I fatti di Roma non presentano troppi margini di ambiguità, e le ricostruzioni finora offerte dicono con sufficiente chiarezza cosa è successo: l’aggressione gratuita ai tifosi napoletani, nel pomeriggio, l’uso di un’arma da fuoco e il grave ferimento, le rassicurazioni fornite, su invito della società, prima dell’inizio della partita ai tifosi azzurri, e comunicate da Hamisk e dalle forze dell’ordine che parlottano con il capo ultrà, prima che la partita abbia inizio. Altrettanto chiaro è che cosa questura, federazione e società sportive debbano garantire, insieme al regolare svolgimento di una partita di calcio: una domenica senza episodi di violenza, senza surreali colloqui in curva con la tifoseria organizzata, senza lanci pericolosi dagli spalti, senza infiltrati nello stadio, senza un clima di diffuso timore, incertezza, prepotenza. Le cose come sono andate, insomma, e le cose come devono andare. Due piani che corrono paralleli e sembrano non incontrarsi mai.
Ma su uno di essi non è inutile condurre un ulteriore esercizio di comprensione: questi episodi infatti qualcosa dicono, anche perché tanto episodici non sono, vista la frequenza con cui si verificano. E quel che dicono forse non riguarda solo il pianeta calcio, visto che non è solo intorno a una partita di calcio che si fa esperienza di uno scollamento fra regole e istituzioni da una parte, e vita reale dall’altra. Di questo infatti si tratta: le prime pare proprio che non riescano più a contenere e a dar forma alla seconda. A dargli misura, ordine, sicurezza. Perché accade tutto ciò? Naturalmente il calcio e il tifo ultrà hanno qualcosa di proprio e specifico, che non intendo negare. Né intendo sostenere che non c’è altro da fare: dobbiamo tenerci gli ultrà, il tifo violento, le logiche tribali e la paura sui gradini degli stadi italiani. Nulla di tutto ciò. Ma come non percepire in quel riconoscimento de facto a Genny ‘a Carogna una debolezza, una fatica e un’insufficienza dei modi deldiritto e della democrazia? Di nuovo, e a scanso di equivoci: non intendo criticare il comportamento delle forze dell’ordine, che non hanno mai dubitato di dover consentire che il match avesse corso, né hanno chiesto per questo il permesso al tifo organizzato. Ma il punto non è questo. È invece rilevare che per spiegarsi, per farsi capire, per dare un senso alle decisioni prese e perché i tifosi si capacitassero si è avuto bisogno della mediazione del capo ultrà. E la mediazione ha funzionato.
Il politologo francese Pierre Rosanvallon ha coniato qualche tempo fa il concetto di «contro democrazia», per tenere insieme una serie ampia di fenomeni che hanno un tratto comune: la défiance, la sfiducia o la diffidenza nei confronti delle istituzioni democratico-rappresentantive. Lo scollamento ha un carattere ben più ampio e profondo di quello che può prodursi nei pressi di uno stadio, e riguarda, in generale, la distanza fra gli istituti della legittimità politico-giuridica e le modalità e le figure del riconoscimento, dell’investimento anche affettivo e dell’identificazione anche simbolica. Tocca il tifoso, ma anche il Papa; riguarda il comico, ma pure la grande firma. L’idea di Rosanvallon – che non riguarda dunque il gioco del calcio ma quello più generale della democrazia – è che c’è insomma un deficit di senso, cioè un deficit di politica. E che per porvi rimedio bisognerebbe agire seriamente in tre direzioni: nella «produzione di un mondo leggibile», nella «simbolizzazione del potere collettivo» e nella «messa in discussione delle differenze sociali». Tutte cose difficilissime e complicate anche a spiegarsi, ma che, tutte, dicono, che se una voce parla da un altoparlante con tono ufficiale non viene compreso, non viene accettato, non viene condiviso. E se la nostra ammaccata democrazia non ha molto di meglio da offrire nelle sue voci ufficiali, nelle sue sedi istituzionali, nelle sue organizzazioni di partito, perché meravigliarsi se bisogna andare fin sotto la curva a parlamentare? Il radicalismo o lo spregio per le regole non sono mai una soluzione, ma non lo sono nemmeno l’ironia sbrigativa, la facile indignazione e magari il sussiego con cui molti commentatori fingono di non saper neppure pronunciare il nome d’«’a Carogna».
(Il Mattino, 5 maggio 2014)