dovevano fare, per fronteggiare la minaccia islamista: hanno tolto le frontiere e favorito così l’immigrazione, e invece dovevano preservarle, presidiarle e difenderle, e hanno bombardato (oggi in Siria, ma ieri in Iraq e in Libia, per dire dei principali focolai di crisi), e invece non dovevano bombardare. Cosa che il popolo francese sa benissimo, ha sempre saputo, e che solo una manica di imbecilli si è ostinata per decenni a non capire.

Ora, l’ingenuità dilettantesca di un simile giudizio si spiega forse per la verve letteraria che lo scrittore sa mettere nel suo giro di frase: figuriamoci, infatti, se non è parlar chiaro dare a qualcuno dell’imbecille. E siccome il parlar chiaro riesce più vivace e persuasivo di qualunque estenuante distinzione intellettuale o ragionamento politico, voilà: politiche dell’immigrazione e politica estera divengono solo più il parto di gente manifestamente incapace (che, sia detto per inciso, non si capisce bene perché la popolazione – che per Houellebecq «non ha fallito in nulla» – continua tuttavia a votare). Ovviamente qualunque analista meno brillante di Houellebecq proverebbe piuttosto a spiegare, condivida o no il giudizio, perché la Francia abbia preso questa strada. Il grande scrittore con vista privilegiata sulle miserie umane no, se la sbriga regalando a tutti il titolo di imbecille, si inventa una democrazia diretta che non si capisce come farebbe fronte al frangente in cui si trova oggi la Francia e ci lascia in difetto di qualsiasi spiegazione.

Ma questo, in fondo, è il meno. Il più è se davvero l’egoismo nazionale in salsa populista di Houellebecq sia la soluzione. Lo scrittore sembra infatti pensare che basti eliminare la classe politica, accompagnare gli immigrati alla porta e promettere di non immischiarsi più di Medioriente e questioni affini, per ottenere la pace nel mondo, o almeno la sicurezza dei francesi. Orbene, bisogna ignorare quasi tutto della storia del mondo, a far data dalle guerre persiane almeno, per coltivare simili illusioni. Le quali ovviamente piacciono alla gente che ama star tranquilla, e che immagina non si debba pagare alcun prezzo per la propria tranquillità, sol che non si turbi quella altrui.

Purtroppo però il corso delle vicende umane dimostra esattamente il contrario: non a caso di Svizzere chiuse nelle proprie valli, in Europa, ce n’è una sola, e anche quella non è poi così fuori dagli affari umani come si potrebbe credere. Ma è l’intero movimento di civiltà da Oriente a Occidente, l’inquietudine che ebbe in origine il nome di Europa a contraddire questa visione.

Basta osservare un paio di cose. Anzitutto un dato: imbecilli o no, gli europei si sono sempre – dicesi sempre – immischiati nelle storie del vicino Oriente (e l’Oriente del promontorio europeo, quando a sua volta ha potuto). Ho detto gli europei per comodità, ma la cosa valse anche per i macedoni di Alessandro Magno o per i romani. Si può anche inscrivere tutto questo al colonialismo, all’imperialismo o all’eurocentrismo dei popoli europei, e si avrebbe anche ragione. Ma di sicuro una visione strategica e una filosofia della storia non si sostituiscono con la facilità con cui si dà dell’imbecille a qualcuno.

In secondo luogo, non si è mai visto, nelle cose della politica, che un atteggiamento di rinuncia o di disimpegno non venga inteso per un segnale di debolezza, o di paura. Chi glielo spiega, all’Isis, che se ne possono star di là, se ci lasciano in pace di qua? Facciamo anche noi opera di immaginazione politica, come Houellebecq nel suo libro: perché un Califfato che negli anni si fosse costruito sull’odio verso l’Occidente, e avesse conquistato l’intero mondo musulmano con questa bandiera, preso il Medioriente e la sponda africana del Mediterraneo dovrebbe finirla là, e starsene quieto nei suoi confini? Glielo dirà Houellebecq, che ognuno se ne stia a casa sua?

Ma il messaggio dello scrittore francese ha il suo fascino, perché l’impiego della forza a difesa della pace, così come l’integrazione fra popoli e culture diverse continuano ad avere, per molti, un suono ipocrita. E invece, altro che parlar franco: la vera ipocrisia è di chi crede che basti davvero non buttare le bombe per avere la pace, o rinchiudersi in una società ottusamente omogenea per avere una vita tranquilla. Poi ci aggiungi il facile risentimento verso i politici incapaci, la fandonia della democrazia diretta e il gioco è fatto: puoi dare dell’imbecille a chiunque. Dare, o anche prenderti.

(Il Mattino, 20 novembre 2015)

Il conflitto utile e il male minore

poli184«La Francia è in guerra. Gli atti compiuti venerdì sera a Parigi e nei pressi dello Stadio di Francia sono atti di guerra. Sono commessi da un’armata jihadista che ci combatte perché la Francia è un paese di libertà, perché la Francia è la patria dei diritti dell’uomo». Così ha parlato François Hollande ieri, dinanzi al Parlamento francese, chiedendo anche una revisione costituzionale (sui poteri del Presidente e lo stato d’assedio) che ha anzitutto un significato politico: poiché la revisione costituzionale richiede il voto dei tre quinti dell’Assemblea, su di essa deve convergere anche il centro-destra.

