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Legge elettorale, le regole del Colle

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Un indizio è soltanto un indizio, due indizi fanno una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. La scrittura della nuova legge elettorale non è un romanzo di Agatha Christie, ma ieri di indizi ne sono venuti proprio tre, come voleva la regina del giallo. Il primo lo ha fornito Silvio Berlusconi, che salito al Quirinale per il messaggio di auguri del Capo dello Stato, ha detto che di legge elettorale si tornerà a parlare dopo la Consulta, essendo necessario, su una materia così «seria», confrontarsi attorno a un tavolo per giungere a un testo condiviso.

Campa cavallo? L’unica indicazione che il Cavaliere ha fornito nel merito non va, peraltro, in direzione del Mattarellum proposto domenica, nell’Assemblea nazionale del Pd, da Matteo Renzi. Serve una legge – ha detto – che «faccia corrispondere maggioranza parlamentare e maggioranza politica». Ora l’idea stessa di una corrispondenza confligge con i meccanismi disproporzionali di qualunque legge capace di generare effetti maggioritari, come i collegi uninominali del Mattarellum. Quindi, quello del Cavaliere a tutto somiglia meno che a un via libera.

Del resto, Forza Italia non ha mai amato la legge che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: proprio per via dei collegi, che obbligano le forze politiche a raggiungere un accordo a livello locale, collegio per collegio, su un solo nome. Cioè costringono Berlusconi a subire il forte radicamento territoriale della Lega in certe aree del Paese.

Il secondo indizio – e siamo alla coincidenza – è venuto dai lavori parlamentari, con la scelta di non procedere all’esame della materia elettorale prima della sentenza della Consulta. La Lega ha alzato la voce, denunciando l’inedita alleanza, in commissione affari costituzionali, fra Pd, Forza Italia, M5S, e accusando i parlamentari di puntare al vitalizio, tirando per le lunghe la legislatura almeno fino al prossimo autunno. Ma non occorrono motivazioni così basse: si può fornire una spiegazione più politica per la decisione assunta, che sta meno nella volontà di allungare i tempi e più nelle perplessità che la proposta di Renzi solleva. In Forza Italia s’è detto. Quanto ai Cinquestelle, confidando di vincere le elezioni, essi sperano ancora in un Italicum magari riveduto e corretto dalla Corte, ma che mantenga comunque un premio per il primo partito. Se poi così non fosse, la seconda scelta non sarebbe certo il Mattarellum, che dà qualcosa in più, col meccanismo uninominale, alle formazioni in grado di esprimere una classe dirigente ampia e riconosciuta (che ad oggi il Movimento non ha), bensì un sistema proporzionale, che dà a ciascuno il suo senza risolvere la questione del governo. Con i chiari, anzi i raggi di luna dei cieli romani, mancare l’appuntamento del governo nazionale ma ingrossare le proprie file in Parlamento non sarebbe forse una cattiva soluzione, per Grillo & Casaleggio.

Infine il Pd: il voto di domenica lo ha ricompattato intorno alla proposta del segretario, però è noto che molti, dentro il partito, pensano che per Renzi le cose si complicherebbero non poco in uno scenario di tipo proporzionale. Nel gioco parlamentare che la prima Repubblica allestiva per giungere alla formazione dei governi (per farli, certo, e per disfarli), la regola non scritta era infatti che il Presidente del Consiglio non fosse il segretario del partito. Ci sono voluti Spadolini prima e soprattutto Craxi poi per cambiare le consuetudini dei capi democristiani. Era un altro mondo, naturalmente, ma a parte nostalgie e rimpianti – almeno in parte giustificate dalle prestazioni non eccelse dell’assetto istituzionale della seconda Repubblica – di sicuro c’é, nel Pd, chi si chiede perché dare ancora a Renzi, col Mattarellum, una dote maggioritaria che potrebbe portarlo di nuovo alla guida del governo.

