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Intercettazioni, la finta delle virgolette

Touché

G. Sachs, Touché (1979)

Niente più virgolette, ma solo parafrasi del contenuto delle intercettazioni. È una rivoluzione? Dipende. Se il ministro dello sviluppo economico si lamenta di essere trattata dal compagno come una lavandaia del Guatemala, non si potrà più leggere, tra virgolette: “Mi tratti come una lavandaia del Guatemala!”. Per evitare le virgolette e fare la differenza tra il discorso diretto e il discorso indiretto può, però, bastare una semplice congiunzione. Come il bacio è un apostrofo tra le parole “T’amo”, così la riforma delle intercettazioni rischia di essere solo una congiunzione – “che” – posta, invece dei due punti, tra il verbo “dice” e la frase intercettata: tanto occorre, difatti, per togliere le virgolette alla frase.
Non è questo lo spirito del provvedimento, ovviamente, e anzi il Ministro Orlando si trova ad essere attaccato dalla stampa giustizialista, che lo accusa di voler limitare l’informazione con la scusa della tutela della privacy. Ma questi esercizi di interpretazione, o di stile, cui sarà chiamato il magistrato per inserire nei suoi provvedimenti, rigirandoci attorno, il materiale raccolto tramite le intercettazioni rischiano di accendere una discussione fuorviante. Per i paladini della stampa libera, qualunque filtro o limitazione alla diffusione è da ritenersi, in realtà, un divieto ingiustificabile. E, in effetti, qualche misura in tal senso c’è. La bozza predisposta negli uffici di via Arenula prevede che non possa essere trascritta la telefonata tra l’avvocato e il difensore che fosse stata eventualmente intercettata. Stessa sorte toccherà alle conversazioni che non siano giudicate rilevanti ai fini delle indagini. L’una e l’altra misura vengono ritenute in qualche modo lesive del diritto della pubblica opinione a conoscere vita morte e miracoli dei personaggi pubblici, ai quali non dovrebbe essere riconosciuto un diritto assoluto alla privacy, ma solo un diritto limitato, attenuato, come numerose sentenze delle più alte corti di giustizia italiane ed europee hanno in più circostanze ribadito.
Discussione fuorviante, però: lo ripeto. Per una ragione essenziale: perché non affronta il tema più spinoso, cioè qual genere di strumento siano le intercettazioni, a cosa debbano servire, e dunque entro quali limiti sia bene consentirne l’utilizzo. Anche nell’intervento che il Ministero ha elaborato, a quel che si capisce, pare che l’unico nodo che il legislatore deve affrontare riguardi la diffusione del loro contenuto. È sorprendente allora apprendere che, in base alla bozza, il magistrato potrà  disporre la trascrizione delle intercettazioni in un solo caso, quando “il pm ne valuti la rilevanza per i fatti oggetto di prova”. È sorprendente non perché sarebbe una misura troppo restrittiva, come ritiene il partito giustizialista che vorrebbe poter leggere di tutto e di più, ma perché non è chiaro per quale motivo si dovrebbe fornire la parafrasi di tutte le altre intercettazioni, di quelle cioè che non abbiano rilevanza per i fatti oggetto di prova. Di queste intercettazioni si fornirà, avvolto in circonlocuzioni e parafrasi, il contenuto. Ma la domanda inevasa è: se non sono rilevanti per i fatti da provare, per cosa sono rilevanti? E più in generale, cosa bisognerebbe augurarsi che abbia rilievo per il diritto penale, ai fini dello svolgimento del processo, oltre a quel che riguarda i fatti costituenti reato? In verità, la sfera di questa rilevanza si è di molto ampliata, e da tempo, finendo col riguardare cose come le condotte, l’ambiente, il contesto, la personalità di quanti sono fatti oggetto di indagine. Sempre al fine di restituire meglio la materia su cui un giudice dovrà infine giudicare, ma col risultato che nei faldoni delle inchieste ci può ormai finire la qualunque. Ora c’è (o ci sarebbe) uno stop alle parole espresse, direttamente pronunciate dalle persone intercettate. Ma la qualunque, sia pure parafrasata, rimane la qualunque.
Certo, non è facile tirare una linea. E lo è sempre meno, quanto più ci si è allontanati da una concezione liberale del diritto, in cui si cerca per principio di restringere il più possibile i margini di interpretazione nella  qualificazione giuridica dei fatti, si tende a preferire la certezza all’efficacia, e non si sacrifica il rispetto di tutele e garanzie al perseguimento dei reati.
Ma la cosa riesce ancora più difficile quando le più pensose considerazioni su quale diritto, per quali procedure e quali processi, vengono sostituite dalla brama di fare nero il malcapitato di turno, si arrivi o no a sentenza. Perché questo è troppe volte diventato il vero movente della diffusione del contenuto delle intercettazioni: qualche volta per merito della stampa (il che ci può stare, se e nella misura in cui la stampa mantiene, in democrazia, una funzione di contro-potere), qualche altra volta invece per colpa di certi pm, che, forse per tema di non farcela in tribunale, si prendono intanto la briga di dare avvio al processo sui giornali.
 Il tempo di dare attuazione alla delega non è molto, questo è vero. Ma è auspicabile che, nella fase avviata con questa prima relazione illustrativa fatta circolare negli uffici giudiziari, venga usato nel migliore dei modi. Non per portare a casa un risultato pur che sia, ma per correggere convinzioni e prassi fin qui assai dubbie.
(Il Mattino e Il Messaggero, 9 settembre 2017)

