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Se la croce e il velo sono vietati al lavoro

Reni

«Una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali»: così ha deciso la Corte di Giustizia Europea, respingendo il ricorso di una donna musulmana che chiedeva di poter indossare il velo sul luogo di lavoro. La Corte ha considerato che vi è discriminazione solo se «l’obbligo apparentemente neutro comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia». Siccome non è questo il caso, perché il divieto riguarda qualsiasi segno, «la politica di neutralità» è legittima e il capo deve rimanere scoperto.

Sembra ragionevole, ma non lo è affatto, e non è difficile spiegare il perché.

Poniamo che i giudici abbiano ragione di considerare discriminatoria solo la regola, quale che essa sia, che va a svantaggio di alcuni – individui o gruppi – e non di tutti. È evidente allora che una regola che proibisse la manifestazione pubblica del pensiero non sarebbe discriminatoria, se appunto valesse per tutti. Eppure, sarebbe una gravissima violazione di un diritto fondamentale. Ora, perché manifestare il proprio pensiero in materia di fedi religiose (o politiche o filosofiche) non dovrebbe essere considerato un diritto parimenti fondamentale? Perché proibire di esprimere il proprio credo non dovrebbe essere considerata una limitazione della libertà individuale, che sul luogo di lavoro può essere ristretta solo se la restrizione è giustificata dal compito che si è chiamati a svolgere?

Ieri la Corte ha deciso anche sul caso di un’altra donna: francese, musulmana, licenziata dall’impresa informatica presso la quale lavorava, a seguito alle rimostranze di un cliente infastidito dall’uso del velo. In questa sentenza, la Corte precisa che il motivo per imporre il divieto non può essere il desiderio del cliente di non essere servito da una donna che indossi lo hijab, e ha pure aggiunto che, per il diritto europeo, la religione di cui si parla, quando si parla di libertà di religione, «comprende sia il forum internum, vale a dire il fatto di avere convinzioni personali, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa».

E allora? Com’è possibile che un’impresa privata possa proibire il velo, cioè la «manifestazione in pubblico della fede religiosa», se essa rientra nella «libertà di religione», sancita nell’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea?

La disputa pro o contro il velo scuote la Francia da anni. In particolare, l’introduzione della legge sui simboli religiosi, promulgata nel 2004, ha riproposto un’interpretazione che potremmo dire aggressiva della laicità dello Stato, che, nella difficoltà di stabilire il confine varcato il quale l’esibizione di un simbolo religioso diviene la prevaricazione della libertà altrui di vivere in uno spazio aconfessionale, ha preteso di risolvere alla radice la questione, senza troppo preoccuparsi di bilanciare la laicità delle istituzioni con le esigenze personali di fede del credente.

L’idea è che dietro il velo – quelli integrali, come niqab e burqa, ma anche quelli meno coprenti, come hijab e chador – vi sia in realtà il rifiuto dell’integrazione e una sfida alla «République». Il divieto riguarda anche altri simboli, come la kippa ebraica, il turbante sikh, o le croci cristiani, quando siano troppo grandi e invadenti, ma è chiaro che la questione esplosiva riguarda la deriva radicale che si nasconderebbe dietro il velo islamico. Questa idea è scritta nella storia della Francia fin dai tempi della strage di san Bartolomeo, cioè delle guerre civili di religione che insanguinarono la Francia nella seconda metà del Cinquecento. Poi c’è stata anche la rivoluzione francese, con la Dea Ragione portata in processione, e il consolidamento di un patrimonio di valori repubblicani garantito non dalla libera convivenza pluralista delle fedi religiose, ma dalla costruzione di una sfera pubblica in cui quelle fedi proprio non comparissero.

