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Se il pensiero meridionale si fa europeo

Quattroartchitetti

Voci diverse, ma finalmente voci. Il forum organizzato dal Mattino ha portato al teatro Mercadante il premier Paolo Gentiloni, i ministri Calenda e De Vincenti, intellettuali e imprenditori, politici e giornalisti, invitati a ragionare insieme sul futuro del Mezzogiorno.

Si è chiamata, lungo tutto il corso della storia repubblicana del Paese, questione meridionale, ma si ha timore, quasi vergogna, a darle ancora questo nome. O almeno: appena la si nomina, occorre munirsi di appropriate virgolette che la precisino, la chiariscano, la distinguano da tutto ciò che nel passato ha potuto significare o con cui ha potuto confondersi: assistenzialismo, statalismo, familismo.

Alla buonora, però: con tutte le precauzioni del caso, il Mattino, da giornale di Napoli, giornale della capitale del Mezzogiorno, prova ostinatamente a riproporla, a reimmetterla nel dibattito pubblico, e a misurare le proposte del governo e delle forze politiche su questi temi: come si colma la distanza fra il Nord e il Sud d’Italia? E poi: come si trattengono i giovani al Sud, senza costringerli a cercare altrove? Come si creano nuove opportunità di lavoro, all’altezza delle nuove sfide della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica? Come si fa a far funzionare la pubblica amministrazione?

Voci diverse, si diceva. Perché un conto è ritenere che la strada dello sviluppo sia, sotto qualunque latitudine o lungitudine, una sola, fatta, nell’ordine, di investimenti, imprese e occupazione. Un altro, se non tutt’altro, è ragionare invece nei termini di un impegno prioritario che la politica deve assumersi verso il Mezzogiorno, se vuole tenere insieme ed evitare che vada in pezzi un Paese profondamente duale. Un conto è pensare che tutto sta o cade con la selezione di una nuova classe dirigente meridionale, capace ed efficiente; un altro, se non tutt’altro, è affermare innanzitutto l’esigenza di politiche speciali per il Sud, come ha detto nel suo intervento di apertura il premier (con il governatore De Luca che ne prendeva atto con soddisfazione, mista però a un prudente scetticismo).

Le due cose, naturalmente, non si escludono l’un l’altra. Il ministro Calenda ha tutte le ragioni del mondo quando manifesta la sua incredulità per il ricorso al Tar presentato dal governatore della Puglia, Emiliano, al fine di bloccare un investimento di 5,3 miliardi di euro: «caso unico nel globo terracqueo». Ma qualche ragione ce l’ha anche chi osserva che la sola stagione nel corso della quale si è ridotto il gap fra Nord e Sud, cioè nei primi decenni del secondo dopoguerra, è stata segnata, più che dalla chiaroveggenza intellettuale o dalle specchiate qualità morali della classe politica, dalla continuità e intensità dell’intervento straordinario.

Se non che l’applauso più convinto dal pubblico dei giovani presenti in sala ieri lo ha raccolto l’esponente dei Cinquestelle, Roberto Fico. Non però per le ricette economiche che ha proposto alla platea: su questo versante, anzi, Fico quasi non è entrato, limitandosi piuttosto a ribadire che, Nord o Sud non importa, per i Cinquestelle la madre di tutte le battaglie è il reddito di cittadinanza. No, Fico ha ricevuto l’applauso più grande e spontaneo quando se l’è presa con le raccomandazioni e il nepotismo nell’università.

Non v’è dubbio che questo sia l’umore prevalente nell’opinione pubblica del Paese, e che dunque la risposta venga cercata meno dal lato delle politiche, e di strategie di medio-lungo periodo che nessuno ha più il tempo di aspettare, e molto più nei termini di una protesta moralistica (a volte più rassegnata che bellicosa) nei confronti di classi dirigenti percepite come corrotte e inconcludenti.

È una risposta sufficiente, oppure è un gigantesco diversivo di massa? Se per esempio potessimo sostituire tutti gli amministratori pubblici delle regioni del Sud, con i cento uomini d’acciaio, «col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile», di cui parlava un grande meridionalista, Guido Dorso, riusciremmo anche ad eliminare d’incanto la questione meridionale? È lecito dubitarne. Ed è dubbio pure che se gli uomini fossero mille, invece di cento, il problema sarebbe risolto. L’idea che vi sia una società meridionale viva e vitale, soffocata dalla cappa mortifera di una politica immorale, incapace e disonesta, non spiega per intero il divario che separa il Sud dal resto del Paese.

