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Terrore e modernità: le radici dell’Isis spiegate agli occidentali

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Disponiamo di tre paradigmi principali di interpretazione del terrorismo jihadista: il primo può esser fatto risalire alla teorizzazione dello scontro di civiltà del politologo americano Samuel Huntington; il secondo si situa nell’eredità del marxismo, e mette sotto accusa le gravi diseguaglianze economiche e sociali fra le diverse aree del pianeta; il terzo chiama in causa la religione, e più in particolare una certa visione, fortemente eretica, dell’islam. Nessuna di queste interpretazioni è sufficiente: le civiltà non sono blocchi monolitici, la povertà non basta da sola ad armare il terrorista; la religione non è vero affatto che significhi violenza, ogni qual volta voglia darsi una presenza e una rilevanza nella vita pubblica. Queste importanti correzioni si trovano, con dovizia di argomenti, nell’ultimo libro di Donatella Di Cesare, «Terrore e modernità» (Einaudi, € 12), e consentono, tra le altre cose: di opporre forte resistenza alla lettura neo-conservatrice della guerra fra l’Occidente e l’Islam; di spiegare certi sbandamenti della sinistra internazionale, indecisa se riconoscere nell’islamismo radicale un avversario o un alleato nella lotta contro il capitale; di limitare infine le pretese del laicismo di ergersi a unico, comune denominatore dei regimi democratici, col risultato di acuire, invece di risolvere, lo scontro fra cultura religiosa e cultura laica.

Ma il libro è utile anche per altre due ragioni. Perché, in primo luogo, mostra, in una prospettiva storica, il disegno politico entro il quale vanno collocati gli attacchi terroristici recenti, muovendo anzitutto dalle radici teoriche, rintracciabili nel pensiero di Sayyd Qutb (di cui tanto Osama bin Laden quanto il leader dell’autoproclamato Stato islamico, il califfo al-Baghdadi, si sono riconosciuti discepoli), e cioè nel «progetto di una teocrazia assoluta, realizzato nella umma, e affidato a una “avanguardia” rivoluzionaria che, grazie al jihad, deve fare tabula rasa di tutte le ideologie e di tutte le istituzioni precedenti». Ed è utile perché, in secondo luogo, fornisce il contesto più ampio entro il quale provare a comprendere (che non vuol dire giustificare) il fenomeno. Il contesto è descritto da tre parole: globalizzazione, modernità, sovranità. Ciascuna di queste parole designa un tratto tipico della civiltà occidentale, del quale difficilmente potremmo fare a meno: non riusciamo infatti a pensare una forma politica che deponga la categoria della sovranità; non riusciamo a pensare una civiltà che non si autocomprenda come moderna, laica e illuministica; non riusciamo a pensare le sfere dell’economia, della tecnica e della comunicazione se non in termini globali, come fenomeni illimitatamente espansivi. La tesi del libro, però, è che il terrorismo appartiene costitutivamente a questo spazio, ed è dunque illusorio ritenere che più modernità, più globalizzazione, più sovranità bastino a cancellarlo. C’è anzi il rischio che l’«insonnia poliziesca» – così la chiama la Di Cesare con un’immagine felice, presa in prestito dalla filosofia di Emmanuel Lévinas – riduca gli spazi della democrazia. La conclusione del saggio resta così aperta, com’è aperta la storia del mondo, nonostante l’utopia neoliberale della “fine della storia”: da un lato la guerra al terrore sta infatti erodendo le istituzioni democratiche; dall’altro, però, la democrazia mostra di possedere, a differenza dei regimi autocratici, «una sua insita elasticità, che potrebbe dar prova di un’inattesa resistenza nella lunga durata».

(Il Mattino, 6 giugno 2017)

Il conflitto utile e il male minore

poli184«La Francia è in guerra. Gli atti compiuti venerdì sera a Parigi e nei pressi dello Stadio di Francia sono atti di guerra. Sono commessi da un’armata jihadista che ci combatte perché la Francia è un paese di libertà, perché la Francia è la patria dei diritti dell’uomo». Così ha parlato François Hollande ieri, dinanzi al Parlamento francese, chiedendo anche una revisione costituzionale (sui poteri del Presidente e lo stato d’assedio) che ha anzitutto un significato politico: poiché la revisione costituzionale richiede il voto dei tre quinti dell’Assemblea, su di essa deve convergere anche il centro-destra.

Ma la guerra, sul fronte esterno, è un’altra cosa. Un conto è essere in guerra, un altro è farla. Per fare la guerra, non basta l’intensificazione dei bombardamenti che avviene in queste ore, o l’approssimarsi della portaerei Charles de Gaulle alle coste del Mediterraneo orientale, ci vuole un intervento militare a terra, che spazzi via l’autoproclamatosi Stato Islamico e mandi all’inferno il Califfo Al Baghdadi.