Queste, ammettiamolo, sono solo ipotesi, congetture, ragionamenti astratti. Ma poi c’è il terzo, decisivo indizio: ci sono le parole del Presidente della Repubblica. A sentir le quali, di nuovo: la legge elettorale si allontana. Per Mattarella il sistema va senz’altro  «riallineato rispetto agli orientamenti del corpo elettorale», ma solo nel momento in cui «l’andamento della vita parlamentare ne determinerà le condizioni». Non c’è posizione più corretta dal punto di vista costituzionale, ma è comunque una non piccola sottolineatura. Qualcosa di più di una precisazione in dottrina. Tanto più che il richiamo, detto che non si può andare al voto con due leggi opposte fra Camera e Senato – una «fortemente maggioritaria», l’altra «assolutamente  proporzionale» – è stato accompagnato dall’invito a trovare una soluzione «più ampia della maggioranza di governo».

Di nuovo: è assolutamente corretto ed anzi auspicabile, e però una soluzione del genere da un lato prende tempo, dall’altro è molto difficile che si trovi intorno al Mattarellum, voluto allo stato solo dal partito democratico (renziano) e dalla Lega. Ora si può immaginare che la legge elettorale la facciano il Pd e la Lega? Forse no. E forse, se tre indizi fanno una prova, la battaglia politica che Renzi deve ingaggiare per spuntare una legge che gli restituisca lo scettro della leadership è molto più dura del previsto.

(Il Mattino, 21 dicembre 2016)

Mattarella e la forza della mitezza

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L’arroganza, la protervia, la prepotenza. E poi, al polo opposto, c’è la mitezza. Quando Norberto Bobbio scrisse il suo fortunato elogio della mitezza, aveva in mente una virtù che doveva anzitutto esercitarsi nelle relazioni personali, come disposizione a non sopraffare l’altro, a non esibire la propria forza. Una virtù che si costruisce trattenendosi, ritirandosi dal potere che si potrebbe usare e che si decide invece di non usare. Una virtù che si attaglia benissimo al ruolo che svolge, nell’ordinamento italiano, il presidente della Repubblica.

In realtà, i giuristi hanno ormai adottato l’immagine coniata da Giuliano Amato, di un potere «a fisarmonica», che si espande o contrae a seconda delle condizioni complessive in cui si trova il sistema politico. E certo, maggiore è la fibrillazione in cui il sistema versa, più è richiesto al Presidente di svolgere una funzione di equilibrio e di garanzia.

Manca ormai meno di una settimana al referendum costituzionale, e forse è il momento giusto per un elogio della mitezza che il presidente Mattarella ha fin qui dimostrato. Non è solo una questione di galateo, o di stile personale ispirato alla sobrietà. Non è nemmeno un nobile esercizio di pazienza o di cristiana rassegnazione. I toni del confronto politico si sono di molto alzati, e non solo perché è aumentato il rumore della propaganda, o perché non sono mancate le grida scomposte e le espressioni ingiuriose, ma perché più volte sono venuti al pettine i nodi politici e istituzionali che, all’indomani del voto, bisognerà che siano sciolti. E il primo a cui tocca disbrigare quei nodi è proprio il presidente della Repubblica.  Ci sarà o no una crisi di governo, nel caso in cui il no dovesse prevalere? E che genere di crisi sarà? Quali saranno i suoi passaggi parlamentari? E quale governo si farà, dopo? Ma anche in caso di vittoria del sì, non è detto affatto che prosegua tranquilla la navigazione di questa legislatura, e le elezioni potrebbero essere già dietro le porte. E il nodo della legge elettorale, sul quale si attende ancora la pronuncia della Corte costituzionale? Il combinato disposto di Italicum e riforma costituzionale è stato presentato da alcuni come un pericolo, che avrebbe dovuto mettere in allarme le supreme magistrature del Paese. Ma anche il combinato disposto di una mancata riforma e di una bocciatura dell’Italicum porta con sé una quantità di dubbi e di incertezze non piccola, e il rischio di un’impasse istituzionale. E gli stessi partiti, che rimangono i primi interpreti della volontà popolare: anche per loro, il 4 dicembre potrà provocare un energico rimescolamento di carte. Non c’è solo il Pd, la maggiore forza politica presente in Parlamento, che andrà a congresso il prossimo anno. Anche il centrodestra non è chiaro quale fisionomia assumerà, e neppure chi lo guiderà (e verso dove). Persino nei Cinquestelle, che appaiono molto più compatti dietro il megafono di Grillo, non è detto affatto che il processo di selezione della leadership non procuri qualche scossone. Deciderà la Rete, dicono con finta ingenuità, come se, siccome decide la Rete, non si trattasse di una vera decisione politica, con tutti i sussulti che ciò comporta.