Le intercettazioni e la pesca a strascico

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Questo articolo è stato già scritto, su questo giornale, un anno fa, il 15 giugno 2016, a commento di un’inchiesta sull’ospedale Santobono a seguito della quale, oltre a finire in carcere dodici persone, era stata coinvolta – si ricorderà – la professoressa Maria Triassi. Che ieri il gup ha assolto con formula piena. Anche gli altri pubblici ufficiali coinvolti sono usciti dal processo.  Lo scorso anno sui giornali era precipitato il solito diluvio di intercettazioni, e in mezzo a quelle dettagliate ricostruzioni, tutte ovviamente ispirate dall’ipotesi accusatoria, era passato quasi inosservato il fatto che il tentativo di un gruppo criminale di ottenere un appalto per l’impresa Kuadra era fallito, e l’appalto assegnato a un’altra impresa. «Ciononostante – scriveva Il Mattino, insinuando qualche dubbio – il manager dell’ospedale, che non risulta aver mai avuto alcun contatto diretto con i presunti corruttori, e un’autorità della sanità campana come Maria Triassi vengono indagati con ipotesi di reato che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta, senza che peraltro nessuna autorità investigativa abbia mai sentito l’esigenza di interrogarli».

Quei dubbi, da soli, non bastavano certo a correggere la marea montante che saliva dai titoli e dagli articoli, dai commenti e dalle interviste. È la maledizione del circo mediatico-giudiziario che ogni volta miete vittime innocenti. Già, ma di quel circo si finisce col vedere solo il lato più appariscente – quello mediatico, appunto – mentre il lato giudiziario della faccenda finisce in secondo piano. La vicenda del Santobono fa venire però qualche dubbio anche da quel lato. E siccome non vi sono coinvolti politici di primo piano si può forse provare questa volta a ragionarne con maggiore tranquillità.

Ci sono almeno due o tre cose sulle quali sarebbe necessaria gettare da parte dell’opinione pubblica una luce più netta. Perché l’inchiesta del Santobono portata avanti dal pm John Henry Woodcok sembra avere caratteristiche che tornano con troppa frequenza in vicende analoghe. La prima: le intercettazioni sono sicuramente uno strumento di indagine indispensabile. Piercamillo Davigo lo ripete fino alla nausea: se non lo fate intercettare, come volete che il povero pubblico ministero possa scoprire il patto corruttivo? Non è come col furto o con l’assassinio: nel caso della corruzione le parti sono d’accordo nella commissione del reato, ed è quindi più difficile scoperchiare il malaffare. Il che è vero, ma non può voler dire che tutta l’attività investigativa si risolve nell’assemblaggio di brani di intercettazione, fatte magari a strascico perché qualcosa comunque finirà impigliata nella rete. Intercettare non è provare: sarebbe bene metterselo in testa. Eppure, nella discussione della riforma giunta al voto finale del Parlamento, nessuno ha osato mettere in discussione la sacralità dell’intercettazione, proponendone una più rigorosa delimitazione come mezzo di prova. Continua a valere l’argomento classicamente inquisitorio: non vuoi essere intercettato? Si vede che hai qualcosa da nascondere. Male non fare, paura non avere! E invece intercettare può far male, molto male, a chi è coinvolto ingiustamente, e spesso nuoce pure alla qualità dell’indagine, divenendo l’alfa e l’omega di tutta l’attività investigativa.

Il Santobono è solo l’ultimo esempio: quando l’inchiesta ha così fragili basi, finisce troppe volte con l’essere ridimensionata, anzi smantellata dalle decisioni del giudice. Le prove: queste sconosciute! Ma siccome il primo tempo se lo aggiudica comunque l’accusa, al momento in cui l’indagine deflagra sui giornali, viene il dubbio che non la sentenza, ma la condanna pronunciata dall’opinione pubblica sulle sole basi delle carte accusatorie sia il vero fine dell’inchiesta.

Seconda caratteristica: queste inchieste partono con ipotesi di reato in cui, immancabilmente c’entra la camorra. Non è terra di camorra, questa? Interrogativo retorico. Poi però, in corso d’opera, quelle inchieste divengono indagini sulla corruzione nella pubblica amministrazione. Benemeriti indagini, sia chiaro: nessuno è contento della corruzione fra i letti d’ospedale. Ma vorrà dire qualcosa se questo schema si ripete in maniera sistematica: non sarà una di quelle manovre che servono per accapararsi inchieste che, di nuovo, hanno maggiore impatto sulla stampa di quanto possa esserlo cercare la mafia o la camorra inseguendo la pista della droga? Il dubbio è lecito, e investe un nodo, relativo al funzionamento degli uffici giudiziari e all’autonomia e indipendenza di cui godono i singoli pm (o che i singoli pm si prendono), che vale la pena affrontare, anche se esistono già, su di esso, montagne di discussioni. Ma è un punto rilevante, che riguarda tutti i cittadini raggiunti dall’azione giudiziaria, non solo gli «interna corporis» di una Procura.

