
P. Mondrian, New York City I (1942)
È possibile prevenire la guerra con lo strumento del diritto? È possibile che le controversie internazionali non siano più decise con le armi, ma affidate a, e risolte da, un tribunale internazionale permanente? È possibile che l’aggressione militare a uno Stato straniero sia non solo contemplata tra i crimini sui quali abbia competenza un simile tribunale, ma anche effettivamente scoraggiata dalle conseguenze penali di una simile azione? Il progetto cosmopolitico di una giustizia penale internazionale prova a rispondere affermativamente a queste domande. E non solo a queste, ma a tutte quelle che sono legate all’obiettivo ultimo di perseguire legalmente, sulla base di quegli stessi principi di giustizia che sostengono la repressione penale negli Stati liberaldemocratici, l’esercizio del potere che si macchia di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro la pace. A questo progetto è dedicato l’importante libro, davvero imprescindibile sull’argomento, di Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali (Castelvecchi, p. 334, € 25). Diviso in tre parti, il libro affronta anzitutto l’evoluzione e gli scopi della giustizia penale internazionale in una prospettiva storica; presenta quindi, con dovizia di particolari e finezza di analisi, alcuni dei più clamorosi processi svoltisi negli ultimi vent’anni a carico di leader politici e capi di Stato come Augusto Pinochet, Slobodan Milosevic, Saddam Hussein: offre infine una valutazione assai informata sul futuro possibile di una giustizia penale internazionale.
Gli autori non si nascondono nessuna delle difficoltà che un tale progetto presenta: difficile recidere il cordone ombelicale che lega le corti di giustizia internazionali agli Stati o alle organizzazioni che le hanno istituite; difficile mettere le corti nella condizione di esercitare effettivamente la loro giurisdizione; difficile predisporre un tessuto autonomo di norme e di procedure sulla cui base operare; difficile perseguire tutti i crimini perpetrati, e difficile dunque che l’azione penale non appaia orientata in maniera parziale e altamente discrezionale. Tutte queste difficoltà non intervengono tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico, per la resistenza che oppongono gli Stati (e i loro governanti) a farsi giudicare da un giudice terzo, accettando così una limitazione della loro potestà monocratica. Basti pensare anche solo al fatto che l’attuale Corte penale internazionale, operante già da un quindicennio, ha l’adesione di più di centoventi Paesi, ma non della Cina, dell’India, della Russia e degli Stati Uniti: chi comanda il mondo, non vuole essere giudicato. È la perenne lezione del realismo politico.
La prospettiva di ricerca di Archibugi e Pease si situa lungo il prolungamento di una linea cosmopolitica, che al potere sovrano dello Stato (il più gelido di tutti i mostri, diceva Nietzsche) vorrebbe in realtà tagliare le unghie. Le sue stelle polari si trovano nel progetto di pace perpetua di Immanuel Kant e nell’internazionalismo giuridico di Hans Kelsen. Ma si prova ad andare anche oltre: finché infatti, scrivono gli autori, “la giurisdizione universale è esercitata da magistrature statali, e i tribunali internazionali sono il risultato di complesse negoziazioni intergovernative” sarà illusorio pensare di costruire “un autentico contropotere rispetto alle istituzioni statali”. Invece però di rassegnarsi di fronte all’illusione, Archibugi e Pease sostengono la necessità di accompagnare il processo verso una giustizia internazionale più giusta dal basso, attraverso la costruzione di una opinione pubblica orientata in tal senso.
Illusione anche questa? Può darsi. Però resta una domanda, che dal processo di Norimberga ad oggi rimane decisiva: dati tutti i limiti, le insufficienze e finanche le ipocrisie della giustizia internazionale, preferite che questa trama giuridica si spezzi del tutto, che non vi siano più corti internazionali, che i criminali di guerra non vengano giudicati (ma sommariamente giustiziati o sbrigativamente amnistiati), o vi augurate invece che si rafforzi e si ampli la giurisdizione internazionale? Non sarà realistico prendersi anche quel poco che queste corti sono finora riuscite a fare, per provare ad ampliarlo un po’ di più?
(Il Mattino, 7 ottobre 2017)