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Il leader alla sfida dei valori

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Siccome le elezioni regionali non sono andate come si immaginava che sarebbero andate, in Direzione ieri sera erano in molti che attendevano Renzi al varco. Ma come dovevano andare, le elezioni, perché la Direzione nazionale del Pd festeggiasse a champagne? Davvero qualcuno pensava che il Pd veleggiasse ancora, bello e felice, intorno al 40 per cento, o che il Pd avrebbe fatto cappotto? Davvero si pensava che non ci sarebbe stato un calo in elezioni di mid-term, finita cioè la luna di miele dei primi mesi di governo e con tutte le querimonie della minoranza interna? E le amministrazioni regionali godevano forse di così ampio credito e fiducia, da non lasciar temere un calo di affluenza?

In verità, ieri sera Renzi non è sembrato particolarmente interessato all’analisi del voto, quanto piuttosto all’analisi del mese di maggio. Perché il Pd ha trascorso il mese di maggio ha ragionare di sé, piuttosto che delle cose fatte dal governo. Così sul piano dell’analisi del voto, il premier si è limitato a contare le regioni che il Pd ha messo in fila, mentre come conseguenza del maggio delle polemiche interne ha tirato una linea assai netta: l’unità del partito non vale la paralisi. Naturalmente non si è sottratto alla ricerca del punto di sintesi, su quei terreni sui quali può ancora essere trovata, la scuola e il Senato, cioè le riforme che devono passare per le forche caudine di Palazzo Madama. Ma, sia vero o no quello che Renzi ha sostenuto, che cioè i numeri ci sono e le si potrebbe approvare anche domani mattina, certamente è vero il punto politico che ha difeso. E cioè: il governo Letta si era dato un orizzonte temporale limitato, per superare lo stallo seguito al voto e alla «non vittoria» di Bersani; il governo Renzi ha motivo di concludere la legislatura e arrivare al 2018 solo se è in grado di fare le riforme, e non se tiene dentro tutto e tutti, per non scontentare nessuno. Perché per Renzi, se da una parte c’è Grillo («rabbia, rabbia, rabbia») e dall’altra c’é Salvini (e di nuovo solo «rabbia rabbia rabbia») Il Pd è necessariamente chiamato ad investire sull’aazione di governo. Non c’è altra strada, che non sia, a sinistra, quella minoritaria di Landini e della sua fumosa coalizione sociale.

Stanno strette le scarpe, alla minoranza del Pd? Pazienza. In cima alle preoccupazioni di Renzi non sta l’unità del Pd. Era ancora nel vero Renzi, quando aggiungeva che le riforme fatte finora – Jobs Act, legge elettorale – piaccia o no, sono frutto di un’accelerazione: gentile eufemismo per dire che è andato avanti nonostante i «frenatori» interni.

Non basta. Ieri Renzi non ha avuto paura di annunciare la volontà di cambiare i connotati del Pd anche su questioni fondanti, per un partito di sinistra, come l’immigrazione e il giustizialismo. Su quest’ultimo punto ha forse pronunciato l’eresia maggiore: il giustizialismo è di destra, ha detto. Sarà anche l’effetto di qualche opportunità del momento (leggi: De Luca e la legge Severino), ma resta che una roba così netta e così chiara ha sicuramente il valore di una ridefinizione del quadro valoriale di riferimento del partito. Se e come Renzi la porterà avanti vale sicuramente più di tutte le beghe interne.

Su Repubblica, Ilvo Diamanti, ha proposto un’analisi del voto abbastanza paradossale: nelle ex regioni rosse, l’elettore che vota il Pd lo vota nonostante Renzi. Nelle regioni forza-leghiste, l’elettore che vota Renzi lo vota nonostante il Pd. Insomma: Renzi e il Pd, nell’analisi di Diamanti, non possono coincidere. Come però si ottiene questo risultato? Immaginando che l’elettore non cambi: quello di sinistra resta di sinistra, e non riesce a farsi piacere la novità di Renzi; quello di centro-destra potrà anche farselo piacere, ma allora gli continuerà a spiacere il Pd. In un caso e nell’altro, in base a questa analisi col voto non si esprime mai una volontà di cambiare: di cambiare opinione o di cambiare il Paese. Tra rottamazione prima e strappi nel partito poi, è innegabile invece che Renzi qualcosa la stia cambiando nella carta d’identità della sinistra italiana. E se ha ragione lui, allora rimane un’ultima possibilità, non tanto a Ilvo Diamanti quanto alla minoranza che lo ascoltava ieri, un po’ intimorita da tanta baldanza: quella, prima o poi, di cambiare analisi.