Ora, non c’è bisogno di scomodare Habermas e la sua società post-secolare per riconoscere nelle tradizioni religiose qualcosa di diverso da una minaccia alla pace sociale, con il loro potenziale di intolleranza nei confronti dell’universalità della legge. Non è vero affatto che civiltà e religione viaggiano lungo linee opposte, e che il crescere dell’una è possibile solo al decrescere dell’altra. La preoccupazione perché si dia reciproco riconoscimento fra fedi e culture non può rovesciarsi nel suo opposto: in una volontà di assimilazione che, per assicurare la parità di trattamento a tutti i credi, si spinge in realtà a negare qualsiasi riconoscimento. Non si può realizzare l’integrazione sulla base dell’esclusione, e privare lo spazio pubblico dei depositi di senso che in quelle tradizioni sono contenuti. I nostri figli studiano nelle scuole pubbliche proprio quelle correnti di pensiero – religiose, filosofiche o ideologiche – che certi segni portano con sé perché costruiscono appartenenza, legame sociale: che senso ha allora impartirne l’insegnamento, se riescono pericolose al punto di doverne vietare l’uso? Per la verità, pericolose lo sono davvero, come lo è qualsiasi elemento di identità che non si lascia risolvere in uno spazio liscio e neutro, ma proprio perciò insignificante. Ma è pericoloso anche negare, quando in realtà ciò che viene negato è semplicemente rimosso, non cancellato ma spostato, sottratto alla vista. Perché il rischio che torni in altri modi e in altre forme esiste, e non è detto che saranno, quando saranno, modi (e toni) più morbidi e più concilianti. Meglio pensarci per tempo.

(Il Mattino, 15 marzo 2017)

Renzi tra autocritica e rilancio

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Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)

Occidente e Islam sconfitti entrambi dalla Tecnica (int. a E. Severino)

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Chi è il giovane che guida un camion contro la folla, a Nizza, o che sino i due killer che in Normandia, a Saint-Etienne du Rouvray, irrompono all’interno di una chiesa, e tagliano la gola a un parroco, un uomo di 84 anni, Jacques Hamel? Chi è il terrorista? Che cosa lo muove, che cosa lo arma? La conversazione con Emanuele Severino, filosofo, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha preso le mosse da questa domanda, ma anche dal dubbio che dietro le fedi, le ideologie, le psicologie individuali e collettive, vi sia qualcos’altro, e che almeno una parola della filosofia, la parola nichilismo, aiuti a indicarlo. Chi è dunque il terrorista? Chi è il tagliagole, il kamikaze, l’uomo che uccide a sangue freddo, quello che spara indiscriminatamente a giovani, donne, bambini?

«Oggi sta diventando chiaro che il terrorismo include ma non coincide con il terrorismo fondamentalista islamico. Certo, è venuto in chiaro come siano radicalmente sbagliati i motivi che spingono quelli che non si sentono a proprio agio nelle società occidentali a reagire in modo così violento. Il terrorismo islamista è però solo la componente eminente, non l’unica. È vero tuttavia che le diverse forme di disagio trovano una giustificazione, forse persino una santificazione nella causa islamica. Ma ci sono anche casi in cui questo non avviene. Definire il terrorismo come esclusivamente terrorismo islamico fondamentalista è, dunque, improprio. Vi sono altre componenti: anzitutto il disagio, il risentimento degli emarginati. Ma anche la sublimazione di patologie mentali: la sublimazione, dico, nel senso di una giustificazione religiosa, ma anche nel senso dell’esibizione di un coraggio cieco e assoluto di fronte alla morte. Perché questa gente appartiene alla categoria dei candidati al suicidio. Temo anzi che saranno sempre di più, tra quanti pensano al suicidio, quelli che risolveranno il problema motivandolo religiosamente o politicamente o ideologicamente».

Il pensiero corre ai demoni di Födor Dostoevskij. Il rivoluzionario, il teorico, il fanatico, ma anche l’ingegnere disoccupato, il nichilista Kirillov, ossia il suicida, quello che accetta di firmare una falsa confessione, prima di togliersi la vita con un colpo alla testa, per accollarsi la responsabilità di un assassinio. E nel modo in cui si forma, nel grande romanzo russo, la cellula di rivoluzionari che dovrebbe gettare la Russia nel caos con una serie di attentati terroristici, nel modo in cui vi entrano i demoni, divorati da passioni ideologiche e motivazioni personali diverse, non vi è forse qualcosa dei profili così diversi dei terroristi che hanno agito in queste settimane: persone emarginate, ma anche ricchi rampolli della borghesia islamica? Ragazzi con gravi disturbi mentali, ma anche giovani radicalizzatisi in un crescendo di odio e fanatismo? Non avremmo ragione di usare allora come denominatore comune, una parola della filosofia (che peraltro Dostoevskij ben conosceva), la parola nichilismo?