La domanda è se sia chiara la visione che sostiene questa strategia. Chi la respinge per motivi etici e umanitari oggi non è ascoltato, ma in realtà non è mai stato ascoltato perché mai il corso della politica e quello della guerra si sono separati nella storia umana. Se accettiamo di misurarci sul terreno della politica, non possiamo quindi limitarci a chiedere se sia morale questa guerra, ma dobbiamo domandarci se sia utile.

Sul versante interno, la Francia di Hollande sembra voler prendere la strada che fu già seguita dall’America col Patrioct Act dopo l’11 settembre: la strada delle misure eccezionali. Maggiore sicurezza significa maggiori poteri ai corpi di polizia, maggiori ingerenze degli apparati dei servizi segreti. Maggiori poteri significano quindi minori diritti, minori libertà, minore privacy. Fin dove ci si può spingere? Soprattutto: fin dove serve spingersi? Vogliamo davvero che le nostre libertà scivolino via, in nome dell’emergenza? Siamo sicuri che non basti una severa, ferma applicazione delle regole del diritto – l’unico terreno sul quale, tra l’altro, esiste una dimensione europea davvero comune, costruita intorno alla Corte di giustizia e alla Corte europea dei diritti dell’uomo – e occorra invece una loro sospensione, o una loro compressione? E se questa sospensione o questa compressione vogliamo che riguardi non noi, ma solo quella fetta di popolazione di cui sospettiamo (perché musulmana, perché immigrata, o magari semplicemente perché povera), siamo sicuri che così non ne alimenteremo il risentimento di tutti costoro, finendo in questo modo con l’ingrossare le file del nemico? Si può anche non esitare dinanzi a questo interrogativo: importante è sapere che occorre affrontarlo. E naturalmente essere poi conseguenti, in un senso o nell’altro.

Sul versante esterno, certo non possiamo cavarcela dicendo che la guerra è un affare dei francesi, perché così non è. Hollande si è rivolto ai partner europei, e ha fatto bene. Non è solo poco dignitoso augurarsi che altri facciano il lavoro sporco per noi: è insensato. Non è insensato invece interrogarsi su chi sia il nemico – e chi gli alleati. Se il maggior nemico è l’ISIS, o IS, di Al Baghdadi, possiamo permetterci di non rivolgere la parola al leader siriano Assad, che l’ISIS ce l’ha di fronte, e di contro? Non è necessario accettare la logica del male minore? E possiamo pretendere di disegnare da soli, senza il concorso delle altre potenze regionali e della Russia, la mappa del vicino Oriente? Perché di questo si tratta e così è sempre stato, da quelle parti: nel bene e nel male, in quelle contrade gli europei prima, gli americani poi hanno voluto o dovuto ridisegnare la geografia, secondo le linee di interesse e le forze presenti sul terreno. Non si può sperare che questa dimensione cruda e realistica dei rapporti di forza scompaia d’incanto, e condurre una guerra solo in nome di un astratto imperativo morale, o di un altrettanto astratto furore bellicista. Non funziona l’uno, non funziona l’altro. Anche in questo caso abbiamo un esempio recente: dalla caduta di Saddam Hussein e del regime baʿthista sono trascorsi poco più di dieci anni. La guerra, allora, fu fatta: coi bombardamenti, i carri armati e tutto quanto. Nello schema di quella guerra, la fine del dittatore, la statua di Saddam nella polvere, la liberazione di un popolo, doveva  preludere all’esportazione della democrazia in tutta l’area mediorientale. Essendo Saddam Hussein il principale mandante del terrorismo mondiale, si pensava che la sua sconfitta avrebbe significato anche la fine, o perlomeno il contenimento, della minaccia terroristica. Non è andata affatto così. A distanza di dieci anni, una nuova potenza statale è sorta, compromettendo l’integrità territoriale siriana e irachena. Adesso sogna di estendere il suo dominio dal Medioriente all’intera fascia mediterranea africana. È inoltre in grado, come dimostrano i fatti di Parigi, di seminare terrore ovunque. Sembra dunque che, ben lungi dall’aver imposto la pax americana nella regione, sia stato scoperchiato un vaso di Pandora, che ora non si sa come richiudere. Con un’altra guerra: sia pure. Ma con chi si intende farla? Chi è disposto a fare cosa? Chi, tra i paesi formalmente nostri alleati dell’area – Turchia da una parte, Arabia saudita dall’altra –  è davvero pronto a farla, o a supportarla? E per avere, dopo la guerra, quale Medioriente? Queste domande non possono essere eluse. La retorica pacifista non arriva a porle, ma quella bellicista le scansa con altrettanta, irresponsabile superficialità.

(Il Mattino, 17 novembre 2015)