E quindi: dal prosieguo della legislatura alla tenuta del governo, dalla legge elettorale ai rapporti politici, le incognite non mancano, così come non mancano i punti di applicazione dei poteri del presidente della Repubblica. Ebbene, immaginate che cosa comporterebbe un altro stile presidenziale, fatto di dichiarazioni pubbliche, interviste, magari messaggi alle Camere, e insomma l’esercizio di una moral suasion condotto in pubblico. Immaginate se salissero i giri anche del «motore di riserva» della Repubblica, se la presenza del Presidente fosse avvertita in questi giorni come più marcata, più decisa, più determinata: un putiferio.

Eppure, si potrebbe persino dire che il Presidente ne avrebbe ben donde. Da un alto è indubbio che, da Sandro Pertini in poi, il volume delle esternazioni è progressivamente cresciuto, in corrispondenza con i mutamenti del sistema politico, la diminuita partecipazione, la crisi di credibilità, la frammentazione dei partiti e degli schieramenti, la fine del bipolarismo. In questo confuso scenario, il Quirinale ha assunto negli anni una posizione sempre più centrale, ma anche propulsiva, fin quasi ai limiti dell’iniziativa politica diretta. Dall’altro, il Presidente rimane pur sempre il garante degli equilibri costituzionali, il difensore dei diritti fondamentali e del bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione: una riforma vasta e incisiva fa necessariamente arrivare fin sul più alto Colle della Repubblica le più diverse sollecitazioni.

Dinanzi a tutte queste spinte, attuali o potenziali, reali o virtuali, c’era materia per dare una curvatura per dir così «governante» alla propria funzione, certo con il rischio di incrinare la stabilità del quadro politico e istituzionale. Mattarella si è ben guardato dall’assumere un simile profilo, mettendo a disposizione la propria forza moderatrice, la propria interpretazione mite del ruolo presidenziale. Ha scelto di pesare il meno possibile sul 4 dicembre. Il Paese ne guadagna una certezza: nessuno mette in discussione che siano in buonissime mani le decisioni che dovranno essere prese a partire dal giorno cinque. Bobbio diceva che compagna della mitezza è la semplicità, «il rifuggire intellettualmente dalle astruserie inutili, praticamente dalle posizioni ambigue». Comunque andrà il voto, la mitezza di Mattarella garantisce al Paese che non saranno percorse strade astruse o ambigue, soluzioni improvvisate o dissennate. E scusate se è poco.

(Il Mattino, 28 novembre 2016)

La sfida nel Pd e il declino del riformismo

unexpected_meeting_palette_knife_by_leonid_afremovLe prime giornate d’autunno, le prime piogge, i primi freddi, sono il clima più indicato per quei quesiti esistenziali che nei momenti di crisi, o di passaggio, inevitabilmente affiorano. Ma se i dubbi riguardano le scelte politiche, allora non è nelle condizioni atmosferiche che bisogna cercare la ragione per cui compaiono. La Direzione del partito democratico si è conclusa con un voto unanime, ma la minoranza di Bersani, Cuperlo e Speranza ha scelto di non votare: le distanze, dunque, permangono. E il paradosso è che esse riguardano meno, molto meno il merito della riforma costituzionale, che l’Italicum, la legge elettorale. I prossimi giorni e le prossime settimane, comunque, ci diranno se l’iniziativa avviata da Renzi per «togliere l’alibi» alla minoranza interna, sortirà qualche effetto.

