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Il pirata di internet è un seguace di Kant

La faccenda è così complicata, che forse è il caso di mettere in pista Kant: Reimarus non basta, anche perché pochi lo conoscono. L’FBI ha infatti oscurato Megaupload e Megavideo, e arrestato Kim Schmitz, l’uomo che grazie al traffico sui due siti, una gran parte del quale riguardante materiale coperto da copyright – aveva messo su una fortuna e se la godeva in Nuova Zelanda, tra donne e motori. Il collettivo hacker Anonymous (quelli con la maschera di Guy Fawkes, resa popolare dal  film «V for Vendetta») l’ha presa malissimo, considerandolo un attacco alla libertà di parola e di stampa, ed anche, in termini più aggiornati, alla libertà di navigare in forma anonima, e per tutta risposta ha messo fuori gioco un bel po’ di siti dell’Amministrazione della giustizia degli Stati Uniti. Siccome però, comunque la si pensi, al fianco del furbastro Schmitz, uno con sentenze passate in giudicato, non si fa certo una bella figura, è forse il caso di mettere la questione sul piano più generale di una riflessione su storia e destino del copyright nell’epoca di internet. Di questo infatti si tratta: da un lato ci sono le case cinematografiche e le major discografiche in lotta contro la pirateria informatica; dall’altra gli utenti, che si vorrebbero prestare i file così come ci si presta i libri o i dischi, e che tendono a considerare l’informazione e la conoscenza un bene comune, e la libertà di accesso alla Rete un diritto fondamentale. In mezzo, una legge decisamente restrittiva, che il Senato americano ha per il momento accantonato, ma che, fosse approvata, costituirebbe il più poderoso tentativo di stringere le maglie della Rete (col rischio che a finirci intrappolati siano anche social network e motori di ricerca).

Quando nacque la legislazione sul diritto d’autore – trecento anni fa, nel Regno Unito – le cose erano semplici: la funzione «taglia e incolla» non era stata ancora inventata né le idee viaggiavano via web. Copiare era operazione lunga e costosa, ma siccome andavano comunque regolati il diritto dell’autore e l’interesse dell’editore, una legge la Regina Anna dovette farla. E decretò, salomonicamente: 14 anni per l’editore, 14 per l’autore; poi via libera, copi chi può. Quando però arrivarono gli illuministi, con la fissa della lotta contro l’ignoranza, le vie avevano cominciato a liberarsi per davvero, grazie alla diffusione sempre più larga di prodotti a stampa, e gli appetiti economici (così come le ambizioni autoriali) si erano fatti decisamente più robusti. Toccò allora a Kant fare il punto della situazione. Prima di lui Reimarus l’aveva fatta facile, prendendo le difese della più larga circolazione delle idee. Kant, che alla domanda “che cos’è l’illuminismo?” aveva risposto con un inequivocabile «sapere aude!», «abbi il coraggio di sapere!», volle sistemare per bene le cose, contemperando l’avanzamento della conoscenza con le esigenze del diritto.

Così sentenziò (più o meno): un conto è il rapporto che un autore intrattiene con il pubblico tramite il suo editore, un altro sono le opere.  Siccome nessuno può parlare a nome di un altro senza autorizzazione, nessuno al di fuori dell’editore (che ne è stato autorizzato) può dare parola all’autore. Ergo: solo l’editore, in base al contratto con l’autore, può stampare l’opera e distribuirla in pubblico. Per non far esultare solo le major, Kant però aggiunse: «Di contro le opere d’arte, come cose, possono essere copiate». Santi numi, l’idea che le opere d’arte siano assimilabili a «cose» è sorprendente, ma Kant voleva dire che non è il possesso fisico dell’opera quello che conta, quanto quello che gli si fa fare o dire. Con un linguaggio un po’ meno legnoso e un po’ più aggiornato è come dire: un conto è lucrare sulle opere dell’ingegno altrui, un altro è la libera riproduzione per uso personale.

L’argomento kantiano aveva però un punto di pregio che va al di là della soluzione giuridica suggerita (che già di suo non sarebbe male). Esso consiste nell’invito a pensare la proprietà intellettuale come un’azione, qualcosa che si fa e non qualcosa che si ha. La domanda diviene allora chi compie cosa e non chi detiene cosa: messa così, forse una soluzione la si trova. E di questi tempi,  che si tratti un po’ meno di detenere e un po’ più di fare (e di inventare) non potrà che fare bene a tutti, autori ed editori compresi.

