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l’Italia in surplace vive nel passato

La colpa è tutta della lingua tedesca, che crea con tanta facilità le parole lunghe e maleducate che spiacevano a Massimo Troisi, eppure sono quelle che hanno consentito allo storico delle idee, Reinhart Koselleck, di descrivere l’esperienza del tempo storico tipica della modernità in termini di: democratizzazione, temporalizzazione, accelerazione. Democratizzazione: la tradizione europea, passando nel lessico moderno, è stata riformulata in base al principio di uguaglianza che presiede alla costituzione degli ordinamenti democratici. Temporalizzazione: gli uomini scoprono in età moderna di appartenere non alla natura (o a Dio) ma alla storia, confidano perciò nel progresso e convertono l’ordinaria apprensione del presente in una fiduciosa prognosi del futuro. Prendono così ad avere una singolare fretta: prima lasciavano che il tempo scorresse sempre uguale, adesso si aspettano che tutto cambi, e cercano in ogni modo di accelerare il cambiamento.

Orbene: quanta parte della spinta storica descritta dalle parole di Koselleck è ancora percepibile nel paesaggio politico attuale? Ben poca, in realtà. La democrazia arranca: è ancora l’orizzonte della politica contemporanea, ma sempre meno si confida in essa per coltivare progetti di giustizia o di emancipazione. Anzi: le sue istituzioni sono minacciate da poteri non democratici che la svuotano di effettività, e intanto quasi nessuno si sogna oggi di esigere più ampi processi di democratizzazione della società: non nella scuola o nell’economia, non negli stili di vita e di consumo o nell’accesso all’informazione.

Quanto alla prognosi del futuro, è decisamente appannata. Non si tratta del fatto che è difficile immaginare come andranno le cose, ma è la nostra immaginazione che appare stanca e spossata, e le stesse previsioni, salvo quelle meteorologiche, suscitano sempre meno interesse. Quelli che guardano al futuro con ottimismo si contano sulle dita di una mano, e perfino i profeti di sventura hanno cambiato mestiere: niente apocalittici, tutti integrati. Negli anni settanta, il grande antropologo Ernesto De Martino raccoglieva materiali sulla fine del mondo: una mutazione antropologica era in atto, o almeno così si diceva. Finita la civiltà contadina, l’Italia entrava d’un balzo nel lotto dei paesi più industrializzati, e gli studiosi si interrogavano sgomenti sul significato di un simile passaggio d’epoca. Oggi, dal crollo delle Torri gemelle alla crisi finanziaria mondiale, motivi ce ne sarebbero per domandarsi in quale nuova età stiamo entrando, ma nessuno tenta un soprassalto di coscienza e di riflessione, e oltre lo sguardo annoiato al telegiornale o la navigazione compulsiva sul web non si va. Come se ad incuriosirci fosse oramai solo il futuro tecnologico: non che ne sarà dell’Italia o dell’Europa, non se la democrazia sopravviverà all’urto della globalizzazione, non se le migrazioni muteranno la composizione demografica del paese, ma se Steve Jobs abbia o no lasciato per noi nel cassetto l’iPhone5 o l’iPad3. L’onda emotiva sollevatasi alla sua morte è lì a confermarlo.

Figuriamoci allora se sia il caso di parlare di accelerazione. Chi volete che acceleri, se siamo invece in piena frenata? Quali sono le forze (politiche, imprenditoriali, culturali) a cui affidiamo se non i lineamenti del futuro, almeno la scommessa sul presente? In condizioni di forte mobilità sociale, oppure di crescita economica, o anche di rinnovamento dei linguaggi artistici e letterari, vi sarebbero fiches da mettere sul tavolo; ma è come se il croupier avesse già detto «rien va plus» e noi fossimo rimasti con le fiches in mano, senza neanche fare la puntata. La pallina continua a girare, ma non per noi.

Non per l’Italia, che non ne azzecca una da un bel po’, ma forse neppure per l’Europa. Nella geopolitica delle emozioni di Dominique Moisi, è l’intero Occidente che vive ormai a rilento, paralizzato dalla paura, mentre la speranza se n’è volata altrove: in Asia, ad esempio, dove c’è ancora tanto da temporalizzare, accelerare, democratizzare (quanto al mondo arabo, lì la tonalità emotiva dominante è l’umiliazione, e quindi: risentimento e voglia di riscatto). Ma se le cose stanno così, la prognosi forse è ancora incerta ma la diagnosi no: pensiamo di vivere al presente ma in realtà ci muoviamo tra cumuli di passato, dal momento che non sembriamo più in grado di costruire un futuro.

Com’è che diceva Troisi? Ricomincio da tre. Beh: da due o da tre, lui almeno ci provava, perché sapeva bene che l’importante, comunque, è ricominciare. E noi?

(Il Mattino, 12 ottobre 2011)