Ma se si solleva un po’ lo sguardo da questa partita molto tattica, fatta di mosse e contromosse, di frenate e aperture, di reciproci logoramenti e reciproche diffidenze, si vedrà, in un orizzonte più largo, non il cielo grigio di Roma e le prime foglie gialle, ma lo stato della sinistra riformista in Europa. Uno stato che definire di crisi è usare un tenero eufemismo. In Gran Bretagna, Corbyn sembra rinchiuso in una ridotta sempre più angusta, tanto che spunta di nuovo il nome di Tony Blair come ciambella di salvataggio per un partito sempre più lontano da un profilo di governo. In Francia Hollande è ancora in sella, ma il cavallo socialista pare giunto a fine corsa, e si avvicina l’eventualità di un ballottaggio per le presidenziali in cui la sinistra dovrà ingoiare l’amaro boccone di votare una destra presentabile e repubblicana, pur di fermare l’avanzata del lepenismo. In Germania la Merkel è in difficoltà, ma ad incalzarla  non sono i socialdemocratici. I quali sono da tempo entrati in una logica rassegnata, da «second best»: ipotizzare che possano andare oltre la partnership di minoranza in una grande coalizione è, al momento, complicato. In Spagna, infine, i socialisti sono in una profonda crisi di leadership, ben lontani dal costruire, da posizioni di forza, un orizzonte egemonico. Il resto d’Europa conferma, anzi aggrava questo quadro.

Ma al di là delle problematiche congiunture elettorali, è sul piano culturale che è sempre più difficile capire in che cosa i socialisti europei si differenzino dalle formazioni moderate o conservatrici. In che cosa l’agenda sui temi fiscali, del welfare, dell’immigrazione, della sicurezza, della stessa costruzione politica dell’Unione permetta di tirare un discrimine chiaro e netto.Di che cosa parlano, quali bisogni individuano come prioritari, quali domande sociali, quali interessi e anche quali ideali. Tutti i partiti che aderiscono al gruppo socialista del Parlamento europeo si definiscono progressisti, ma che cosa questa etichetta significhi è perlomeno dubbio: progressista è chi vuole una più stretta unione politica, o chi difende il welfare nazionale? Forse progressista è chi vuole politiche inclusive verso i migranti, e più ampi diritti di cittadinanza, ma allora perché tra i socialisti europei ci sono pure quelli dei muri e dei respingimenti? E l’euro: è stato o no un progresso? Lo si può dire forte e chiaro (e lo si può dire con la stessa forza e chiarezza a Roma, Atene e Berlino)? La  globalizzazione, l’internazionalizzazione dei mercati, le nuove tecnologie: fattori di progresso o seminatrici di paure?

La verità è che, come molti osservatori hanno notato, le linee di faglia lungo le quali si struttura il confronto politico si spostano, ed oggi la linea principale è saldamento presidiata dalle formazioni populiste. Che parlano oggi la lingua a tutti comune: la casta, i costi della politica, la corruzione e l’onestà. A questi temi si aggiungono quelli che articolano i timori di questo inizio di millennio, su cui la destra sembra avere più argomenti: lo straniero, il musulmano, la crisi ecologica, il terrorismo. Qual è invece il lessico della sinistra? Difficile trovare le parole. C’è chi considera questo spostamento di campo – di linguaggi, di emozioni, di convinzioni – un effetto della lenta, ma inesorabile consumazione ideologica dei partiti tradizionali, e chi invece capovolge il rapporto, e ritiene che sia l’emergere di nuove istanze, di nuove soggettività, di nuovi scenari globali ad accompagnare le diverse declinazioni del socialismo europeo verso la porta di uscita della storia. Che sia in un modo o nell’altro, il risultato sotto gli occhi è un pesante ingolfamento della tradizione riformista, che non riesce da tempo a indicare un futuro possibile verso il quale orientare le cuori e le menti di quella specie di umanità – oggi un po’ più rara di ieri – che rimane l’umanità europea.

Certo è ingeneroso usare questo metro lungo per giudicare l’esito della Direzione del Pd, il cui orizzonte era disegnato molto più ravvicinatamente dall’appuntamento di dicembre. Ma se la partita interna si accontenterà di rappresentarsi come la sfida tra quelli che hanno i voti, e spregiudicatamente comandano, e quelli che conservano il senso della sinistra, e molto si dolgono, allora si farà sempre più probabile che il destino del partito democratico si unisca, prima o poi, a quello dei partiti fratelli.