Il mattino, 21 gennaio 2012

Illuministi al patibolo

«Ho sentito la voce di Ercole nelle pagine della Scienza della legislazione». Ci sono dunque stati, a Napoli, uomini capaci di esprimere le loro idee con la forza di un Ercole. E di imporle all’attenzione del mondo: dei circoli illuministici milanesi – da cui proviene il giudizio citato, che è di Alessandro Verri – come di quelli europei dove l’opera di Gaetano Filangieri fu subito letta e tradotta, varcando persino l’oceano, per ispirare l’opera di uno dei padri della costituzione americana, Benjamin Franklin.
E ci sono state, soprattutto, le idee, e la capacità di individuare i mali endemici della società napoletana, e la volontà di mettervi mano. Con la tragica fine della repubblica del 1799, la stagione in cui la filosofia volle andare «in soccorso de’ governi» non si concluse felicemente. Ma senza quel soccorso non è che le cose siano andate molto meglio, nei duecento anni successivi. Né si può dire che quelle idee non tracciassero un profilo di modernizzazione del Regno, di cui non vi fosse assoluto bisogno.
E di cui non vi sia ancora oggi bisogno, per non lasciare che la politica si dibatta fra la mera amministrazione dell’esistente (non di rado: la cattiva amministrazione) e le improvvise fiammate populistiche, che faranno pure cantare di giubilo i sanfedisti di ogni epoca, ma che lasciano le cose come prima, o peggio di prima.
Si sente però la parola filosofia e subito si sospettano chissà quali velleitarie astrattezze. Del resto, entrare «con la fiaccola della filosofia nelle tenebre del Foro» non doveva essere semplice, allora. Non lo è nemmeno oggi. Ma se c’era una cosa che questa schiera di uomini – il Filangieri della «Scienza», o Francesco Pagano, autore di quel piccolo capolavoro che sono le «Considerazioni sul processo criminale», o Melchiorre Delfico, che condusse una vigorosa battaglia culturale contro gli abusi della giurisprudenza – se c’era una cosa che costoro avevano chiara, era che bisognava abbandonare i cieli della pura speculazione, e mettere la filosofia (cioè le idee, i saperi, e la cura dell’universale) a servizio dell’esperienza la più terragna possibile.
E il terreno di elezione di questo straordinario disegno riformatore era quello indicato dal giovane Filangieri: non i libri di teologia ma i codici, le leggi. Un terreno difficile, sul quale ci si doveva muovere con decisione, allo scopo di spezzare il tradizionale e soffocante equilibrio fra togati e feudalità, ammodernare l’assetto politico-istituzionale del Regno e migliorare le condizioni economiche e sociali di larghi strati della popolazione.
Vasto programma. Ma chi non ne sente ancora oggi l’esigenza? Chi non vede che c’è ancora oggi l’esigenza di stabilire un valido patto di cittadinanza, superare gli interessi particolari e recuperare la fiducia nei poteri pubblici? E per dove passa, quest’azione riformatrice? Gli studiosi contemporanei hanno coniato la formula del pan-penalismo, a proposito dell’abnorme estensione del diritto penale nelle società contemporanee: il che non si traduce affatto in più giustizia, ma, spesso, in paralisi amministrativa, e soprattutto nell’investimento dell’azione penale di inediti significati simbolici (quindi politici): i giudici d’assalto, la spettacolarizzazione della giustizia, i verdetti a mezzo stampa, e a volte persino l’avviso di garanzia o un’intercettazione come via breve alla celebrità.