Infine. Già lo scorso anno «il Mattino» notava che tirar dentro il livello manageriale dell’ospedale e della sanità campana – a prescindere, senza troppo curarsi di come sarebbe potuta andare a finire in aula (benché a questo giornale fosse chiaro già un anno fa) – serviva a dare risalto mediatico all’inchiesta. Il guaio è che produce anche un altro effetto, di depauperamento di risorse, competenze e qualità professionali a disposizione della pubblica amministrazione. Se un’intercettazione equivale a una condanna e il tuo nome viene associato a quello di un clan, la voglia di assumere certe responsabilità finisce che ti passa. Chi è impegnato a denunciare e perseguire le contiguità fra mondo legale di sopra e mondo criminale di sotto non ci bada troppo; chi ha il governo della cosa pubblica e deve provare a costruire il profilo di una nuova dirigenza pubblica – specie nel settore così disastrato della sanità campana – è invece costretto a pensarci, per trovare qualche soluzione.  E non è facile.

(Il Mattino, 14 giugno 2014)

Il caso Consip, la Polizia e i cavalieri senza macchia

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Con il titolo: «Io servo lo Stato, non il governo», «Repubblica» ha pubblicato ieri, nelle pagine interne, un’intervista al Capo della Polizia Franco Gabrielli che avrebbe meritato la prima pagina. Gliela diamo noi oggi. Non potendo citarla per esteso, ci limitiamo a riproporne un brano su cui vale la pena soffermarsi, il seguente: «il livello di disonestà intellettuale utilizzato nella vicenda Consip per sostenere che in questo Paese esistono pochi cavalieri bianchi le cui mani vengono legate da vertici di Polizia corrivi con la Politica e le sue convenienze, servi di un progetto eversivo che avrebbe dovuto cambiare prima la Costituzione e poi mettere in un angolo la magistratura, è pari solo allo sconforto che provo pensando al pregiudizio da cui questa falsità muove».

Si tratta della vicenda Consip. Che però viene collocata dal Capo della Polizia in un contesto molto più grande, in cui si muoverebbe chi trama per fermare un progetto politico che con la connivenza dei vertici di Polizia avrebbe puntato a cambiare in senso eversivo la Costituzione e a colpire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (che tuttavia, giova ricordarlo, non era minimamente toccata dalla riforma costituzionale sottoposta a referendum).

Gabrielli non dice se pensa a settori dell’opinione pubblica o a corpi dello Stato. Ma proprio tra le pagine di «Repubblica» (e degli altri quotidiani che ne han riportato la notizia, come «Il Mattino») si trova un brano della possibile risposta. Nuove rivelazioni hanno infatti riguardato ieri la figura del capitano Scafarto, responsabile di manipolazioni nella trascrizione delle intercettazioni che puntavano a inguaiare il padre del Presidente del Consiglio, Tiziano Renzi. Finora stava ancora in piedi, almeno a livello teorico, l’ipotesi che le falsificazioni fossero dovuto a errori materiali, a fretta o a negligenza. Trattandosi di un’indagine che lambiva le massime cariche dello Stato, era già da chiedersi come il Noe, il nucleo investigativo del capitano Scafarto, potesse continuare a godere di così piena fiducia da parte della Procura napoletana e dei pm che conducevano l’inchiesta. Ma ieri si è saputo che la Procura di Roma, che indaga sull’operato del prode capitano, gli ha contestato messaggi da cui trasparirebbe in maniera evidente, per non dire letterale, il carattere intenzionale della manipolazione, orchestrata per mandare in galera Tiziano Renzi. Questo Scafarto chiede infatti ai colleghi di reparto di verificare da chi fosse stata pronunciata la famosa frase sull’incontro con Tiziano. E avuta conferma che a pronunciarla era stato non Romeo, ma Bocchino, Scafarto avrebbe chiesto di poter avere lui stesso le trascrizioni, per poi modificarne il senso in modo da ricondurre la frase all’imprenditore ora in carcere. Se confermato, non vi sarebbe altro modo per descrivere un simile comportamento se non: fabbricare prove false a carico di un familiare del premier, per distruggerne la figura politica. Domanda: è di questa pasta che è fatto il partito dei cavalieri bianchi che combattono a difesa della legalità? Se è così, è in gioco molto di più di una semplice disonestà intellettuale.