(Il Mattino, 12 ottobre 2016)

Il referendum decisivo per il futuro

272175433-giocare-a-carte-carta-da-gioco-tavolo-da-gioco-pokerE di nuovo ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito, parlando in chiusura della festa nazionale del partito democratico, a Catania, la disponibilità a rivedere la legge elettorale. Lo aveva detto anche il giorno prima, ed era sembrato che fossero quelle le parole più importanti del suo intervento a tutto campo. Se le si guarda dal punto di vista della lotta politica – e dal punto di vista più limitato della lotta politica all’interno della maggioranza – lo sono indubbiamente. La minoranza del Pd, con Cuperlo e Speranza, continua a chiedere modifiche dell’Italicum. Lo stesso fanno i centristi, da Alfano a Casini. Quando dunque Renzi si dichiara disponibile a intervenire sulla legge, parla innanzitutto a questi settori. Quando però prova a rilanciare l’iniziativa politica, parla a tutti gli italiani. E allora le parole più importanti divengono altre: «una riforma elettorale si cambia in 3-5 mesi, una riforma costituzionale no». Non sarà un diamante, e non sarà per sempre, ma una riforma costituzionale dell’ampiezza di quella in discussione ha, non può non avere l’ambizione di durare per un bel pezzo. Abbiano o no ragione quelli per i quali l’Italicum non è il vestito giusto per l’attuale sistema politico tripolare – e tra di loro c’è anche il presidente emerito Napolitano, primo sponsor delle riforme – è persino ragionevole mostrare disponibilità sul terreno della legge elettorale, per portare a casa un risultato molto più durevole sul terreno delle riforme.

Un risultato, cerca di dire Renzi, capace di futuro. Tutto il discorso di Catania di ieri aveva questo significato. Dalla parte del sì sta il futuro del paese, dalla parte del no stanno i fallimenti della seconda Repubblica. Sta il passato, sta un’altra stagione della vita politica italiana ormai conclusa. E ovviamente sta Massimo D’Alema – sceso in campo come leader del no alla riforma – che più di tutti la incarna. Renzi prova a rilanciare l’iniziativa politica, a raccontare le riforme del suo governo (le unioni civili, la scuola, il jobsact) e i buoni propositi per l’anno venturo (primo fra tutti la riduzione delle tasse).

Ma soprattutto torna ad essere quello che sta davanti, con gli altri ad inseguire. Complici infatti le difficoltà dei Cinquestelle – ancora incartati con il caso Roma e i dolori della sindaca Raggi –, complici le guerre intestine nel centrodestra – con l’investitura di Parisi, voluta dal Cavaliere ma osteggiata dalla dirigenza del partito –, il presidente del Consiglio torna a dare le carte. A mettersi al centro degli equilibri e delle prospettive di governo del Paese. Tutto però dipende dalla capacità di apparire non come quello che vuol sfangarla, sopravvivendo alle forche caudine del referendum, ma come quello che cambia l’Italia. Il viatico è dunque la legge elettorale («sia che la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no»), ma l’orizzonte è l’Italia del futuro. La prima è la polpetta che i partiti devono dividersi (se ci riescono, il che non è affatto scontato), ma il secondo è l’elemento davvero decisivo di cui ci si deve impadronire. La vittoria al referendum è insomma legata, per Renzi, alla possibilità di allestire uno scenario che coinvolga tutto il paese e non solo le sue classi dirigenti, che rimangono incerte spaventate o divise dal salto in un nuovo sistema politico-istituzionale.