Ma la guerra, sul fronte esterno, è un’altra cosa. Un conto è essere in guerra, un altro è farla. Per fare la guerra, non basta l’intensificazione dei bombardamenti che avviene in queste ore, o l’approssimarsi della portaerei Charles de Gaulle alle coste del Mediterraneo orientale, ci vuole un intervento militare a terra, che spazzi via l’autoproclamatosi Stato Islamico e mandi all’inferno il Califfo Al Baghdadi.

La domanda è se sia chiara la visione che sostiene questa strategia. Chi la respinge per motivi etici e umanitari oggi non è ascoltato, ma in realtà non è mai stato ascoltato perché mai il corso della politica e quello della guerra si sono separati nella storia umana. Se accettiamo di misurarci sul terreno della politica, non possiamo quindi limitarci a chiedere se sia morale questa guerra, ma dobbiamo domandarci se sia utile.

Sul versante interno, la Francia di Hollande sembra voler prendere la strada che fu già seguita dall’America col Patrioct Act dopo l’11 settembre: la strada delle misure eccezionali. Maggiore sicurezza significa maggiori poteri ai corpi di polizia, maggiori ingerenze degli apparati dei servizi segreti. Maggiori poteri significano quindi minori diritti, minori libertà, minore privacy. Fin dove ci si può spingere? Soprattutto: fin dove serve spingersi? Vogliamo davvero che le nostre libertà scivolino via, in nome dell’emergenza? Siamo sicuri che non basti una severa, ferma applicazione delle regole del diritto – l’unico terreno sul quale, tra l’altro, esiste una dimensione europea davvero comune, costruita intorno alla Corte di giustizia e alla Corte europea dei diritti dell’uomo – e occorra invece una loro sospensione, o una loro compressione? E se questa sospensione o questa compressione vogliamo che riguardi non noi, ma solo quella fetta di popolazione di cui sospettiamo (perché musulmana, perché immigrata, o magari semplicemente perché povera), siamo sicuri che così non ne alimenteremo il risentimento di tutti costoro, finendo in questo modo con l’ingrossare le file del nemico? Si può anche non esitare dinanzi a questo interrogativo: importante è sapere che occorre affrontarlo. E naturalmente essere poi conseguenti, in un senso o nell’altro.

Sul versante esterno, certo non possiamo cavarcela dicendo che la guerra è un affare dei francesi, perché così non è. Hollande si è rivolto ai partner europei, e ha fatto bene. Non è solo poco dignitoso augurarsi che altri facciano il lavoro sporco per noi: è insensato. Non è insensato invece interrogarsi su chi sia il nemico – e chi gli alleati. Se il maggior nemico è l’ISIS, o IS, di Al Baghdadi, possiamo permetterci di non rivolgere la parola al leader siriano Assad, che l’ISIS ce l’ha di fronte, e di contro? Non è necessario accettare la logica del male minore? E possiamo pretendere di disegnare da soli, senza il concorso delle altre potenze regionali e della Russia, la mappa del vicino Oriente? Perché di questo si tratta e così è sempre stato, da quelle parti: nel bene e nel male, in quelle contrade gli europei prima, gli americani poi hanno voluto o dovuto ridisegnare la geografia, secondo le linee di interesse e le forze presenti sul terreno. Non si può sperare che questa dimensione cruda e realistica dei rapporti di forza scompaia d’incanto, e condurre una guerra solo in nome di un astratto imperativo morale, o di un altrettanto astratto furore bellicista. Non funziona l’uno, non funziona l’altro. Anche in questo caso abbiamo un esempio recente: dalla caduta di Saddam Hussein e del regime baʿthista sono trascorsi poco più di dieci anni. La guerra, allora, fu fatta: coi bombardamenti, i carri armati e tutto quanto. Nello schema di quella guerra, la fine del dittatore, la statua di Saddam nella polvere, la liberazione di un popolo, doveva  preludere all’esportazione della democrazia in tutta l’area mediorientale. Essendo Saddam Hussein il principale mandante del terrorismo mondiale, si pensava che la sua sconfitta avrebbe significato anche la fine, o perlomeno il contenimento, della minaccia terroristica. Non è andata affatto così. A distanza di dieci anni, una nuova potenza statale è sorta, compromettendo l’integrità territoriale siriana e irachena. Adesso sogna di estendere il suo dominio dal Medioriente all’intera fascia mediterranea africana. È inoltre in grado, come dimostrano i fatti di Parigi, di seminare terrore ovunque. Sembra dunque che, ben lungi dall’aver imposto la pax americana nella regione, sia stato scoperchiato un vaso di Pandora, che ora non si sa come richiudere. Con un’altra guerra: sia pure. Ma con chi si intende farla? Chi è disposto a fare cosa? Chi, tra i paesi formalmente nostri alleati dell’area – Turchia da una parte, Arabia saudita dall’altra –  è davvero pronto a farla, o a supportarla? E per avere, dopo la guerra, quale Medioriente? Queste domande non possono essere eluse. La retorica pacifista non arriva a porle, ma quella bellicista le scansa con altrettanta, irresponsabile superficialità.