(Il Mattino, 9 giugno 2015)

Maggioritario magico

Nel dibattito sulla riforma della legge elettorale torna a disegnarsi uno spartiacque che aveva preso forma anche all’inizio degli anni 90 tra fautori del proporzionale e fautori del maggioritario. Siccome l’accordo fra i partiti sembra pencolare dalla parte dei primi, sono oggi i fautori del maggioritario a lamentare una riforma che, ai loro occhi, appare più come una controriforma, un ritorno alla bassa cucina della prima Repubblica, ai governi fatti e disfatti in Parlamento (come se, appunto, il Parlamento fosse una bassa cucina), allo scippo del potere che il principio maggioritario assegnerebbe senz’altro ai cittadini di scegliersi il governo il giorno stesso delle elezioni, senza le deprecate trattative tra i partiti (come se in Costituzione non fosse scritto che i governi nascono con la fiducia del Parlamento, e non con il solo suffragio elettorale). A chi obiettasse che nei vent’anni che sono alle nostre spalle il maggioritario non ha dato gran prova di sé, viene risposto che ciò è dipeso da tutto il resto: dalle riserve proporzionali previste dalla legge, dai regolamenti parlamentari che favoriscono il frazionamento dei gruppi politici, dai rimborsi elettorali ai partiti che ne certificano – per dir così – l’esistenza in vita ben oltre il necessario, e così via. Da tutto, insomma meno che dal maggioritario.

Ci può stare. Quel che però non ci può più stare è la semplificazione, usata con grande disinvoltura, per cui maggioritario significherebbe di per sé efficienza e proporzionale significherebbe di per sé inefficienza; il primo sarebbe moderno e il secondo sarebbe logoro e stantìo. Siccome è evidente che si può mettere un sistema proporzionale in condizione di funzionare, così come si può mettere un maggioritario in condizione di non funzionare (ne abbiamo avuto ampiamente prova), deve essere altrettanto evidente a tutti che sistemi elettorali diversi disegnano sistemi politici diversi, i quali però non sono in astratto buoni o cattivi, ma lo sono invece nelle condizioni storiche, culturali, sociali in cui sono chiamati a vivere. Non c’è politologia che tenga, e neppure analisi comparata di sorta: non sarà la dimostrazione che in Germania funziona così, o in Francia colà, a rilasciare il giudizio storico-politico che ci occorre, per una decisione che supera di gran lunga la tecnicalità elettorale e riguarda nientemeno che un’idea di Paese. Lo stesso mantra del bipolarismo andrebbe recitato con maggiore circospezione. La Prima Repubblica (che era proporzionale) è stata bipolare: quella che è mancata è stata l’alternanza. La Seconda Repubblica (che è stata, grosso modo, maggioritaria) ha invece avuto l’alternanza, scandita con la regolarità di un pendolo. Ma a giudicare dai cambi di casacca, e dall’ultimo governo Berlusconi-Scilipoti, è persino opinabile che, con tutto il berlusconismo e l’antiberlusconismo del mondo, sia stata più nettamente bipolare di quanto sia stata la prima.

Il fatto è che se il sistema politico è frammentato non sarà una legge maggioritaria a ricompattarlo, se non forzosamente. Quel che ci occorre è invece un ricompattamento intorno a progetti politici, non  a mere premialità elettorali – che, come s’è visto, serviranno pure il giorno delle elezioni a darci un governo, ma non lo mettono in condizione di governare negli anni successivi.

E dunque? Dirò una cosa lievemente paradossale: non deprecherei i partiti che si facessero la legge elettorale a loro uso e consumo. Mi domando piuttosto: a uso e consumo di chi, in alternativa, dovrebbero farla? A parte demagogia populiste o tecnocratiche, se si crede ancora nella democrazia rappresentativa, e se non ci si compiace dell’aristocrazia democratica che – secondo Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri – sarebbe di fatto il principio del montismo, cioè della fase politica attuale – c’è solo da augurarsi che i partiti ci vedano giusto e si facciano davvero una legge a loro uso e consumo. Che li aiuti a rendere compatte anzitutto le loro ragioni, senza frazionarle in mille coriandoli proporzionali ma senza neppure confonderle in inutili cartelloni maggioritari. Perché certo, le leggi si fanno per il Paese e per i cittadini, ma non c’è altro modo di definire quello che serve al Paese o alla generalità dei cittadini che non sia per l’appunto il voto alle formazioni politiche in libere elezioni.

L’unità, 3 aprile 2012