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La sindrome di accerchiamento

chess-king-rounded-up-11366369Caravaggio non va più al Quirinale e Napoli esulta: come se De Laurentis non avesse ceduto Higuain alla Juventus. L’idea che l’esposizione della tela  presso il Palazzo del Quirinale avrebbe significato una sconfitta per la cultura partenopea è contraddetta non da sofisticati ragionamenti intorno all’essenza dell’opera d’arte, ma dalla natura dell’oggetto: una tela. Cioè un oggetto trasportabile (con tutte le cautele del caso). Ora i promotori della campagna si compiacciono della sensibilità dimostrata da Mattarella, dopo aver dipinto l’iniziativa del Quirinale alla stregua di una razzia napoleonica. In realtà, la lettera che è venuta dal più alto Colle non dice nulla dei profondi motivi che hanno spinto tanti illustri intellettuali ad ergersi a difesa del quadro e della cappella del Pio Monte: non si parla di intangibilità del quadro, né di complementarità e inscindibilità fra il quadro e la cappella, fra la cappella e il quartiere, fra il quartiere e la città. Anzi, nessuna parola diplomatica attutisce, nella lettera del Quirinale, la mera presa d’atto  delle polemiche insorte.

Però si sono usati argomenti altisonanti, del tipo: un’opera d’arte di tale pregio non può essere decontestualizzata. Come se il  tempo, il grande decontestualizzatore, non l’avesse fatto già e non lo facesse ogni minuto, spostando Caravaggio e la sua tela fino a noi. O come se a decontestualizzare un’opera non bastasse una fotografia – che infatti campeggiava sulla prima pagina del Corriere del Mezzogiorno, proprio mentre il giornale celebrava il trionfo della sua coraggiosa campagna.  O come se infine la tela di Caravaggio non fosse forte abbastanza da potersi leggere in contesti diversi da quello originario. Se così fosse, d’altronde, perché non proibirne la visione ai non napoletani? Cosa volete che ne sappiano loro, gli americani o i tedeschi, del contesto partenopeo che solo rende riconoscibile e apprezzabile il quadro?

In realtà, non c’è bisogno di avventurarsi in difficili questioni ontologiche per riconoscere preoccupazioni di ben altra natura in questa difesa accorata dell’autoctonia dell’arte. E cioè, principalmente, il timore che in nome del profitto si possa violentare una città, strappandole i suoi più capolavori. Credo anzi che più dell’intangibilità dell’opera d’arte fosse in gioco la tangibilità del vil denaro, cioè la sua capacità di toccare e prendersi ogni cosa. In prestito, d’accordo: ma l’offesa ci sarebbe stata tutta lo stesso.

Forse non è il caso di scomodare Andy Warhol, che per colmo di provocazione diceva che far soldi è un’arte, anzi la migliore forma d’arte, però Warhol da Napoli è passato, e s’è tolto pure lo sfizio di decontestualizzare il Vesuvio e il terremoto.

Il fatto è che un simile riflesso difensivo, una tale paura di essere depredati dei propri tesori è il segno più palese di un grave ripiegamento culturale della città, o perlomeno di una parte non piccola del suo ceto intellettuale. Arroccarsi a difesa del Pio Monte: un’idea regressiva dell’opera – e del suo rapporto con il mercato, le istituzioni e il mondo dell’arte – si è sposata questa volta con un’immagine altrettanto regressiva e idiosincratica della città. La stasi contro il movimento: il quadro non si deve muovere. La terra contro il denaro: quel quadro si può esporre solo nella sua terra. L’origine contro il divenire: l’unico luogo in cui il quadro può stare è quello originario. Si potrebbe continuare, e ogni volta si troverebbe in ciò che è esterno e viene da fuori il principio di ogni corruzione e di ogni espropriazione.

È sicuramente esagerato vederci una metafora della fase che sta attraversando la città, tra sindrome di accerchiamento e proclami di resistenza contro le istituzioni della Repubblica. Però qualche dubbio viene, se tanti uomini di cultura vivono quasi come un furto alla città il prestito di un suo bene. E a quelli che pensano che bisogna venire a Napoli per vedere Caravaggio e Le sette opere di misericordia bisogna rispondere che si viene a Napoli se e solo se anche Napoli va per il mondo. È sempre stato così: con la musica, il teatro e la cucina. Certo, è verissimo che come si fa il ragù a Napoli, o la pizza, da nessun’altra parte mai. Ma che nel mondo ci siano pizzerie a Napoli di certo male non fa.

(Il Mattino, 24 febbraio 2016)