Ma intanto, qualche passo avanti, almeno nella discussione, si è fatto. Se non altro perché da nessuna parte si sono ascoltati accenti queruli e meramente recriminatori, o certi arroccamenti identitari costruiti su improbabili revanscismi storici, oppure lungo percorsi meridiani irrimediabilmente lontani dalla modernità e dall’Europa.

Nulla di tutto questo: non era nello spirito di questa giornata, e non è sulle colonne di questo giornale. È stata piuttosto una proficua giornata di confronto pubblico, e non ci si può non augurare che non rimanga isolata.

(Il Mattino, 12 dicembre 2017)

Il Mezzogiorno da questione a passione civile

IMG-20150930-WA0000La questione meridionale: negli ultimi anni o negli ultimi mesi? Per questo giornale, è un tema di discussione da molti anni; per la politica nazionale, si direbbe invece che lo sia solo da qualche mese.

L’affermazione andrebbe corretta, naturalmente, perché il problema del divario fra le diverse aree del Paese ha accompagnato l’intera storia nazionale, e questo giornale ha quindi dovuto occuparsene fin dalla sua fondazione.

Negli ultimi anni, però, la riflessione (e la polemica) meridionalistica ha dovuto misurarsi con un diverso ostacolo, cioè l’aggressiva retorica leghista e nordista che ha a lungo dominato il discorso pubblico. Si può considerare che il culmine sia stato raggiunto con l’immagine del «sacco del Nord» perpetrato dallo Stato nazionale con il trasferimento e la dissipazione di risorse a favore del Mezzogiorno. Nientemeno.

Anche in questo caso, però: nulla di veramente inedito. Già Gramsci ricordava come alla borghesia settentrionale del Paese appartenesse l’idea del Sud «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia». Questo regime di discorso, tuttavia, è ormai divenuto quello abituale, corrente per l’intero arco della seconda Repubblica – posto che la seconda Repubblica abbia davvero disegnato un arco, e non piuttosto un imbrogliato scarabocchio dal quale stiamo ancora provando a venir fuori. Oggi la stessa Lega Nord si è scelta, in realtà, altri capri espiatori («l’invasione» degli immigrati), e liste «Noi con Salvini» spuntano anche al Sud.

Ma di qui a dire che il Mezzogiorno sia divenuta la prima e principale preoccupazione del Paese ce ne corre. Eppure qualche buona ragione vi sarebbe, se è vero e anzi conclamato l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto Svimez. Su quei dati, su quei numeri che fan tremar le vene e i polsi si è innescato un dibattito serio. Il che non vuol dire che siano mancate punte di polemica ridicola – la Svimez non serve a nulla, come a dire: rompiamo il termometro – ma per lo meno si è raggiunta un’eco nazionale. Il premier Renzi ha convocato in pieno agosto la direzione del suo partito, e annunciato un Masterplan per il Mezzogiorno che dovrebbe vedere la luce proprio in questi giorni, magari in collegamento con la legge di stabilità che andrà alle camere dopo la metà di ottobre. Se si confronta il discorso tenuto da Renzi alla direzione del Pd con il discorso tenuto alle camere in occasione dell’insediamento del suo governo si noterà un non piccolo particolare: prima il Mezzogiorno non c’era, adesso c’è.

