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Qualche domanda alla sinistra

dylan dog

Quello che si legge in questi giorni a proposito di Tiziano Renzi e Luca Lotti proviene pari pari da note informative stese dai carabinieri: c’è qualcuno che veda un problema, in questo? C’è qualcuno, in questo Paese, che ne tragga un motivo di preoccupazione, qualcuno che osi domandarsi cosa vi sia di liberale, in tutto questo, a quale civiltà giuridica appartenga tutto questo?

Domande da Cassandra, dubbi che nessuno ascolta. Tutta l’intellettualità democratica, di sinistra e perbene prova di nuovo il piacere sottile di mettersi dalla parte della ragione, della morale e della giustizia per dare addosso al potente finalmente sbalzato di sella. Il meccanismo del capro espiatorio scatta ancora una volta. Siccome a prendere la parola sono garantisti a tutto tondo, non mancano mai di aggiungere con il giusto sussiego che i giudizi che rendono prescindono dagli sviluppi giudiziari della vicenda e prendono in considerazione solo l’opportunità politica. E dopo questa premessa chiedono, con finta pensosità: è opportuno questo gran daffare di papà Renzi? È opportuno circondarsi di amici d’infanzia, piazzarne uno qua e uno là? Sono opportune certe frequentazioni, certi incontri, certi finanziamenti? Tutto ciò è inopportuno, si dice. Ma non ci si chiede mai se non sia assai più inopportuno – anzi: profondamente guasto e nocivo per il Paese – alimentare queste domande con le carte passate dai carabinieri. Perché di questo si tratta: non di riscontro o di valutazioni di un giudice terzo, non di intercettazioni che inchiodano a una qualche responsabilità, ma, appunto, di informative, cioè di atti interni all’indagine in cui gli investigatori avanzano sospetti e ipotesi che vengono diffusi prima ancora di acquisire lo status di prove.

Lo spaccato che le indagini offrono appartiene senz’altro alla sociologia del potere politico italiano, e non dice gran che di nuovo. Fornisce se mai la radiografia di una democrazia immatura, asfittica, in cui la tanto famosa circolazione delle élite non manca mai di incepparsi, in cui le relazioni informali, amicali, personali, mantengono una forte vischiosità, in cui piccole ambizioni attecchiscono tenaci e spesso finiscono col sovrastare ogni sincera idealità. Ci sono ovunque – non solo nella società politica ma pure nella società civile – i cerchi magici, i raggi magici, i gigli magici. E dalla politica si vorrebbe che se ne spazzassero via un bel po’.

Ma regolare i conti grazie alle informative delle forze di pubblica sicurezza è un’altra cosa. Alzare la voce e dire la propria dopo l’ennesima propalazione di segreti investigativi tutt’altra cosa. Così ogni discrimine salta, ogni garanzia è travolta. In un regolare processo, qualcuno avrebbe già chiesto: ma i soldi di cui Romeo parla o scrive, dove sono? Qualcuno li ha trovati? È sufficiente che qualcuno provi ad avvicinare una persona per considerarla avvicinata? Basta che qualcuno dica di vedere cosa può fare per considerare la cosa fatta? Non lo è, ovviamente. Ma quando monta la canea, queste appaiono domande ipocrite, distinzioni da Azzeccagarbugli, scrupoli causidici degni di un vecchio gesuita imbroglione. Già: siamo tutti severissimi giansenisti, con la reputazione degli altri.

Nel frastuono che così si produce è ridotta a un filo la voce di Cassandra che ammonisce: badate che non sono prove, non sono processi, non sono sentenze, sono resoconti di indagini che aspettano ancora di essere valutati dalla stessa magistratura, atti che non solo non è detto che reggano in un tribunale, ma che in un tribunale non è neppure detto che arrivino.

Su cosa allora dovremmo regolare il tono della nostra indignazione? Sulle trattorie in cui qualcuno dice, parola sua, di aver visto Tiziano Renzi infilarsi quasi di soppiatto per confabulare segretamente, o sul modo in cui cresce e si alimenta la campagna di stampa, e sugli effetti politici che produce, indipendentemente da eventuali, futuri esiti processuali? Cosa dovrebbe starci più a cuore, che nei prossimi giorni arrivino sui giornali montagne di intercettazioni che inchiodino finalmente i politici alle loro responsabilità, o che il normale corso della vita politica del Paese non sia messo un’altra volta a soqquadro dalle inchieste della magistratura, prima che vengano concluse e in qualunque modo si concludano? E qual è, in definitiva, l’abito che ci piacerebbe indossare, la psicologia con cui volentieri ci identificheremmo: quella dell’inflessibile pubblico accusatore, o quella del mite avvocato difensore?

Questa domanda rivela più di ogni altra di quali umori viva l’attuale momento storico, credo. La verità è che la democrazia dovrebbe, per sua natura, patrocinare la causa dei deboli. Siccome non esercita più questa funzione, o la assolve molto poco, i risentimenti e le invidie che si accumulano si scaricano sul sistema della giustizia. Non potendo la democrazia essere a difesa dei deboli, si fa della giustizia il luogo in cui si accusano i forti (o quelli che appaiono tali).

Ma non è uno scambio salutare, né conveniente, né liberale. Anche perché lascia in realtà i cittadini sullo sfondo, nella sadica posizione dello spettatore, mentre sulla scena (e dietro di essa) si consuma il vero regolamento di conti.