Al premier, del resto, non manca il dinamismo per condurre questi due mesi, due mesi e mezzo di campagna elettorale all’attacco, su più fronti. Cercando sponde internazionali. Girando per l’Italia. Parlando a tutto campo. Mettendo anche un po’ di furbizia nell’orientare l’attività politico-parlamentare delle prossime settimane (vedi alla voce: legge di stabilità). E aprendo canali di comunicazione anche là dove, fino a poco tempo fa, si era al muro contro muro. A Napoli è così. Oggi il premier è in Campania, per una serie di appuntamenti in cui non gli mancherà certo il modo di confermare, insieme all’attenzione per il Mezzogiorno portata avanti con i patti per il Sud, questa nuova linea dialogante. E in serata, per l’evento organizzato da «il Mattino», siederà nel palco reale del San Carlo insieme al sindaco Luigi De Magistris. Certo, è una serata di gala, non un incontro istituzionale. Ma è, o può essere anche l’occasione per mostrare di avere il vento nelle vele anche alla città più «derenzizzata» d’Italia. A cui stasera in fondo si tornerà a chiedere se convenga continuare il gioco comunardo della repubblica indipendente, o unire il proprio destino a quello del resto del Paese.

(Il Mattino, 12 settembre 2016)

Italicum, perché Renzi non lo cambierà

omini-pentola-1Dopo le elezioni amministrative, il quadro politico si è rimesso in movimento. La partita del referendum costituzionale rimane la partita decisiva: se passa il sì, non si chiude solo la transizione istituzionale che si trascina confusamente dal dopo ’89, ma si spegne anche la forte fibrillazione innescata dalla prova non brillante del Pd alle scorse elezioni, e il clamoroso successo dei Cinquestelle a Roma e a Torino.

Ma al referendum bisogna arrivarci. E da qui ad ottobre l’ostacolo messo davanti alla maggioranza di governo e a Renzi si chiama Italicum. La legge elettorale, appena entrata in vigore, è già sotto tiro. In particolare, è il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione la pietra di inciampo. Renzi non ha interesse a cambiarla: premio alla lista significa infatti governabilità, senza più concessioni ai piccoli partiti. Quando fu approvata la legge, significava anche premio al Pd. Dopo i risultati di giugno, non è più così scontato che il Pd possa beneficiare del premio di lista, ma resta del tutto comprensibile che Renzi invece confidi di portarlo a casa, vincendo prima il referendum è andando poi al voto nel 2018. Questa era il disegno originario, e questo rimane.

Ma una voce sussurra all’orecchio del premier che le cose potrebbero non andare così bene. Che il referendum potrebbe essere perso e che i Cinquestelle potrebbero diventare il primo partito. L’Italicum servirebbe così su un piatto d’argento, a Beppe Grillo e ai suoi «cittadini», il governo del Paese. Se invece il premio andasse alla coalizione e non alla lista – continua la vocina – il Movimento avrebbe molte meno chance, non essendo in alcun modo intenzionato a stringere accordi con altri partiti. Il ragionamento è semplice e insinuante: la bassa capacità coalizionale dei grillini viene punito da una legge che favorisce invece le coalizioni, perché dunque non ritoccare la legge?

A fare questi ragionamenti sono in molti, in particolare nell’area di centro, dove prosperano le piccole formazioni. Messe alle strette dalla soglia di sbarramento (che pure è molto bassa, al tre per cento), e poco attratte dalla prospettiva di confluire in un’unica lista. Questa era del resto la ragione per cui inizialmente l’Italicum godeva del sostegno di Berlusconi: perché favoriva il ricompattamento e il ritorno all’ovile dei molti pezzi staccatisi da Forza Italia nel corso del tempo. Senza il Cavaliere nel ruolo di playmaker del centrodestra, la linea si è fatta molto più incerta. Senza dire che il solo provare a rimettere mano all’Italicum e a riaprire la partita delle riforme di sistema equivarrebbe comunque a una mezza sconfitta di Renzi.

Nel Pd la minoranza è su una posizione analoga. L’imperativo è infatti mettere Renzi sotto scacco, e cambiare la legge significa anzitutto dimostrare che Il premier non è più il dominus della situazione. Per il resto, il motivo per cui con il premio di coalizione si innalza l’argine opposto ai Cinquestelle è poco coerente con le posizioni aperturiste nei confronti del voto grillino da non demonizzare. Ma è una posizione che, viceversa, si sposa molto bene con il progetto di mantenere un soggetto politico autonomo alla sinistra del Pd come sua spina nel fianco.