Così viene naturale pensare che, forse, l’impegno che questo giornale sta mettendo nel tenere desta l’attenzione sul Sud, e vigile la considerazione dell’opinione pubblica, sarà pure costretto a sfidare il soprassalto di noia che prende al solo nominare la «questione meridionale» – come se si trattasse sempre della solita lagna – ma forse a qualcosa serve, può servire. Non a caso, quando il Presidente del Consiglio è venuto in visita al Mattino, nel maggio dello scorso anno, ha ricevuto, per bene incorniciate e poste sotto vetro, le due pagine dedicate alla nuova questione meridionale che erano state pubblicate un mesetto prima. Quella sorta di manifesto, articolato in dieci domande, cominciava con queste parole: «c’è molta confusione sulle parole Mezzogiorno e questione meridionale. Più se ne discute e più sembra che le nuvole dell’indeterminatezza, anziché diradarsi, si addensino». C’era una qualche concessione retorica nell’incipit: come se davvero se ne discutesse di più, quando invece se ne ricominciava appena a discutere. Però le questioni intorno a cui il Mattino batteva, e nei mesi successivi avrebbe continuato a battere c’erano tutte: in primo  luogo la necessità di affermare chiara e forte l’esistenza della «quistione»; in secondo luogo, la necessità di distinguere analisi storica e azione politica; terzo, la critica dei determinismi geografici e delle costanti antropologiche come chiavi univoche di spiegazione; quarto, il rifiuto dell’alibi della politica locale cattiva, o della illegalità diffusa, come pretesto per mollare il Sud al suo destino; quinto, la necessità di ripensare il ruolo e i compiti dello Stato nazionale, anche nel contesto dei nuovi vincoli europei; sesto, il rigetto di troppo sbrigative soluzioni commissariali, oppure in chiave meramente  securitaria, per problemi complessi, da affrontare con il rigore della legge ma anche con gli strumenti della democrazia; settimo, i numeri, che rendono evidente la necessità di una perequazione fra Nord e Sud, sia sul piano materiale delle infrastrutture, che sul piano finanziario delle risorse, che infine su quello morale dei diritti e del loro effettivo godimento; ottavo, la più grande attenzione a come i soldi vengono spesi, senza però che la riqualificazione della spesa significhi semplicemente rinunciare a spendere, e si dirottino altrove i soldi che dovrebbero essere diretti qui, a cominciare dai fondi europei; nono, la promozione del merito, nel preciso significato costituzionale, per cui si aiutano i meritevoli per scardinare genealogie, appartenenze, clientelismi, e favorire la mobilità sociale; decimo e ultimo punto, un deciso investimento di senso, per cui chi fa la politica la fa per sé (non illudiamoci troppo) ma per un sé migliore di com’è oggi, con un’ambizione vera e grande, e una visione strategica da affermare.

Si possono scorrere in avanti, fino ai giorni nostri, le pagine del giornale, oppure all’indietro, sino alle origini di una franca battaglia che il Mattino ha sempre condotto, senza togliersi scompostamente la camicia ma senza nemmeno rimanere tronfi e imbellettati: ebbene, quei dieci punti li si troverà in mille editoriali e articoli e commenti. Sono una cifra del giornale.

E sono anche la linea di confronto su un buon numero di questioni su ci si sono impugnate le penne. Si è cercato infatti di confondere questa nuova attenzione meridionalistica con un folcloristico sudismo neoborbonico, all’insegna del «si stava meglio quando si stava peggio», e anzi non si stava peggio affatto. Ma la discussione sulla maniera in cui si è formato lo Stato unitario tutto può essere meno che un balzo di tigre nel passato, rivoluzionario o reazionario che sia. Stessa cosa si dirà dell’enfasi posta negli ultimi anni sul capitale sociale: manca, d’accordo, ma è fuorviante un discorso che rinunci a chiedersi se sviluppo, investimento, risorse, non diano una robusta mano ad accumularlo.

Insomma: su un terreno come sull’altro, e in ogni altra discussione che ha visto il giornale impegnato a approfondire, suscitare, stimolare, si è sempre cercato, con autentica passione civile, il confronto delle idee, sfidando se necessario il senso comune consolidatosi in questi anni. Quel senso comune (ben altro dal buon senso), per cui qualunque tentativo sia pur modesto di rileggere con occhi attenti e critici le politiche nazionali – o, negli ultimi anni, le politiche europee di coesione –  suonava o come vittimismo recriminatorio, o come sbrigativa assoluzione dei propri peccati.

Ma la questione meridionale non è mai stata, per il Mattino, la rendita di posizione su cui lucrano le parole dei suoi articoli. Al contrario, per essa e con essa si è cercata una posizione scomoda ma necessaria, da cui raccontare à corps perdu – senza alcuna riserva mentale o prurito ideologico – il Mezzogiorno. E cioè, in fondo, noi stessi.

(Supplemento speciale de Il Mattino, “Il senso del Mattino”, 28 settembre 2015)

Ma i diritti sono più forti dei sondaggi

Acquisizione a schermo intero 30062015 152502.bmpRichard Posner, chi era costui? Era, anzi è, oltre che un filosofo del diritto, un giudice americano. Che il 4 settembre 2014, insieme a due suoi colleghi, ha dichiarato incostituzionali le leggi degli Stati dell’Indiana e del Wisconsin, che vietavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una sentenza superata dal pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che la settimana scorsa ha reso legale il matrimonio gay in tutti gli Stati Uniti d’America. Sentenza storica. Obama ha salutato il verdetto dichiarando: «quando tutti gli americani sono trattati in maniera uguale, siamo tutti più liberi». Sono parole che non solo i gay, ma chiunque si consideri progressista sente di dover far proprie. Un sondaggio Gallup conforta peraltro la decisione presa dalla Corte: dal 1996 – anno dell’ultima «legge in difesa del matrimonio» – al 2014, quindi in soli dodici anni, gli americani favorevoli al matrimonio omosessuale sono passati dal 26% al 55%.