E quando per giunta sarà finito, nessuno ci garantisce che non ci sveglieremo – noi, non Lotti o Renzi – nello stesso, triste mattino di Josef K., che venne arrestato perché qualcuno, ma non si seppe mai chi, doveva averlo diffamato.

(Il Mattino, 4 marzo 2017)

Indovina indovinello

Il sonno turbato degli italiani, è il titolo dell’articolo di oggi. In cui tutto è esplicito e solo una cosa è implicita:

Come avete dormito, stanotte? Male? Come voi, il 6 luglio del 1916, Franz Kafka non dormì affatto bene. Sul suo diario annotò: "Insonnia, mal di testa, salto dalla finestra, ma sul terreno molle di pioggia dove il colpo non sarà mortale. Infinito rigirarsi ad occhi chiusi, offerto a un qualunque sguardo sincero".
Chissà cosa aveva da chiedere Kafka a uno sguardo sincero, che ne osservasse, nella notte insonne, gli agitati movimenti: forse una tregua dai sogni senza sonno che lo assillavano; forse il soffio di quella irraggiungibile pietà che nei suoi racconti non carezza mai il volto dei protagonisti. Dio del sonno, fammi dormire, pregava Kafka in silenzio. Lascia che io scivoli finalmente nelle tue accoglienti braccia, e che per qualche ora non conservi più neanche una goccia, neanche un’oncia dei ricordi e dei pensieri del giorno.
Ma soprattutto: chissà se quella notte faceva caldo come in queste opprimenti notti di luglio. Perché, in tal caso, l’insonnia metafisica del grande scrittore, a 125 anni dalla sua nascita, sarebbe bella e spiegata. Come si fa, infatti, a dormire con il caldo soffocante, l’umidità, l’afa, le lenzuola appiccicose, il cuscino sudaticcio? Come si fa a mantenere la calma e a non perdere la pazienza, se l’uno vuole la finestra spalancata e l’altra non sopporta la luce né i rumori della strada? Se uno vuole il ventilatore puntato alla massima velocità contro il letto, e l’altra lamenta che fa male, che così le vengono i reumatismi? Se uno smania e non smette di rigirarsi come Kafka nel letto – però non ad occhi chiusi; però senza preghiere ma anzi tra molte imprecazioni: che speriamo i bambini, di là, non sentano – e l’altra invece riesce a starsene accucciata in un angolo del letto, con una strategia di resistenza riconducibile, per imperturbabilità, più al taoismo cinese che alle radici cristiane dell’Europa?
Cosa turba il sonno degli italiani? Non c’è da avere molta fiducia nei sondaggi, particolarmente quando chiedono di scegliere tra risposte preconfezionate: l’eliminazione agli Europei di calcio; l’aumento del prezzo della benzina e il carovita; i figli, la scuola, la sicurezza, la droga. Se però l’istituto demoscopico di turno facesse le sue telefonate agli uomini insonni a cui non dà requie né la poltrona a sdraio sul balcone, né la birra ghiacciata nel frigo, la maggioranza assoluta delle risposte cadrebbe senz’altro sulla calura madida di sudore dei nostri corpi disfatti. E sulle zanzare-tigre, che una foresta di basilico sul davanzale o ettolitri di citronella non riescono a tenere lontane.
Come vorremmo poter dare la colpa all’inettitudine dell’opposizione o alla strafottenza di Berlusconi! E invece no: se non dormiamo è solo per i troppi gradi centigradi. O piuttosto: per questa benedetta temperatura percepita, come da qualche anno abbiamo imparato a ripetere. Sembra quasi che se non sopportiamo il caldo, dal momento che a percepire siamo appunto noi stessi e nessun altro, sia colpa non del sole, non dell’afa, non – che so io? – dell’effetto serra, ma nostra e soltanto nostra, che ci ostiniamo a percepire.
Non sapete di cosa poi sono capaci, gli uomini che non hanno dormito tutta la notte! La letteratura è piena di questi tristi sventurati, capaci dei più atroci delitti e dei pensieri più blasfemi sol perché un dio crudele ha tolto loro il sonno. Prendete il malvagio Macbeth, inseguito dai suoi delitti e da una voce che gli grida che non dormirà più, che ha ucciso anche il sonno! O prendete l’ateo Kirillov, ne I demoni di Dostoevskij: non c’è uomo più luciferino di lui, disperato sino al punto di assecondare i deliri omicidi di uomini che pure profondamente disprezza. Prendete, infine, il best seller di Jeffrey Deaver, Pietà degli insonni. Come diceva Pascal: con un titolo così, qualunque cosa ci sia scritta dentro, io la sottoscrivo.
Per fortuna, non siamo giunti ancora a simili nefandezze. Forse la temperatura salirà ancora, né mancheremo di consultare le previsioni metereologiche tre volte al giorno. Ma per il momento l’insonnia di noi italiani non genera ancora mostri. Solo sguardi pruriginosi, curiosità morbose, piccole indecenze, bravazzate e meschinità. Se solo si riuscisse a prendere sonno, a dormire otto ore di fila; se anche i primi ministri dormissero di più, e solerti funzionari origliassero di meno, con buona pace dell’anticiclone delle Azzorre staremmo tutti un po’ meglio.