All’opposto i Cinquestelle. All’Italicum hanno detto no, in passato, in tutti luoghi e in tutti i modi. Ma l’Italicum gli conviene, e così da qualche giorno fioccano, a dispetto della coerenza, le dichiarazioni contrarie alla revisione della legge. Lo scenario che i pentastellati immaginano è uguale e contrario a quello su cui punta Renzi: se il referendum non passa, Renzi va a casa, e con il premio di lista Di Maio va a Palazzo Chigi.

Le pedine sono dunque tutte sul tavolo, e di qui a ottobre continueranno a muoversi, provando magari a tirar dentro la trattativa altri punti discussi della legge, dalle preferenze ai capilista bloccati al doppio turno: una volta infatti che fosse acclarato che l’Italicum è modificabile, le richieste di modifica è presumibile che si moltiplicherebbero. La materia elettorale, come quella costituzionale, è la più opinabile al mondo, e offre ogni tipo di soluzione, ogni sorta – come si dice – di combinato disposto. Quel che le dà forma e stabilità è la volontà politica. Scoperchiando il vaso di Pandora delle modifiche all’Italicum, anziché costruire in maniera previdente un piano B, per l’ipotesi di un esito infausto al referendum, Renzi rischia di vestire i panni dell’incauto Epimeteo, quello che ragiona col senno di poi, e chiude la stalla quando i buoi sono scappati.

Ma è probabile che gli basti sollevare solo un poco il coperchio, sentire tutte le voci che si agitano sul fondo non limpidissimo della politica italiana, e subito richiuderlo, ritornando al piano principale, col quale sta o cade la sua vera scommessa politica.

(Il Mattino, 1 luglio 2016)

Renzi e i rivali. Due visioni, un unico destino

divisibilità indefinita

La fiducia chiesta dal governo sulla legge elettorale non è un vulnus alla democrazia, il cui stato di salute non è dunque messo a repentaglio dalla decisione presa ieri dal Consiglio dei Ministri e comunicata dal Ministro Boschi ad un’aula rumorosa e colorita. Piuttosto, si tratta del punto massimo al quale è giunto lo scontro politico: non solo fra maggioranza e minoranza, ma anche all’interno della stessa minoranza, e segnatamente all’interno del partito democratico.

Che non si tratti di uno sbrego costituzionale è dimostrato, oltre che dai regolamenti parlamentari, dalla Costituzione e dalle leggi in vigore, dal fatto che il Presidente della Repubblica non ha ritenuto sin qui di intervenire, lasciando che la questione fosse definita nella dialettica fra Parlamento e Governo. Resta però vero che il passo compiuto da Renzi, col chiedere la fiducia, è una decisione con ben pochi precedenti e soprattutto non priva di conseguenze. I casi analoghi verificatisi in passato– la riforma elettorale voluta da Mussolini nel ’24, la cosiddetta «legge truffa» nel ’53 – alimentano le parole roboanti spese ieri a margine dei lavori della Camera: Renato Brunetta ha parlato di «fascismo renziano», Nichi Vendola di «squadrismo istituzionale», ma sono paragoni privi di qualunque senso storico, frutto per un verso di una polemica politica al calor bianco (e ci sta), ma per altro verso di quella retorica del disconoscimento che purtroppo paralizza l’Italia da decenni (e ci sta un po’ meno).

Le conseguenze della decisione assunta ieri, però, vi sono tutte. Renzi ha passato il Rubicone sul quale finora si erano fermati i precedenti tentativi di sbloccare il sistema. Il primo tentativo, quello di Mario Monti, è presto naufragato, forse perché alla caratura intellettuale e tecnocratica di quella esperienza non corrispondeva un’analoga caratura politica. Fuor di metafora: i partiti che sostenevano il governo Monti non erano disponibili a scommettere davvero sul suo successo. Ma anche il tentativo di Enrico Letta, dopo la rielezione di Napolitano, non è andato a buon fine, e di nuovo è difficile sostenere che sia dipeso dalla mancanza di intenzioni riformatrici. Queste intenzioni si sono variamente raccolte, in questi anni, con pareri sempre più autorevoli e commissioni sempre più sagge: la volontà politica, però, è un’altra cosa.