Tanto più sarebbe necessario, allora, che le forme e i modi del processo stiano nell’alveo che la modernità giuridica ha tracciato per esso. Proprio per questo, a leggere oggi le pagine che Pagano dedica al diritto penale, si rimane ammirati per l’attualità della sua lezione. Si aprono libri che non hanno nulla di polveroso, e che a parte l’italiano settecentesco potrebbero ben figurare nei programmi politici dei partiti italiani, se tra un repentino cambio di nome e l’altro trovassero ogni tanto il gusto di riannodare le fila della storia patria. Basti pensare alle proposte in tema di giustizia: alla battaglia per la certezza del diritto, alla dura critica del rito inquisitorio, basato sulla segretezza degli atti istruttori, sulla disparità di rapporto fra accusa e difesa e sull’ampia discrezionalità del magistrato nella fase di raccolta delle prove. Son trascorsi più di due secoli, e non si può ancora dire che questo nodo cruciale sia stato del tutto sciolto, nell’ordinamento giuridico italiano. Si pensi anche alla chiarezza con cui Pagano chiedeva la separazione di inquirenti e giudicanti, e al rifiuto di ogni compressione delle libertà individuali e delle garanzie della difesa a fini di prevenzione generale del crimine o per qualunque altra superiore utilità sociale: una coscienza del valore irrinunciabile dei diritti fondamentali da far impallidire tanti riformatori di oggi.
Nei «Saggi politici», Pagano diede prova di saper intendere con il necessario realismo, anche grazie alla lezione di Vico, il senso dei processi storici e politici nei quali iscrivere la propria azione. La parola virtù, spiegava ad esempio, viene da «vis», che vuol dire forza: la morale della politica non consiste infatti in un’astratta predicazione del bene, ma nel disporre le forze in campo in modo che esse contribuiscano insieme alla libertà civile. Non c’è virtù pubblica, infatti, che possa imporsi a dispetto di ogni convenienza. Convenienza, d’altronde, è una strana parola, che bisogna saper leggere: non dice infatti solo egoismo e opportunismo, ma indica il luogo in cui gli interessi individuali debbono venire insieme – con-venire, appunto – per trovare il modo della loro composizione. La virtù di Pagano e degli illuministi napoletani non era dunque il «fiat giustitia, pereat mundus», ma qualcosa come «fiat mundus, pereat iniustitia»: solo al sorgere di un nuovo mondo storico e civile, ordinato dalle leggi, perirà l’ingiustizia, e  l’ineguaglianza sociale.
Pagano morì sul patibolo. All’inquisitore che in carcere gli comunicava beffardo che a volere la sua testa non era solo la Corte, ma anche il popolo per il quale si era tanto battuto, pare abbia risposto che sarebbe morto contento se ci fosse stato veramente un popolo capace di imporre la sua volontà ai magistrati. Non era uno sbuffo di astratto e impotente furore giacobino, che avrebbe contraddetto tutta la sua esperienza ‘garantista’ di avvocato penalista. Non era l’auspicio di una giustizia popolare che rovesciasse il verdetto del persecutore, ma l’amara consapevolezza che nessun disegno di riforma politica e civile sarebbe mai potuto riuscire senza essere fatto proprio da una più larga volontà collettiva. Sarebbe stato contento, Pagano, se il popolo avesse battuto un colpo non sul parquet del tribunale, ma là dove la volontà popolare era stata chiamata a manifestarsi: a quel dì, in soccorso della filosofia andata in soccorso dei governi; oggi, più semplicemente, nelle urne.
E in verità, se davvero lo facesse, saremmo ben contenti pure noi.
(Il Mattino, 18 agosto 2009) 

Alla prossima

"Non credo che stia offrendo una soluzione per la maggior parte dei musulmani europei. Una strategia che si aspetta che milioni di musulmani abbandoneranno immediatamente la fede dei propri padri e madri è semplicemente non realistica. Se il messaggio che ascoltano da noi è che la condizione necessaria per essere europei è abbandonare la loro religione, allora sceglieranno di non essere europei. Se gli europei secolari pretendessero ai musulmani di adottare la propria fede – l’umanesimo secolare – sarebbero intolleranti quasi quanto i jihadisti che pretendono che noi adottiamo la loro. Ma, protesteranno i fondamentalisti dell’Illuminismo, la nostra fede è basata sulla ragione! Beh, replicheranno gli altri, la nostra è basata sulla verità!”.

T. Garton Ash a proposito del "fondamentalismo illuminista" di Hirsi Ali. Chi sia l’uno e chi sia l’altra è ben spiegato dalla pagina da cui ho prelevato la citazione (comprensiva di neretto). L’articolo riferisce il dibattito in corso. Nel quale vale la pena entrare, anche se ora proprio non posso.