Da noi? Da noi, il sondaggio pubblicato ieri dal Mattino ci dice che le cose non stanno proprio così. Stanno anzi all’opposto: abbiamo anche noi il nostro 55%, ma di contrari al matrimonio gay (percentuale che sale al 67% tra i cattolici praticanti, mentre scende al 42% tra i laici). Proprio perciò non è inutile andarsi a leggere la sentenza del giudice Posner: non perché lui ci è arrivato prima, ma perché offre qualche considerazione in materia che merita di essere ripresa, per capire che paese siamo.

Dunque: cosa diceva il Wisconsin? Per prima cosa, che limitare il matrimonio agli eterosessuali fa parte della tradizione, e la tradizione «costituisce una valida base per limitare i diritti civili». Secondo, che va’ a sapere quali conseguenze potrebbero discendere dall’introduzione nell’ordinamento giuridico del matrimonio gay. Meglio, dunque, esser prudenti, e non far nulla. Terzo, che una simile decisione va presa democraticamente, a maggioranza. Quarto, e ultimo, che il matrimonio gay discende da quella stessa concezione dalla quale discende pure il divorzio senza colpa (perché semplicemente ci si è stancati di stare insieme), e produce dunque gli stessi effetti di indebolimento sul matrimonio tradizionale.

Non sono sicuro, ma guardando l’insieme delle risposte date dal campione esaminato da Ipr Marketing nel sondaggio commissionato dal Mattino, mi vien fatto di pensare che gli italiani sono contrari prevalentemente per il primo motivo e, in subordine, per l’ultimo. Non si tratta cioè tanto della volontà di negare diritti agli omosessuali, su questo c’è anzi una relativa apertura (non però sull’adozione gay, su cui le resistenze sono decisamente più forti); si tratta però di difendere l’istituto familiare: peccato che da questa difesa viene come conseguenza niente affatto secondaria che quei diritti risultino conculcati.

Il giudice Posner, comunque, quei motivi li respinge tutti e quattro. Con buone ragioni, che parafraso liberamente, e che credo siano utili anche al nostro Paese. Per cominciare, la tradizione non è per niente, in quanto tale, un buon motivo per limitare alcunché. Vi sono infatti anche tradizioni cattive, o insulse: se a tradizione non vi è modo di aggiungere «razionale» o almeno «ragionevole», non è il caso di dare ad essa alcuna, speciale autorità. In secondo luogo, non vi sono evidenze empiriche a sostegno della tesi che il matrimonio gay è pericoloso per le basi della società. In terzo luogo, democrazia non vuol dire rimettere tutto al giudizio della maggioranza. Le nostre sono democrazie liberali, che proteggono o dovrebbero proteggere un certo numero di diritti fondamentali anche dalle decisioni della maggioranza. Anzi: dovrebbero in materia di diritti fondamentali difendere anzitutto le minoranze, perché le maggioranze si difendono abbastanza bene da sole. In quarto e ultimo luogo, gli effetti sul matrimonio tradizionale vi saranno pure (vedi alla voce: secolarizzazione), ma siamo daccapo al punto primo: perché sarebbe preferibile una società fondata sul matrimonio tradizionale?

Fin qui, più o meno, Richard Posner. Altro si potrebbe aggiungere, sui timori di chi crede che si darebbe la stura a tutto (perché non la poligamia?), o che si snaturerebbe e infiacchirebbe l’identità di un popolo. Forse, tra gli italiani, circolano anche questi ancor meno razionali timori. Più probabilmente, è solo l’idea che una qualche naturalità dei rapporti morali (quindi anche matrimoniali) vada comunque difesa. Metto insieme tutte queste cose (che identiche però non sono), solo per dire ciò che in esse manca. Manca, in un Paese a sfondo tradizionalista e anagraficamente invecchiato, la fiducia che la storia sia non il luogo di una irreparabile perdita di sostanza, ma quello in cui invece si acquista qualche spazio di libertà in più per l’agire umano. La fiducia nel progresso, si sarebbe detto una volta, definito dal sempre maggior grado di eguaglianza e di libertà fra gli uomini.

La maggioranza degli italiani è contro il matrimonio gay? È una sensibilità di cui il legislatore deve tener realisticamente conto. Ma una sensibilità non è uguale a una ragione, né può essere più forte di un diritto.

(Il Mattino, 30 giugno 2015)