Ovunque vadano a parare indagini che sono ancora in corso, siamo di fronte a scenari che definire inquietanti equivale a minimizzare. Difficile trovare episodi di uguale gravità nel passato recente. Il fatto che Gabrielli debba concedere una lunga intervista, nel corso della quale lascia intravedere quali possano essere le motivazioni dei bianchi cavalieri per costruire simili macchinazioni (fermare Renzi, colpire chi vuole mettere la mordacchia alla magistratura), non può non destare il più vivo allarme. Tanto più che Gabrielli è costretto a scendere in campo non certo per difendere il potere politico, ma solo per difendere il suo onore e quello della polizia.

In discussione è infatti la norma, introdotta lo scorso anno, che prevede l’obbligo per la polizia giudiziaria di trasmettere lungo la scala gerarchica le notizie sulle informative di reato. In parole povere, a seguire gli sviluppi delle indagini non è solo la magistratura ma anche la polizia. Questa norma è avversata dal CSM, che la vorrebbe modificare perché vi ravvisa – spiega Gabrielli – «un tentativo fraudolento di sterilizzare l’azione della magistratura. Una grave interferenza nel segreto delle sue indagini. Come se il sottoscritto e i vertici delle forze dell’ordine non avessero giurato fedeltà alla Costituzione, ma alla maggioranza di governo del momento». Di nuovo: sono parole che per la loro gravità meriterebbero la prima pagina. Ma Gabrielli ha ragione da vendere. E non ha solo le ragioni di un servitore dello Stato, la cui lealtà non può essere messa in dubbio, e quelle del buon senso, dal momento che, oltre ad essere offensivo, è pure sciocco credere che il capo della Polizia non abbia comunque, da prefetti e questori, le notizie che gli consentono il pieno esercizio delle sue responsabilità, ma ha anche le ragioni che il caso Consip mette purtroppo sotto i nostri occhi: nuclei investigativi che finiscono alle dirette dipendenze del pm di fiducia, che stringono con lui un rapporto diretto e personale all’ombra del quale possono, a quanto pare, depistare indagini o costruire prove false.

Sia chiaro, il Csm non difende nessuna delle alterazioni compiute nel corso delle indagini napoletane su Tiziano Renzi. Difende però un potere, quello del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari, di disporre direttamente e pienamente della polizia giudiziaria senza interferenze e senza, soprattutto, che intervengano altri profili di responsabilità, in una relazione che vicende come il caso Consip mostrano però quanto intimo, anzi arbitrario e incestuoso, possa diventare quel rapporto, e quanto sostegno possa dare al protagonismo di certa magistratura requirente. Che, in un sistema che non prevede la separazione delle carriere, gode della stessa autonomia di statuto del giudice, ma finisce con l’avere in più, nella fase preliminare in cui incomparabilmente maggiore è la sua libera discrezionalità nel portare avanti le indagini, una guardia scelta di pretoriani nella propria stretta disponibilità.

Così succede che mentre l’attuale ordinamento viene difeso con l’argomento dell’unitarietà della cultura della giurisdizione, che pm e giudici devono condividere (ma a proposito: che fine fa, in questa bella condivisione, l’avvocato? Che parte rimane alla difesa?), nel Paese e presso l’opinione pubblica finisce col prevalere un’unica, monolitica cultura: quella dell’accusa, al punto che perfino Franco Gabrielli, il capo della Polizia, si vede costretto a doversi difendere sdegnato sulle pagine di un giornale.

Perché le intercettazioni non fanno la civiltà

Acquisizione a schermo intero 26072015 120423.bmpIn principio era il Verbo, e siccome era in principio il Verbo non fu intercettato. Oppure lo fu?  Oppure lo Spirito è la terza persona che carpisce le comunicazioni fra il Padre e il Figlio?

Forse il prologo in cielo ci allontana di molto dai problemi che abbiamo in terra, ma la materia delle intercettazioni si sta ormai complicando proprio come, un tempo, avveniva nelle più sottili disquisizioni teologiche. E nel Parlamento italiano le «quaestiones disputate» aumentano. Perché non basta certo dire che l’uno è contrario alle intercettazioni, e l’altro favorevole, che quello vuole i giornalisti in carcere, e quell’altro vuole invece i politici alla gogna (mediatica). Come sempre quando la materia è complessa, non è facile tracciare con nettezza linee di demarcazione. Giusto un grillino può pensare che qualunque intervento normativo in materia è censura, inganno, frode e raggiro. Lo pensa, il grillino, non perché abbia la sapienza giuridica per apprezzare l’attuale normativa, ma perché vede come vanno le cose oggi e ci sguazza: sui giornali finisce infatti ogni frase, mezza frase o sputo di frase che sia stato intercettato,  indipendentemente da qualunque rilevanza, pertinenza o continenza.

Ma che sono poi queste parole: solo termini da Azzeccagarbugli? In verità dovrebbero essere qualcosa di più. Dovrebbe cioè fare qualche differenza se il contenuto dell’intercettazione abbia una qualche rilevanza penale oppure no; se, pur non avendo rilevanza penale, abbia almeno pertinenza con la materia oggetto di indagine; se infine, nel pubblicarla ci si è contenuti all’essenziale, o ci si è posti perlomeno un problema – come dire? – di stile. E invece, di fatto, tutte queste distinzioni saltano, e nell’oceano di parole in cui pesca la rete delle intercettazioni viene a galla di tutto, la notizia di reato e la pura maldicenza, fatti di interesse pubblico e circostanze strettamente private: il serio e il faceto, il nobile e l’ignobile, l’educato e lo sguaiato.