(Il Mattino, 17 novembre 2015)

Valérie: umiliata davanti alla Francia

ImageSiccome la distinzione fra pubblico e privato è un pilastro fondamentale della civiltà giuridica e politica moderna si capisce che venga evocata tutte le volte che si ritiene che sia minacciata. La privacy è un bene prezioso, la cui tutela è tanto più importante quanto più aumenta la possibilità e la disponibilità tecnica e sociale di investirla di attenzione ed evidenza pubbliche. Che però le scorribande in motocicletta del presidente della Repubblica francese e le sue incursioni in appartamenti di dubbia proprietà suscitino l’interessa della stampa e dei media rientra perfettamente in ciò che l’opinione pubblica transalpina ha il diritto di sapere. Il presidente Hollande non è ovviamente tenuto a spiegare i suoi sentimenti in pubblico: può amare tutte le donne che vuole, tradirle o essere loro fedele; ma non può evitare che i suoi comportamenti prendano una rilevanza più ampia delle vicende sentimentali di ogni altro cittadino francese, per il fatto che investono un personaggio pubblico e contribuiscono a descriverne la condotta. Non sono solo in gioco questioni di sicurezza, sebbene il fotografo che lo ha immortalato con il casco prima che sparisse in un garage abbia notato la preoccupante assenza di qualsiasi misura di protezione. Sta anche il fatto che la stessa costruzione dei personaggi pubblici richiede sempre più spesso inserti di vita privata: Nel caso dell’Eliseo: come trascurare il fatto che lo stesso Hollande non ha mancato in passato di sfruttare a suo favore i narcisismi sentimentali del predecessore Sarkozy? E come sorvolare sugli sforzi compiuti nel corso degli anni nella costruzione della figura della «première dame», che non è certo una personalità costituzionalmente profilata, in Francia o altrove, ma concorre all’immagine pubblica del Capo dello Stato in un numero sempre maggiore di paesi, determinandone almeno in parte le fortune politiche? La dottrina in materia, d’altra parte, è costante: il diritto alla privacy è attenuato in ragione del rilievo pubblico della persona. Hollande ha perciò ragione di trovare «dolorosa» non solo la vicenda personale che lo riguarda, ma anche il clamore che suscita, ma è quel genere di «dolore», cioè di sacrificio personale, che l’incarico da lui assunto richiede che egli sopporti. Ed è molto improbabile che non ne fosse consapevole. È improbabile, cioè, per non dire impossibile, che non considerasse lui stesso imprudente spostarsi su uno scooter per le vie della capitale, inseguendo un nuovo amore.

Dopodiché è vero: le trasformazioni della vita pubblica spostano sempre un po’ più avanti il confine della morbosità, della curiosità pruriginosa, del pettegolezzo. La vita privata finisce nella disponibilità del pubblico, di altri attori sociali, tutte le volte che le nostre preferenze private o i nostri soggettivi desideri sono catturati e usati, quando non manipolati, dal mercato così come dai mass media. E a volte ci finisce anche su una base completamente volontaria: basta guardare quanti lacerti di vite individuali finiscono nello spazio dei social network, per rendersene conto. Ma il caso di Hollande non c’entra con l’intrusività delle nuove tecnologie: c’entra invece con le debolezze di un uomo, e con il giudizio che su di esse, in democrazia, il pubblico ha il diritto di rendere.

In Italia, siamo invece alle prese con le intemperanze private ma decisamente meno romantiche del ministro dell’Agricoltura, catturate da una registrazione non autorizzata e finite poi sui giornali. Anche Nunzia De Girolamo ha chiesto il rispetto della privacy. Nel suo caso, è indubbio che una riunione privata, in un’abitazione privata, sia stata violata abusivamente. Ma un conto è la possibilità che «l’illecita captazione» sia o meno utilizzabile in sedi processuali, un altro sono i chiarimenti richiesti al ministro, per i quali farebbe male a ricorrere allo scudo inviolabile della privacy. Una cosa, insomma, sono i termini del diritto, e la circoscrizione in base ad essi degli spazi di riservatezza personale, un’altra è la sede pubblica delle ragioni, che devono sempre poter essere fornite per giustificare i propri comportamenti, quando coinvolgano – com’è questo il caso – la gestione amministrativa di un’azienda pubblica.

Certo, non succederà mai che Hollande si occupi dell’ASL di Benevento, o che la De Girolamo finisca su «Closer» per aver tradito il marito, il democratico Francesco Boccia: le due vicende sono diverse e non possono essere confuse insieme. Ma non è nemmeno il mancato rispetto della privacy la chiave che spiega l’attenzione loro riservata dall’opinione pubblica.

(Il Messaggero, 16 gennaio 2014)