«Se per nichilismo si intende quello che per esempio intendevano i nichilisti russi nell’800, ma anche Friedrich Nietzsche, allora sì, la categoria di nichilismo può essere appropriata. Io credo però che la categoria abbia un significato più profondo».

Qual è allora il più profondo della crisi in gioco? Che cosa dobbiamo vedere, che non vediamo quando ragioniamo sulle modalità di una strage, o anche quando ci interroghiamo intorno alle cause economiche o sociali, politiche o religiose che la ispirano?

«Credo che tutte quelle affermazioni in cui si dice che la crisi attuale non è semplicemente una crisi economica o culturale ma è una crisi molto più profonda, rimangano in realtà alla superficie. Se si va a vedere cosa indicano come il più profondo, si trova che non è tale. Certo è vero: non ci troviamo semplicemente alle soglie di una crisi economica, o culturale, ma ciò di cui propriamente si tratta è quel rovesciamento radicale e inevitabile, in cui la tradizione dell’Occidente è portata al tramonto dai protagonisti autentici della contemporaneità. Bisogna anzi parlarne al singolare: questo protagonista autentico è la Tecnica».

Severino introduce con accortezza al cuore del suo pensiero. È sempre difficile portare lo sguardo dalla superficie delle cose a ciò che avviene al di sotto di essa, e vi è sempre il rischio che questo rivolgimento dello sguardo venga considerato un modo per allontanarsi dalla drammatica attualità del conflitto in corso. Come se non contassero più i morti ammazzati, la terribile contabilità di queste settimane, le immagini concitate che rimbalzano ogni giorno sullo schermo, ma solo potenze astratte e impersonali che, nella loro nitida silhouette concettuale, trascendono però infinitamente le nostre piccole vite umane. In realtà, ciò che suona il più astratto è, per Severino e per la filosofia, il più concreto: chi pensa astrattamente, diceva Hegel, è chi non riesce a vedere la tremenda concretezza delle forze che dominano l’orizzonte del presente.

«Si parla di una terza guerra mondiale. Ne ha parlato il Papa, ma prima del Papa ne ha parlato Friedman [il riferimento è al politologo americano George Friedman, che si è dichiarato pronto a scommettere che il XXI secolo non farà eccezione: come i precedenti, anche il secolo in corso avrà il suo conflitto mondiale]. Se comincia qualcosa come una guerra non possiamo pensare che si dia una risoluzione a breve termine. Ma se ci sono gli elementi per dire che una guerra è possibile, c’è anche la possibilità di indicare l’esito inevitabile di una simile guerra».

Severino resta uno degli ultimi filosofi che mantiene alla parola filosofica il suo carattere originario, di parola vera e incontrovertibile. Mi richiama, dunque, appena provo ad usare la parola «scenario», come si trattasse della prospettazione di un corso possibile di eventi accanto ad altri, e continua:

«Vado da tempo dicendo nei miei scritti che ad uscire vittorioso da questo non breve conflitto non è nessuno dei confliggenti: né l’Occidente democratico-capitalistico, né il mondo islamico, bensì lo strumento di cui l’uno e l’altro sono costretti a servirsi. Questo strumento è la Tecnica».

Appare chiaro allora che per Severino la conflittualità più visibile, che attualmente terrorizza il mondo, non dice il più profondo dello scontro in atto. È una lotta di retroguardia, non la vera anima del conflitto. Più avanti Severino ricorderà come l’Islam, come tutte le forze della tradizione, individui in realtà nella civiltà della tecnica il suo vero nemico. Anche quando parla del Satana americano, l’Islam prende di mira l’America e l’Occidente per via del suo consumismo, del suo allontanamento dalla dimensione religiosa, e infine del suo essere un frutto della civiltà della tecnica. Così è per l’intera civiltà degli ultimi cinque secoli, figlia dell’incontro fra cristianesimo e tecnica e scienza moderna.