Ma il cittadino deve sapere. È così: dai tempi in cui fu inventata, or non è molto, l’opinione pubblica. Solo che ormai è implicita la clausola libera-tutti: sapere ad ogni costo. Con ogni mezzo. Con ogni possibile intercettazione. E in effetti: volete che, faccio per dire, il cittadino condomino A non godrebbe come una salamandra se potesse sapere tutto del cittadino condomino B? Ma è questo un buon motivo per autorizzare ogni genere di captazione di pensieri parole e opere di B (attraverso, che so, l’intercettazione di C), e magari farci su una bella assemblea condominiale, o almeno l’affissione di un avviso nell’androne?

Ma, si dice, c’è una bella differenza fra le vicende di un condominio e fatti e circostanze di interesse pubblico. E certo che la differenza c’è: il punto però è proprio questo, che nessuno sembra apprezzarle, e che tutto allo stesso titolo (cioè: a qualunque titolo) finisce sui giornali.

E come ci finisce? Così: il giudice delle indagini preliminari, il quale ha autorizzato l’attività di intercettazione, dovrebbe poi disporre lo stralcio di quelle irrilevanti. E invece non stralcia un bel nulla: non solo perché il gossip vuole la sua parte, ma perché il magistrato vuole un po’ di pubblicità, e così tutto il materiale raccolto – pescato, come si dice, a strascico – diviene ipso facto pubblico e pubblicabile. Si può chiedere poi al giornalista di fare penitenza e astenersi, se il giudice non si è astenuto? Ovviamente no, e dunque il processo è già bello che cominciato sui giornali, a volte addirittura concluso, ancor prima di cominciare in tribunale.

Noi sappiamo così cosa pensa ad esempio Matteo Renzi di Enrico Letta: che è un incapace. Non è un giudizio politico: è una confidenza più o meno riservata, scherzosa, sbrigativa o sbruffona – vallo a sapere: quando trascrivete, non riuscite mica a trascrivere il tono con cui la cosa viene detta – confidenza che il segretario del Pd fa al generale della guardia di finanza Adinolfi. Rilevanza, pertinenza, continenza? Zero. Però Renzi si trova intercettato perché Adinolfi è intercettato, e lo è in vicende che evidentemente non riguardano la formazione del governo, o i rapporti interni al Pd, o i quozienti intellettivi dei politici italiani. Ma è chiaro che se le intercettazioni devono servire a delineare la personalità dell’intercettato, se valgono cioè criteri tanto laschi, non c’è motivo di stralciare neanche le considerazioni sulla scelta di un gelato al pistacchio, figuriamoci una cattiveria di Renzi (per quanto privata, informale, amichevole) ai danni del suo predecessore.

In tutta questa storia c’entrano assai poco, naturalmente, le intercettazioni come strumento investigativo. C’entra invece la costruzione di una sfera pubblica retta da regole di civiltà giuridica, che tutelino i diritti fondamentali: alla riservatezza delle comunicazioni, al rispetto della vita privata e familiare, al rispetto del domicilio privato, al rispetto dei dati di carattere personale.

Questa tutela è messa a rischio anche da un altro genere di attività: la registrazione nascosta, audio o video, con la quale si carpiscono informazioni, o anche solo mere opinioni. C’è capitato, per esempio, Valerio Onida, giudice della Corte Costituzionale. Una finta Margherita Hack gli ha strappato al telefono giudizi sul lavoro dei saggi, nominati nel 2013 da Napolitano, che sono stati ovviamente subito diffusi (da Giuseppe Cruciani, nel programma «La zanzara»). Che genere di giornalismo è questo? Difficile stabilirlo: cosa pensasse Onida dei saggi era o no una notizia? Per molti basta questo, indipendentemente dal modo in cui sia stata ottenuta (o provocata). Sia chiaro: l’inside journalism – il reperimento di notizie condotto sotto mentite spoglie – appartiene alla migliore tradizione della professione. Però dovrebbe sempre valere la possibilità di indicare dei limiti, per quanto ampi siano: se punto una pistola alla tempia di Onida, magari mi dice pure dell’altro, o no? È evidente però che non si può fare. Domando allora: c’è un punto oltre il quale l’inganno diviene una violenza? Non ogni registrazione nascosta, d’altra parte, è uguale: un conto è registrare per sapere, un altro per difendersi, un altro ancora per denunciare, un ultimo caso è registrare per provocare: non per scoprire un reato, ma per indurlo a commetterlo (e poi incastrare il malcapitato). Possibile che stiano tutti sullo stesso piano?

