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Gli ultimi fuochi di una legislatura a luci e ombre

lorenzetti

Non è stata una legislatura buttata via, né forse il Paese se lo sarebbe mai potuto permettere. Ma le condizioni da cui ha preso le mosse non facevano certo sperare per il meglio, visto che dalle urne non era uscita alcuna maggioranza omogenea, e visto che nel Palazzo entravano per la prima volta, prendendo più voti di tutti gli altri partiti, i Cinquestelle, quelli che avrebbero voluto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno.

Si sono succeduti ben tre governi – Letta Renzi Gentiloni –, tutti a guida Pd, ma si sono dissolte, già nel 2013, le coalizioni che si erano formate prima del voto: subito è andata in fumo quella di centrosinistra, con Sinistra e Libertà che non è entrata nel governo di larghe intese guidato da Enrico Letta; qualche mese dopo è finito invece il Popolo della Libertà, con la decadenza dal Senato di Silvio Berlusconi, che esce dalla maggioranza, e la decisione di Angelino Alfano di continuare ad appoggiare il governo, dando vita al Nuovo Centrodestra.

L’altra, grande frattura si è prodotta sul finire dello scorso anno, con la sconfitta al referendum della riforma costituzionale fortemente voluta da Matteo Renzi. E avversata in misura abnorme da larghi settori del mondo politico e intellettuale come una involuzione autoritaria del sistema istituzionale. Anche l’Italicum – la legge elettorale presentata in “combinato disposto” con la riforma costituzionale – non è andato in porto, e al suo posto abbiamo oggi una legge, il Rosatellum, che ci restituisce il proporzionale senza però darci la cultura e i partiti politici che l’avevano degnamente interpretato nel corso della prima Repubblica: da questo punto di vista, la XVII legislatura lascia l’Italia in mezzo al guado, in un quadro politicamente pieno di incognite e senza chiare indicazioni sulla strada da intraprendere per dotare il Paese di un set di regole efficace e condiviso.

Il partito democratico ha portato, nel corso di questi anni, il peso principale dell’azione di governo. Per quasi tre anni, l’inquilino di Palazzo Chigi, Renzi, è stato anche il segretario del partito: una situazione che a sinistra non si era mai verificata. Di qui gran parte delle tensioni che hanno attraversato il campo del centrosinistra, fino alla scissione promossa da Bersani e D’Alema. Ne viene anche che il giudizio sulla legislatura è prevalentemente un giudizio sull’operato del governo Renzi, anche se il governo Gentiloni, con il calo crescente di popolarità di Renzi, ha guadagnato col passare tempo una sua propria fisionomia.

Con uno stile più morbido e meno battagliero del suo predecessore, Gentiloni ha proseguito in larga parte il lavoro del precedente Ministero – del quale è stato a lungo parte come ministro degli Esteri –, dando forse un segno più marcato soprattutto in fatto di politiche migratorie. Il ministro Minniti è riuscito a limitare il numero degli sbarchi, e a imporre una diversa attenzione al tema da parte dell’Unione Europea. Nell’ultimo scorcio di legislatura il Pd ha provato a far passare anche la legge sullo ius soli, ma non essendovi le condizioni politiche (per l’ostilità di Lega e Cinquestelle in particolare, e le forti perplessità degli alleati centristi) la legge non è passata. Un provvedimento del genere forse non poteva essere infilato nella coda della legislatura: resta però un punto discriminante tra le forze politiche e per il lavoro del prossimo Parlamento.

In tema di diritti, il centrosinistra ha portato a casa alcuni, rilevanti risultati: il biotestamento e la legge sulle unioni civili sono i più significativi, visto che se ne è cominciato a parlare diverse legislature fa. Materie a lungo e a tal punto controverse, che il centrodestra ha prontamente dichiarato di voler fare macchina indietro, qualora tornasse in futuro ad avere la maggioranza. Ma anche la legge sul dopo di noi, quella sul divorzio breve, o quella contro il caporalato meritano di essere ricordate.

Altri capitoli dell’attività di governo attirano un giudizio più contrastato. Due riforme hanno in particolare segnato la legislatura: il jobs act e la buona scuola, spesso finite al centro della discussione sull’operato dell’esecutivo Renzi.

L’intervento sul mercato del lavoro è stato il più incisivo che sulla materia sia stato attuato dai tempi della riforma del 1970. E i numeri sugli occupati danno ragione al governo. La battaglia sul jobs act ha assunto però un significato ideologico – pro o contro l’articolo 18 – a prescindere dall’obsolescenza del sistema delle tutele. La realtà è che difficilmente i futuri governi potranno ritornare allo status quo ante, al di là di dichiarazioni elettorali di facciata. È tuttavia rimasto incompleto il capitolo delle politiche attive sul lavoro, che questa legislatura lascia dunque in eredità alla prossima. In tema di politiche sociali va riconosciuto al governo Gentiloni di avere da ultimo introdotto il reddito di inclusione, destinato a persone in condizioni di povertà: l’italia era rimasto uno degli ultimi Paesi UE a non avere una misura di questo tipo.