E qui, forse, sta lo strappo vero. Formalmente parlando, questo governo è infatti ancora un governo di larghe intese, rimpicciolite – come si sa – dal passaggio di Forza Italia all’opposizione. Il consenso sulla legge elettorale si è perciò ridotto, ma l’investimento politico, proprio perciò, è aumentato. Finora, il motivo del consenso largo non v’è dubbio che abbia avuto un effetto paralizzante sull’azione di governo: Renzi sta mettendo fine a questa liturgia. Prestando il fianco a due obiezioni: la prima, che in certe materie di rilevanza costituzionale quel consenso è indispensabile; la seconda, che quando invece si è proceduto senza ricercarlo si sono fatti disastri, come col Porcellum voluto dal centrodestra nel 2005, o come con la riforma del titolo quinto della Costituzione fatta dalla sola maggioranza di centro-sinistra, nel 2001. Ma c’è un ma, cioè una bella differenza. Quei passi venivano compiuti da maggioranze deboli, essenzialmente per mettere i bastoni tra le ruote agli avversari che si apprestavano di lì a poco a vincere le elezioni politiche. Era insomma un modo per inibire il gioco altrui, non per giocare meglio la partita. Renzi sta facendo un’altra cosa: sta provando a giocarla davvero, quella partita, e fino in fondo. La chiamano democrazia decidente, e non ci siamo abituati. Ovvio dunque che sollevi allarme, che susciti preoccupazione, che procuri qualche inquietudine: è una cosa nuova.

Ma su questa novità Renzi ha deciso di puntare, senza esitazione, senza bon ton istituzionale, senza neppure concedere agli avversari l’onore delle armi, bensì con sfrontata arroganza. Lo diceva lui stesso, durante le primarie: preferisco passare per arrogante che arrendermi. Beh, ci è riuscito. In questo modo sono sicuramente messi a dura prova gli equilibri parlamentari, ma non perché il fascismo sia alle porte, non perché ci ritroviamo in una democrazia priva di contrappesi, e neppure perché si introduce così un presidenzialismo di fatto: tutte storie. Non per questo, ma per il preciso significato politico da cui il passaggio è investito: il governo sta o cade con l’approvazione della legge elettorale. Renzi sta o cade con essa. Lo sa la maggioranza, lo sa la minoranza. Le disquisizioni sulle soglie troppo basse o troppo alte, sul premio di maggioranza troppo ampio, sul turno di ballottaggio con o senza apparentamento sono tutte «ben fondate», come dicono i tecnici, ma non toccano la sostanza della sfida.

Che si avverte nel partito di maggioranza più ancora che in tutto il resto del Parlamento. Ciò non avviene però a causa di quanto basso sia il tasso di «sinistra» che vi sarebbe in Renzi, ma per la difficoltà a stare oggi nei partiti, in tutti i partiti, in posizione di minoranza. Alzi la mano chi è in grado di trovarne una, di codeste minoranze, che non stia in realtà quasi sempre sul punto di andarsene da un’altra parte. Vale per il Pd come per Forza Italia (vedi Fitto), o per il Nuovo Centrodestra (vedi De Girolamo) o per la Lega (vedi Tosi). Inutile dire dei Cinque Stelle e della inflessibile pratica grillina delle espulsioni. Su questo terreno si può forse dire allora che difficilmente sarebbe per Renzi una vittoria la lacerazione definitiva del partito democratico. E non perché la minoranza del Pd troverebbe chissà quali spazi fuori dal partito – ipotesi francamente improbabile – ma perché non sarebbe una buona cosa dimostrare che quegli spazi non ci sono neppure dentro. Significherebbe che il Pd è riuscito a dotarsi di una forte leadership personale, ma non a renderla compatibile con una vera dialettica interna. Che è invece l’autentico contrappeso politico che al nostro sistema continua a mancare, e che nessuna legge elettorale è, da sola, in grado di procurare.

(Il Mattino, 29 aprile 2015)