La legge che è in discussione in Parlamento, e che è chiamata a disciplinare simili aspetti, ha sicuramente un difetto: è una legge. Deve cioè essere scritta in modo da graduare, proporzionare, bilanciare, e infine consentire o non consentire. Queste distinzioni, però, se siete del partito che «il cittadino deve sapere!» (a qualunque costo, con qualunque mezzo, con qualunque intercettazione), vi riusciranno incomprensibili o ipocrite: sottigliezze teologiche, buone per imbrogliare i gonzi. E così siamo daccapo. Ma perdonatemi: non ci vuole lo spirito santo per sapere che, se la pensate così, i gonzi, purtroppo, siete voi.

(Il Mattino, 26 luglio 2015)

La pesca a strascico del pesce rancido

imagesA sorpresa, tra le carte dell’inchiesta sulla Cpl Concordia, che mesi dopo avrebbe portato all’arresto del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, spunta una telefonata fra Matteo Renzi e il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi. Che spunti a sorpresa lo dice lo stesso giornale che la pubblica, il Fatto quotidiano. A sorpresa, nel senso che non si capisce cosa c’entri con quell’inchiesta il giudizio che Matteo Renzi rende sull’allora premier Enrico Letta. Non si capisce perché c’è, in realtà, molto poco da capire: infatti l’una cosa non ha assolutamente nulla a che vedere con l’altra. Però la sorpresa non finisce qui: non è sorprendente solamente che in quelle carte finiscano simili conversazioni; è sorprendente pure il fatto stesso che spuntino fuori. L’unica cosa che non si può dire davvero sorprendente è proprio il giudizio di Renzi: che non ama Letta (ricambiato) e lo considera un incapace. In breve, pensa già alla sua sostituzione. Siamo nel gennaio 2014, e di lì a poco il sindaco di Firenze prenderà effettivamente il posto del premier, ma, intercettazioni o no, le modalità piuttosto brusche in cui il passaggio di consegne avviene non lasciano dubbio ad alcuno: fra i due non corre buon sangue. Sicché le parole di Renzi al generale Adinolfi tutto sono meno che sorprendenti. Ci piace leggerle, tuttavia, per quella gioia maligna di cui spesso si alimenta la nostra maniera di seguire, da spettatori, lo spettacolo dei potenti, ma di fatto non dicono nulla che l’opinione pubblica non sapesse già. Non ci si può invece non stupire di quel che capita nel nostro paese: che intercettazioni non solo prive di qualunque rilievo penale, ma prive anche di qualunque attinenza coi fatti e le circostanze oggetto di indagine, finiscano prima nei faldoni dell’inchiesta, poi sulle prime pagine dei giornali. Succede insomma che se io indago su Tizio (in questo caso Tizio è il generale Adinolfi) posso tirare dentro chiunque abbia a che fare con Tizio, a prescindere non solo dalla rilevanza per l’indagine, a prescindere anche dal non avere l’indagine seguito alcuno, a prescindere dalla pertinenza fra i fatti oggetto d’indagine e tutto ciò che nel frattempo emerge, a prescindere da qualunque rispetto della privacy, della riservatezza o della sfera della libertà personale. A prescindere da tutto.

In questa circostanza, che ha del clamoroso, accade che la Cassazione ordini di trasferire  l’inchiesta da Napoli (dove era stata condotta dai magistrati Borrelli e Woodcock) a Modena (dove ha sede la Concordia), e che conversazioni, peraltro intercettate nell’ambito di un altro procedimento su Adinolfi (nel frattempo prosciolto da ogni accusa), vengano – oplà! – allegate agli atti trasmessi a Modena, e per questa via rese così di dominio pubblico. Si chiama strascico, perché, proprio come nella pesca a strascico, in questo modo si può tirar dentro la propria rete qualunque cosa, specie marine protette e specie non protette. Solo che la pesca a strascico è vietata; le intercettazioni a strascico invece no, e anzi sono tanto più praticate quanto più è pregiato il pesce che si vuole acchiappare.

In quelle carte c’è così finita pure un’altra conversazione, che tira in ballo Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, all’epoca dei fatti Presidente della Repubblica. A Roma comanda lui, si dicono in sostanza gli interlocutori, che pensano quindi di agire sul padre attraverso il figlio. Di nuovo: rilevanza penale? Nessuna. Pertinenza? Nessuna. Legame con inchieste in corso? Nessuno. Si tratta solo di strascico a tutto andare, col quale si buttano fuori opinioni espresse nel corso di una chiacchierata privata, non diversamente da come può capitare a chiunque di parlar male o bene di un amico, di un collega che non si sopporta, di un altro che ha fatto carriera e di un altro ancora che va a letto con tutta la città. Di opinioni così, infarcite di luoghi comuni, dicerie, confidenze, non importa se fondate o meno, sono piene le nostre conversazioni, in cui per fortuna non dobbiamo morderci la lingua. Finché almeno qualcuno non ci intercetti.