«Se si è d’accordo che la Tecnica è lo strumento di cui tutte le forze si servono per prevalere, allora ognuno degli avversari ha uno scopo, per raggiungere il quale gli è necessario il continuo incremento dello strumento di cui si serve. Ognuno dei contendenti deve aumentare all’infinito la potenza. Ma in questo modo l’incremento della potenza, grazie alla tecnica, occupa sempre più spesso l’area dello scopo che la forza in conflitto si propone di realizzare».

Ecco il teorema fondamentale: la Tecnica da mezzo diviene scopo, e così riduce inevitabilmente al silenzio gli scopi per i quali i confliggenti – un tempo gli USA e l’URSS, oggi l’Occidente e l’Islam – sono scesi in campo. È ciò che nel suo libro su «Islam e Prometeo» Severino ha chiamato non «pax americana», ma «pax tecnica», perché l’America, come ogni altra forza storico-politica mondiale – il capitalismo, il nazionalismo, il comunismo, ma anche l’Islam – è ad essa assoggettata.

«La tecnica che in ultimo prevarrà sarà la Tecnica capace di ascoltare quella distruzione assoluta della tradizione, che la grande filosofia ha pensato, quella distruzione radicale Nietzsche chiama per esempio «morte di Dio». Che non è una parola in libertà di un uomo un po’ folle, ma anzi ha una potenza che la cultura contemporanea e la stessa Chiesa non comprendono. La Chiesa vede nel relativismo il suo nemico, e non scorge il sottosuolo filosofico del nostro tempo dove si dimostra l’impossibilità di ogni limite che arresti l’agire dell’uomo».

Questa impossibilità di porre un limite, la parola della filosofia che dice alla tecnica «tu puoi» è, insomma, la più grande volontà di potenza. Nessun contrattacco della tradizione potrà mai prevalere su di essa, secondo Severino. E però, nel salutarlo e nel ringraziarlo per la lunga conversazione, un dubbio mi assale: ma questa fede nell’impossibilità di porre un limite all’agire dell’uomo non è, da ultimo, proprio la stessa che nutre il terrorista che lancia il suo camion sulla folla del lungomare di Nizza, o spinge a tagliare la gola a un anziano curato di provincia?

(Il Mattino, 27 luglio 2016)

Islamofobia italiana

scacchi-4-christian-and-muslim-playing-chessChi sono i musulmani d’Italia? Chi sono i cittadini stranieri provenienti da Paesi musulmani: dal Marocco, alla Tunisia all’Egitto? L’inchiesta apparsa ieri sul Corriere della Sera sembra in verità preoccuparsi molto poco del milione e mezzo di musulmani che vivono nel nostro Paese, e molto di più della «legione di mille possibili dannati» costituita dai musulmani fondamentalisti, fortemente radicalizzatisi e potenzialmente pericolosi. Una rappresentazione del mondo musulmano in Italia dovrebbe, in realtà, includere le associazioni fiorite sul nostro territorio, toccare le moschee, i luoghi di culto, i centri culturali, esaminare i rapporti con i Paesi d’origine e con le rappresentanze diplomatiche presenti in Italia, ma anche descrivere le frequentazioni ordinarie nelle scuole, sui posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo, le abitudini alimentari, i costumi familiari, l’adesione alle pratiche religiose, e raccontare infine anche dei rapporti con lo Stato italiano e delle eventuali controversie. Tutta questa parte manca: non manca solo sul Corriere, in verità; manca un po’ dappertutto. E non preoccupa tanto il fatto che di questo mondo sappiamo molto poco, quanto piuttosto che ancor meno ne vogliamo sapere.

La violenza non solo fa notizia, ha anche un suo indiscutibile fascino: si rimane incollati alla pagina, conquistati e atterriti, quando si legge la storia di una studentessa che lascia l’Italia per raggiungere il fronte della guerra, a fianco dei fanatici dell’Isis, o del cammino inverso compiuto da combattenti tornati dalla Siria (solo una decina, ci informa il Corriere, ed obiettivamente non sembra essere un numero da titolo di giornale). Resta però il fatto che non si tratta di scelte rappresentative di ciò che balza oggi in mente alla stragrande maggioranza dei giovani musulmani residenti in Italia. Chi sono costoro? Una cosa è certa: nella quasi totalità, non sono terroristi e non fabbricano bombe, anche se si presentano troppo spesso le cose a rovescio, in spregio ai numeri. Poi si fa sfoggio di acume logico, osservando che se è vero che non tutti gli islamici sono terroristi, è vero pure che tutti i terroristi sono islamici. E però si dimentica che fra i due insiemi c’è una enorme sproporzione numerica. E soprattutto che non è possibile raccontare l’insieme più grande partendo dall’insieme più piccolo, molto più piccolo, che vi è contenuto.