Diverso il discorso sulla buona scuola. Sono stati fatti investimenti cospicui, sia in termini di edilizia scolastica che di nuove immissioni in ruolo, dopo anni di inerzia. Ma  l’architettura normativa è risultata fragile, e i punti qualificanti del progetto – dal ruolo dei dirigenti scolastici all’offerta formativa – non hanno dato affatto il segno di un cambiamento effettivo. L’attenzione riservata alla scuola si è così tradotta in un cumulo di polemiche su cose pensate in un modo e realizzate in un altro: vale per i meccanismi assunzionali e vale per l’alternanza scuola lavoro. La stessa cosa è successa nel mondo della ricerca e dell’università: una vera inversione di tendenza si è registrata solo nell’ultima legge di stabilità, che ha finalmente destinato nuovi fondi per il diritto allo studio e per nuovi ricercatori.

Capitolo giustizia. È stato approvato il nuovo codice dei reati ambientali, è stata riscritto il diritto fallimentare, è passata la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma i nodi principali sono ancora tutti lì: il ricorso abnorme alla custodia cautelare (nonostante le nuove disposizioni di legge), la piaga delle intercettazioni a strascico e la loro diffusione indiscriminata, l’allungamento dei tempi della prescrizione. Da ultimo la brutta pagina della riforma del codice antimafia, che contrasta apertamente lo spirito liberale e garantista con il quale il governo Renzi aveva inizialmente annunciato i suoi 12 punti di riforma sulla giustizia. Sul piano ordinamentale, poi, è rimasta al palo la riforma del Csm, e anche la responsabilità civile dei giudici, riformata, sembra lasciare sostanzialmente le cose come prima.

Sul versante della politica estera, l’Italia ha mantenuto immutati i suoi tradizionali riferimenti: più facile farlo ieri per la coppia Renzi-Gentiloni, che si confrontava con Obama alla Casa Bianca, che non oggi per Gentiloni-Alfano, che hanno come dirimpettaio Donald Trump. Ma è in Europa che l’Italia deve misurare la sua capacità di influenza. Il ruolo che il Paese può giocare dipende da una credibilità che ha in parte riconquistato, dopo il punto più basso toccato nel 2011, ma che in altra parte deve ancora riguadagnare, riuscendo a incidere su un rinnovato percorso di integrazione europea. La legislatura che verrà sarà decisiva per lo schieramento europeista, che non può contentarsi di sventolare bandiere ideali, ma dovrà offrire riposte effettive su tutti i terreni sui quali costruire una nuova identità europea, dalla difesa comune alle politiche fiscali alla riforma delle istituzioni europee.

La legislatura non è stata buttata via, dicevamo all’inizio. Qualcosa si è mosso, e le condizioni economiche in cui il governo Gentiloni lascia il Paese sono migliori di quelle in cui l’ha trovato il governo Letta, quasi cinque anni fa. La pubblica amministrazione rimane però una palla al piede del Paese, si è preferito sostenere la domanda interna con i bonus anziché elevare gli investimenti pubblici, e la spesa pubblica improduttiva continua a gravare sul Paese, nonostante la promessa spending review che doveva superare la filosofia dei tagli lineari.

Un bilancio sereno dovrebbe farsi su tutti questi terreni, ma è difficile che la campagna elettorale saprà offrircene l’occasione. La legislatura finisce con il tema banche sugli scudi, ma non per la (buona) riforma degli istituti popolari, bensì per le frequentazioni inopportune di Maria Elena Boschi. Se non è populismo questo.

(Il Mattino, 27 dicembre 2017)

 

 

 

 

 

 

Il solerte Di Maio e la liquefazione del potere

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A. Kiefer, The Red Sea (1985)

“Ossequioso e conformista, egli ragiona più o meno così: sono consapevole del fatto che nessuna verità si nasconde nell’autorità, tuttavia continuo a prendere parte alla messa in scena obbedendole, al fine di non compromettere il corso naturale delle cose”. Naturale o forse sovrannaturale, se sei vicepresidente della Camera e stai assistendo alla liquefazione del sangue di san Gennaro, nel giorno del santo patrono della città. Ma le parole citate non possono riguardare davvero Luigi Di Maio, dal momento che si trovano in un saggio del filosofo sloveno Slavoj Zizek di vent’anni fa. Le ha ripescate però, più di recente, Mauro Magatti, per tratteggiare la figura del trickster, del briccone divino, che nell’interpretazione del sociologo milanese diviene una sorta di “nichilista adattivo”, uno che non crede a niente ma sa adattarsi bene a qualunque situazione. Uno così può partecipare ai vaffa day fin dai suoi esordi ma anche indossare per un’intera legislatura la giacca e la cravatta dell’uomo delle istituzioni e, appena ufficializzata la sua candidatura nelle primarie grilline per la premiership, baciare compunto la teca contenente il sangue del Santo. “Per la prima volta”, confessa Di Maio, come se nessuno se ne fosse accorto che l’anno scorso, e l’anno prima, e quell’altro anno ancora, Di Maio nel Duomo non c’era.