Ma c’è tuttavia in quelle carte qualcosa che l’opinione pubblica debba sapere, e che faccia notizia? Non c’è materia giudiziaria, questo è assodato; c’è almeno materia giornalistica? Chi ha pubblicato lo scambio di opinioni pensa di sì, perché evidentemente ritiene non faccia differenza se e come quelle opinioni siano espresse. Basta che i pesci siano grossi. Così, carpite o meno, dette di volata o pensate seriamente, cambia poco. E invece cambia tanto, anzi cambia tutto, perché la maggior parte delle cose che diciamo in privato non saremmo disposti a sostenerle in pubblico, se ne dovessimo difendere per davvero la veridicità.

Ma perché questa elementare distinzione fra il dire tanto per dire e il sostenere quel che si dice, e cioè l’impegno con la verità, che sta all’origine della civiltà occidentale, è venuta completamente meno, e sui giornali anche la voce più incontrollata viene riportata e fa notizia indipendentemente non solo dal suo valore di verità, ma anche dall’essere stata proferita o meno in spirito di verità? Perché ad esempio dobbiamo perdere la libertà e il diritto di dire oggi tutto il contrario di quel che pensavamo ieri: almeno al bar, almeno tra amici, almeno quando stiamo per i cavoli nostri? Non è barbarie, questa: condurre il dibattito pubblico sulla scorta di atti di indagine sottratti al loro corso, dove non hanno potuto avere alcun seguito, ma utilizzabili ancora nello spazio mediatico per menare fendenti contro l’uno o l’altro? Qualcuno ha detto che la libertà di opinione è la libertà di mentire, più fondamentale, in una democrazia liberale, persino dell’ottavo comandamento. Ma se quella libertà viene conculcata sotto l’impero delle intercettazioni, è lecito o no, di grazia, chiedersi chi comanda davvero, e con quale legittimità?

(Il Mattino, 11 luglio 2015)

Intercettare, ma capire anche

Le intercettazioni sono un bel problema. Oggi Michela Murgia, scrittrice, vincitore del Premio Campiello, scrive l’editoriale di apertura su Il Fatto quotidiano, e prende in prestito l’esordio da una frase (intercettata) di Luigi Bisignani che – dice la scrittrice – “ha in sé una sua perfezione senza tempo”. Ecco la frase perfetta: “Fai l’accordo mangiando tutto quello che devi mangiare“. Si tratta del consiglio che Scaroni, l’amministratore delegato dell’ENI, dovrebbe dare a Silvio Berlusconi.  Orbene, Michela Murgia intende la frase come se dicesse: arraffa tutto quello che puoi arraffare, divora tutto quello che puoi divorare, prendi, sfrutta, saccheggia, rapina. Il titolo del fondo è d’altra parte “Italia divorata”: più chiaro di così. E naturalmente una frase del genere si presta bene, per l’orecchio letterariamente allenato dell’autrice, a trasformarsi in una “didascalia permanente di quel che sta succedendo in Italia da anni”.
Come no. Non discuto il giudizio sull’Italia berlusconiana, e non mi interessa difendere le politiche o i maneggi del centrodestra. Figuriamoci.  Ma io, che avevo già letto qualche giorno fa la frase senza tempo, l’avevo intesa in tutt’altra maniera. Avevo inteso cioè che non si parlasse di locuste fameliche o di topi nel formaggio, ma di condizioni per un accordo politico con Fini. Mi pareva cioè che Bisignani dicesse a Scaroni (siamo prima della definitiva rottura col Presidente della Camera): suggerisci al Cavaliere di “mandar giù tutto quello che c’è da mandar giù”, di mangiare pure la merda (mi si perdoni il francesismo) pur di fare l’accordo. E cioè: digli di sopportare, di portare pazienza, di fare buon viso a cattivo gioco, perché è più importante rimettere in carreggiata governo e maggioranza, che non liquidare l’alleato. O altrimenti – suggerisce in subordine Bisignani –  rompa pure tutti i ponti, ma usciamo dalla paralisi.
Naturalmente, può ben darsi che io mi sbagli, sebbene il contesto in cui cade la frase immortale pare proprio che suggerisca questa mia  lettura – senza dire che è decisamente poco plausibile, pur in un clima da basso impero, immaginare che il faccendiere esorti l’amministratore a spronare il presidente del consiglio perché prenda tutto quello che può, finché è in tempo. Ci vuole un bel po’ di immaginazione letteraria per figurarsi una conversazione del genere. Ma – ripeto – può darsi che mi sbagli.
Il solo fatto, però, che la frase perfetta si presti a interpretazioni così diverse, e come minimo parimenti fondate, qualche riflessione dovrebbe pur suggerirla: e siccome – ci scommetto – quelli de il Fatto giudicherebbero pretestuosa qualunque considerazione che, a partire da questo piccolo incidente, cominciasse a mettere in dubbio opportunità, utilità e sacertà della pubblicazione delle intercettazioni sui giornali, chiedo piuttosto a Michela Murgia, confidando nel suo amore per la lingua, se non le andrebbe di scrivere un altro editoriale sul senso delle parole, sul loro buon uso, e soprattutto sulla precipitazione a causa della quale, per amore di tesi, si finisce col non ascoltare quanto le parole stesse dicono, preferendo piuttosto piegarle a quello che gli si vuole far dire.
P.S. Visto che siamo in ambito letterario, la morta cora di cui si parla nella trascrizione è la morta gora di dantesca memoria (Inferno, canto VIII).