D’accordo: bisogna tenere alta la guardia; ma questo non può significare mettersi i paraocchi, rifiutarsi di capire. Le stragi di Parigi hanno costretto la Francia a interrogarsi nuovamente sulla presenza musulmana  (Oltralpe molto più massiccia che qui da noi). Lì. Però, il dibattito su assimilazione, multiculturalismo e integrazione è molto più avanti, e, certo, anche più problematico. Lì è chiaro che non ha funzionato il discorso bushiano di esportazione della democrazia, ma anche che è fallito il progetto di Al Quaida di mobilitare tutto l’Islam contro l’Occidente. Lì, soprattutto, è evidente che gli eventi terroristici non possono essere considerati esemplari del modo in cui si delinea il corso della presenza musulmana in Europa. Si cade se mai nell’eccesso opposto: per un intellettuale come Alain Finkielkraut, che denuncia una fragilità ideologica e culturale eccessiva, della Francia e dell’Unione Europea, c’è almeno un filosofo come Alain Badiou che è pronto a dargli sulla voce, che rifiuta perfino di confrontarsi e che, anzi, denuncia orripilato un dispositivo intellettuale che, sotto la difesa della democrazia, avrebbe solo un significato brutalmente reazionario. Gli intellettuali francesi sanno essere molto più spregiudicatamente autolesionisti di noi, quando vogliono.

Qui da noi, invece, sembra che si imponga la sproporzione opposta: la costruzione del nemico procede a così grandi passi, che di un’identità culturale varia per provenienza geografica, per tratti sociologici, per abitudini di vita, per motivi etnici, per orientamento religioso, si fa un’unica cosa, ricondotta sotto il denominatore comune dell’ostilità radicale verso l’Occidente. Nient’altro passa. Si crede davvero che non vi sia una possibile definizione dell’Islam compatibile con la democrazia e con la condanna dei massacri, o che il rapporto fra affermazione di sé, individuale e politica, e identità religiosa non ammetta sfumature, differenze, gradi. Lì, insomma, in Francia, forse si sta perdendo la partita dell’integrazione: qui sembra però che non la si voglia nemmeno cominciare a giocare.

(Il Mattino, 28 novembre 2015)

Stendiamo un velo pietoso

Giuliano Amato: "Se le donne portano il velo o chiedono di essere visitate soltanto da ginecologhe, vogliamo desumerne che si tratta di diversità inaccettabili, perché sempre e in ogni caso espressive di inaccettabili prevaricazioni maschili, oppure vi riconosciamo sensibilità identitarie legittime, certo rimovibili, ma rimovibili solo per volontà delle donne che ne sono portatrici?".

Maria Giovanna Maglie: "Ci sono molte donne che potrebbero rispondergli, quelle ancora vive, ammesso che qualcuno le faccia uscire dalla segregazione nella quale qui in Italia è tenuto l’ottantacinque per cento di loro; ma al ministro questo non interessa, ha deciso, come l’Ucoii, che tutte le donne che portano il velo vogliono il velo, così si sta più tranquilli".

Ecco, uno può giudicare che certe posizioni à la Amato facciano troppi distinguo, siano troppo morbide, troppo rispettose, persino ipocrite (non è il mio parere). Uno può persino ritenere che ci voglia invece il maiale day (e in tal caso non si vede che bisogno vi sia di portare suini a passeggio, basterebbe il promotore), ma come si fa a scrivere dopo averne citato le parole, e quindi senza nemmeno fingere di non averle presenti, che il ministro ha deciso che tutte le donne vogliono il velo? Perché si scrive con una simile sciatteria su faccende così tremendamente serie?