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Il Mezzogiorno da questione a passione civile

IMG-20150930-WA0000La questione meridionale: negli ultimi anni o negli ultimi mesi? Per questo giornale, è un tema di discussione da molti anni; per la politica nazionale, si direbbe invece che lo sia solo da qualche mese.

L’affermazione andrebbe corretta, naturalmente, perché il problema del divario fra le diverse aree del Paese ha accompagnato l’intera storia nazionale, e questo giornale ha quindi dovuto occuparsene fin dalla sua fondazione.

Negli ultimi anni, però, la riflessione (e la polemica) meridionalistica ha dovuto misurarsi con un diverso ostacolo, cioè l’aggressiva retorica leghista e nordista che ha a lungo dominato il discorso pubblico. Si può considerare che il culmine sia stato raggiunto con l’immagine del «sacco del Nord» perpetrato dallo Stato nazionale con il trasferimento e la dissipazione di risorse a favore del Mezzogiorno. Nientemeno.

Anche in questo caso, però: nulla di veramente inedito. Già Gramsci ricordava come alla borghesia settentrionale del Paese appartenesse l’idea del Sud «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia». Questo regime di discorso, tuttavia, è ormai divenuto quello abituale, corrente per l’intero arco della seconda Repubblica – posto che la seconda Repubblica abbia davvero disegnato un arco, e non piuttosto un imbrogliato scarabocchio dal quale stiamo ancora provando a venir fuori. Oggi la stessa Lega Nord si è scelta, in realtà, altri capri espiatori («l’invasione» degli immigrati), e liste «Noi con Salvini» spuntano anche al Sud.

Ma di qui a dire che il Mezzogiorno sia divenuta la prima e principale preoccupazione del Paese ce ne corre. Eppure qualche buona ragione vi sarebbe, se è vero e anzi conclamato l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto Svimez. Su quei dati, su quei numeri che fan tremar le vene e i polsi si è innescato un dibattito serio. Il che non vuol dire che siano mancate punte di polemica ridicola – la Svimez non serve a nulla, come a dire: rompiamo il termometro – ma per lo meno si è raggiunta un’eco nazionale. Il premier Renzi ha convocato in pieno agosto la direzione del suo partito, e annunciato un Masterplan per il Mezzogiorno che dovrebbe vedere la luce proprio in questi giorni, magari in collegamento con la legge di stabilità che andrà alle camere dopo la metà di ottobre. Se si confronta il discorso tenuto da Renzi alla direzione del Pd con il discorso tenuto alle camere in occasione dell’insediamento del suo governo si noterà un non piccolo particolare: prima il Mezzogiorno non c’era, adesso c’è.

Così viene naturale pensare che, forse, l’impegno che questo giornale sta mettendo nel tenere desta l’attenzione sul Sud, e vigile la considerazione dell’opinione pubblica, sarà pure costretto a sfidare il soprassalto di noia che prende al solo nominare la «questione meridionale» – come se si trattasse sempre della solita lagna – ma forse a qualcosa serve, può servire. Non a caso, quando il Presidente del Consiglio è venuto in visita al Mattino, nel maggio dello scorso anno, ha ricevuto, per bene incorniciate e poste sotto vetro, le due pagine dedicate alla nuova questione meridionale che erano state pubblicate un mesetto prima. Quella sorta di manifesto, articolato in dieci domande, cominciava con queste parole: «c’è molta confusione sulle parole Mezzogiorno e questione meridionale. Più se ne discute e più sembra che le nuvole dell’indeterminatezza, anziché diradarsi, si addensino». C’era una qualche concessione retorica nell’incipit: come se davvero se ne discutesse di più, quando invece se ne ricominciava appena a discutere. Però le questioni intorno a cui il Mattino batteva, e nei mesi successivi avrebbe continuato a battere c’erano tutte: in primo  luogo la necessità di affermare chiara e forte l’esistenza della «quistione»; in secondo luogo, la necessità di distinguere analisi storica e azione politica; terzo, la critica dei determinismi geografici e delle costanti antropologiche come chiavi univoche di spiegazione; quarto, il rifiuto dell’alibi della politica locale cattiva, o della illegalità diffusa, come pretesto per mollare il Sud al suo destino; quinto, la necessità di ripensare il ruolo e i compiti dello Stato nazionale, anche nel contesto dei nuovi vincoli europei; sesto, il rigetto di troppo sbrigative soluzioni commissariali, oppure in chiave meramente  securitaria, per problemi complessi, da affrontare con il rigore della legge ma anche con gli strumenti della democrazia; settimo, i numeri, che rendono evidente la necessità di una perequazione fra Nord e Sud, sia sul piano materiale delle infrastrutture, che sul piano finanziario delle risorse, che infine su quello morale dei diritti e del loro effettivo godimento; ottavo, la più grande attenzione a come i soldi vengono spesi, senza però che la riqualificazione della spesa significhi semplicemente rinunciare a spendere, e si dirottino altrove i soldi che dovrebbero essere diretti qui, a cominciare dai fondi europei; nono, la promozione del merito, nel preciso significato costituzionale, per cui si aiutano i meritevoli per scardinare genealogie, appartenenze, clientelismi, e favorire la mobilità sociale; decimo e ultimo punto, un deciso investimento di senso, per cui chi fa la politica la fa per sé (non illudiamoci troppo) ma per un sé migliore di com’è oggi, con un’ambizione vera e grande, e una visione strategica da affermare.

Si possono scorrere in avanti, fino ai giorni nostri, le pagine del giornale, oppure all’indietro, sino alle origini di una franca battaglia che il Mattino ha sempre condotto, senza togliersi scompostamente la camicia ma senza nemmeno rimanere tronfi e imbellettati: ebbene, quei dieci punti li si troverà in mille editoriali e articoli e commenti. Sono una cifra del giornale.

E sono anche la linea di confronto su un buon numero di questioni su ci si sono impugnate le penne. Si è cercato infatti di confondere questa nuova attenzione meridionalistica con un folcloristico sudismo neoborbonico, all’insegna del «si stava meglio quando si stava peggio», e anzi non si stava peggio affatto. Ma la discussione sulla maniera in cui si è formato lo Stato unitario tutto può essere meno che un balzo di tigre nel passato, rivoluzionario o reazionario che sia. Stessa cosa si dirà dell’enfasi posta negli ultimi anni sul capitale sociale: manca, d’accordo, ma è fuorviante un discorso che rinunci a chiedersi se sviluppo, investimento, risorse, non diano una robusta mano ad accumularlo.

Insomma: su un terreno come sull’altro, e in ogni altra discussione che ha visto il giornale impegnato a approfondire, suscitare, stimolare, si è sempre cercato, con autentica passione civile, il confronto delle idee, sfidando se necessario il senso comune consolidatosi in questi anni. Quel senso comune (ben altro dal buon senso), per cui qualunque tentativo sia pur modesto di rileggere con occhi attenti e critici le politiche nazionali – o, negli ultimi anni, le politiche europee di coesione –  suonava o come vittimismo recriminatorio, o come sbrigativa assoluzione dei propri peccati.

Ma la questione meridionale non è mai stata, per il Mattino, la rendita di posizione su cui lucrano le parole dei suoi articoli. Al contrario, per essa e con essa si è cercata una posizione scomoda ma necessaria, da cui raccontare à corps perdu – senza alcuna riserva mentale o prurito ideologico – il Mezzogiorno. E cioè, in fondo, noi stessi.

(Supplemento speciale de Il Mattino, “Il senso del Mattino”, 28 settembre 2015)