Curiositas et acedia

Bisognava titolarlo come sopra. In mancanza, Voyeurismo e rispetto:

Io qualche idea ce l’avrei. Intercettare per esempio quel che possono dirsi al telefono due giovanotti dopo una serata di calcetto: battute salaci, commenti grevi, giudizi gratuiti su Tizio o Caio. Poi passerei a intercettare i condomini al termine di una riunione condominiale: reati di ingiuria e calunnia a go go. Gli amici dopo la palestra, le signore dopo la messa in piega dal parrucchiere (o viceversa: gli amici dal parrucchiere e le signore in palestra, fa lo stesso), le coppie dopo una serata al circolo sociale, i suoceri dopo un pranzo domenicale: tutto dovrebbe essere intercettato, per squarciare la tela ipocrita dell’educazione e delle buone maniere, e mostrare il fondo sordido della natura umana. Il contrario di Dorian Gray: nessuna identità nascosta in soffitta, e tutte le turpitudini in piazza. Quindi, per il principio per cui tutto ciò che riguarda un uomo pubblico deve essere universalmente noto, terrei sotto costante intercettazione, vita natural durante, tutti gli uomini politici presenti in Parlamento, in modo che un flusso costante di pettegolezzi, malevolenze, dicerie, millanterie, alimenti ininterrottamente l’opinione pubblica, affinché la democrazia, che ha in odio il segreto, elevi finalmente invidia e risentimento a fondamentali virtù civiche.
È la curiositas, diceva Tommaso d’Aquino, che la considerava una malattia grave. La malattia dell’evagatio mentis: quando la testa è vuota e svagata, e non sapendo riempirsi da sé va in cerca di qualunque cosa possa riempirla, senza troppa spremitura di meningi. Se la testa si riempie di parole che stuzzicano l’orecchio, si chiama verbositas; se si riempie di immagini che stuzzicano la prurigine dell’occhio, si chiama appunto curiositas. L’una e l’altra forma sono figlie dell’acedia, cioè dell’accidia, uno dei più imperdonabili peccati spirituali, secondo gli antichi Padri della Chiesa. In età moderna, nella forma nobile della sete di sapere, la curiositas è stata ampiamente riabilitata, anche se una sempre più flebile traccia dell’educazione secondo i costumi dei Padri rimane tuttora, ogni volta che un genitore dice seccato al proprio figliolo qualcosa tipo: “cosa vuoi sapere tu, che sei ancora piccolo?”. Siccome però in democrazia nessun cittadino (per fortuna) vuole essere trattato come un minore, ma vuole sapere “di tutto e di più” (non è forse questo l’imperativo del nostro tempo, oltre che la pubblicità dell’abbonamento Rai?), allora è tutto uno svelare gli amori delle star, le ignominie dei ricchi, e i segreti inconfessabili dei potenti.
E sta bene. Anzi sta male. Molto male. E non perché l’umana gente, cioè l’opinione pubblica, debba starsene contenta al quia, come dice l’immortale verso del Poeta, quasi che le faccende private dei politici debbano ricevere la stessa protezione dei più alti misteri teologici. Ma perché non è conoscendo le predilezioni per giovani e speranzose attrici del Presidente del Consiglio che il paese migliorerà; non è neppure scoprendo l’acqua calda, che cioè i dirigenti Rai ricevono ogni genere di segnalazioni (addirittura!), o calpestando reputazioni e generalizzando il sospetto su ogni pubblico personaggio, e concorso, e istituzione (come se poi il privato fosse immune dalle umane miserie), che la qualità della vita democratica avrà beneficio. Perderà anzi una serie di garanzie fondamentali a tutela dei diritti dei cittadini e a protezione delle loro stesse vite, come comprende chiunque abbia qualche familiarità con quella cosa che tutti invocano e che si chiama liberalismo: che resta infatti della reputazione di una persona, quando finisce sui giornali per essere stata bollata, nella comunicazione sbrigativa di una telefonata, come pazza o esaurita?
Ma c’è ancora qualcos’altro, che anche i più fervidi sostenitori delle virtù democratiche dello sbugiardamento pubblico dovrebbero considerare. Quello che, per l’appunto, insegnava Tommaso, con la storia della curiosità figlia della triste accidia. Basta osservare l’intero ritratto di famiglia, e ricordare i nomi delle altre figliole sue sorelle: la malizia, il rancore, la pusillanimità, la disperazione, il torpore spirituale. Tutto quello che insomma senza troppo cultura teologica chiameremmo pigrizia, e in cui, con un minimo di consapevolezza critica in più, riconosciamo la più umiliante frustrazione del desiderio politico. Il quale deve contentarsi di origliare le parole degli altri e di spiarli, fregandosi le mani, dal buco della serratura, non avendo più la forza di un’autentica passione civile.