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Le parole di Elkann. Il danno e la beffa dei giovani che non trovano lavoro

Acquisizione a schermo intero 22022014 122222.bmpPrima di commentare le parole con cui John Elkann ha criticato i giovani d’oggi, poco determinati a cercare lavoro, poco ambiziosi, poco desiderosi di emergere, converrà proporre qualche breve cenno biografico. Nato povero e privo di mezzi, Giovanni, detto John o Gioann dai suoi amici contadini della Langhe, è divenuto Presidente della Fiat grazie a una borsa di studio per studenti meritevoli ottenuta al termine della scuola dell’obbligo. Assunto come ascensorista con un contratto a tempo determinato presso una piccola azienda della cintura torinese, è riuscito a mantenersi agli studi grazie al suo umile lavoro. Sgobbando dodici ore al giorno, ha conquistato la stima del padroncino, che lo ha presto promosso applicato di segreteria per via della sua bella calligrafia. Di lì è stato un turbinio di successi: passato all’ufficio legale della Fiat come praticante, in pochissimi anni ha raggiunto i vertici del gruppo torinese, senza mai dimenticare le sue umili origini. Oggi, forte dei successi ottenuti solo grazie al suo impegno indefesso e senza alcun aiuto da parte della famiglia, guardandosi indietro e ripercorrendo la sua incredibile storia, fatta di sacrificio personale e spirito di abnegazione, può insegnare – a quelli che, proprio come lui, vogliono farcela – che nella vita conta solo il carattere: non la fortuna, non i natali, non le amicizie o le parentele, e soprattutto non tutte quelle balle che l’istituto nazionale di statistica va diffondendo sulla disoccupazione giovanile, sulle difficoltà di accesso al credito, sul prodotto interno lordo o su non so cos’altro.

Il lavoro c’è: basta cercarlo, spiega Elkann dall’alto della sua esperienza. Senza fare troppo gli schizzinosi, come direbbe la Fornero, e senza neppure starsene in panciolle a casa come bamboccioni, per dirla invece con Padoa-Schioppa. E a quelli che tirano fuori la storia secondo cui questa è forse la prima generazione a cui non possiamo promettere un futuro migliore del presente, John Elkann obietta, con la sicurezza dell’uomo che si è fatto tutto da solo e non deve dire grazie a nessuno: «Abbiamo più opportunità di quelle su cui potevano contare i nostri genitori». Sociologici ed economisti, storici e giuslavoristi si affannano a ragionare sulla crisi, cercando chissà quali ricette, ed ecco che John, con semplicità disarmante, se ne esce con la mancanza di determinazione delle giovani generazioni. Che il lavoro non lo cercano, non sia mai: loro lo vogliono servito comodo sotto casa e senza nemmeno una goccia di sudore da versare. È colpa loro, insomma. Perché Elkann, per quanto si sforzi, proprio non vede «una situazione di bisogno», vede piuttosto che «non c’è ambizione». In poche parole: non fingete, vi sta bene così.

Le parole di commento, allora. Solo due: cornuti e mazziati. Oppure: oltre il danno la beffa. Oltre il danno della disoccupazione, oltre stipendi tra i più bassi d’Europa, oltre, qui al Sud, la necessità di emigrare – necessità che però Elkann potrebbe presentare come piacere di esplorare il mondo verso nuove avventure – ci sta pure la beffa del capitalista (si può usare la parola?) che ti addossa la colpa di non sbatterti abbastanza per cercare lavoro. Alla prossima intervista, c’è caso che Elkann si inventi le «workhouses», istituti di correzione per fannulloni sfaccendati e senza lavoro, a cui imporre coattivamente prestazioni d’opera sottopagate. Così offerta e domanda di lavoro finalmente si incontreranno di nuovo. È una buona idea, la ebbero in Inghilterra nel ‘600, e aveva due pregi: colpevolizzava i poveri, e produceva manodopera a basso costo. Cosa si può volere di più?

Niente. Qualcosa di meno, forse. Ricordate Bartleby, lo scrivano di Hermann Melville, quello che, impiegato come copista in uno studio legale, comincia a un certo punto a rifiutarsi di svolgere le sue mansioni, e a furia di ripetere «preferirei di no» si lascia addirittura morire? Bene: John Elkann lo taccerebbe di fannullaggine, o di neghittosità, senza scorgere in quel rifiuto alcuna traccia di una critica radicale alle condizioni di lavoro e di vita moderne. Preghi allora Elkann che nelle aziende che presiede nessuno incroci le braccia e cominci a dire «preferirei di no», come Bartleby; trovi anzi un altro modo per rivolgersi alle giovani generazioni. Che per fortuna ancora preferiscono o preferirebbero di sì: preferirebbero – e come! – lavorare, preferirebbero pure arricchirsi, mettere a frutto i loro talenti, costruire una società migliore e un mondo più giusto, e invece debbono sperare che le borse di studio non si riducano ulteriormente, che si trovi uno straccio di contratto anche come ascensorista, che le ore di lavoro siano regolarmente retribuite, e che ce la si possa fare anche senza santi in paradiso. Proprio come ha avuto non la fortuna ma senz’altro il merito di farcela John o Gioann Elkann, l’umile contadino delle Langhe divenuto Presidente della Fiat.

(Il Mattino, 17 febbraio 2014)