Ma la sfrontatezza, si sa, è una caratteristica del trickster. La sfrontatezza o l’impudenza, insomma la capacità di dire le cose che si vogliono dire, vere o false che siano, con una imbattibile faccia di tolla. A momenti, il Movimento Cinque Stelle sembra tutto intero assumere questa caratteristica. Come quando avanza la proposta del referendum sull’euro (di cui da un certo momento in poi si sono perse le tracce), o come quando sposa le preoccupazioni complottiste e anti-vax, salvo poi infilarsi in una serie di complicate marce indietro.

Da che pulpito, si dirà. Luigi Di Maio che omaggia San Gennaro nei panni mai indossati prima del fedele, non viene dopo Silvio Berlusconi che racconta barzellette ai grandi della Terra, o dopo Renzi che sale al governo annunciando una riforma al mese? Non hanno anche costoro assunto i tratti del trickster? Non hanno indossato maschere, raccontato frottole, inscenato una parte?

Sicuramente. Ed è forse questo che colpisce di più: la presenza di un medesimo tratto su tutto lo spettro della politica italiana. Una cosa che non si riuscirebbe invece ad attribuire alla signora Merkel. La vediamo seria, sempre dignitosa, mai sopra le righe, mai tentata dalla buffoneria o dalla demagogia. Tutto il contrario dei nostri governanti (ma faccio salva la Presidenza della Repubblica, per la fortuna di tutti noi). Quando poi succede che persino due compassati ex Presidenti del Consiglio, Enrico Letta e Romano Prodi, dimenticano l’abituale misura e, intervistati da un comico, quasi si danno di gomito, lasciandosi andare a battutine maligne e un poco rancorose all’indirizzo di Renzi, allora vien fatto di pensare che qualcosa si è guastato in profondità, e che è sempre più difficile tenere compostezza di gesti, di posture, di parole.

Magatti componeva il suo ritratto del trickster anche con altre pennellate. Oltre alla capacità di mescolare disinvoltamente e con un certo cinismo il vero e il falso, il serio e il faceto, l’alto e il basso,  questo disinvolto furbacchione – a volte licenzioso (Berlusconi), a volte sbruffone (Renzi), a volte sussiegoso (Di Maio) –  è privo di un “significante padrone”, cioè di una posizione etica, di una stabile identificazione simbolica, di una parola alla quale legarsi e che si è in grado di mantenere. E qui, in verità, sospetto che c’entri meno il carattere dei singoli e molto di più la frana ideologica della seconda Repubblica, che non ha risparmiato nessun partito politico.

Ancora. Il trickster è affetto da presentismo, vive cioè in un tempo privo di profondità, tanto nella fedeltà al passato quanto nella promessa di futuro. Gioca ogni volta tutta la partita, come se non ci fosse nient’altro. E questo è Berlusconi che fonda un partito o una coalizione a ogni nuova legislatura,  Renzi che sceglie lo slogan “Adesso!”, ma anche i Cinquestelle che non vogliono più di due legislature per i loro parlamentari (vedrete: con le dovute eccezioni), e che soprattutto vogliono fare la rivoluzione domani mattina. Salvo accorgersi, per esempio a Roma, che è maledettamente difficile cambiare anche solo di poco questo Paese.

Al trickster di Magatti manca tuttavia un elemento, che c’è nella tradizione e nel mito. L’albero genealogico del briccone divino comprende infatti divinità come Hermes, e imbroglioni come Pulcinella. E a tutti presta una caratteristica, che è quella di frequentare zone liminari, di confine, dove le regole si fanno più deboli e si infrangono più facilmente, e dove però si fa esperienza non solo della loro sospensione o distruzione, ma pure di una possibile nuova creazione. Trickster è anche il personaggio che, con la sua furbizia o con qualche scorrettezza, fa andare avanti la storia e trova nuove imprevedibili vie. Questa forse sarà l’happy end della seconda Repubblica, se e quando ne saremo venuti fuori. Ma chi o cosa riuscirà nell’impresa, rimettendo in carreggiata il Paese, questo, purtroppo, ancora non si sa.

(Il Mattino, 20 settembre 2017)

Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

Renzi-Letta, il vecchio scontro e il centrosinistra del futuro

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Jean Paul Riopelle, Pavone (1954)

Non è dato sapere quanto durerà la bonaccia che tiene al largo la nave del governo Gentiloni, ma prima di arrivare nel porto naturale della fine della legislatura il premier dovrà affrontare più di un’insidia. Nei prossimi giorni, sono a tema il decreto banche, su cui i Cinquestelle stanno facendo ostruzionismo in Parlamento, e lo ius soli temperato che il suo partito, il Pd, vuole approvare in via definitiva, nonostante i malumori dei settori centristi della maggioranza. Per tutta l’estate terranno banco gli sbarchi dei migranti, e infine, dopo l’estate, si aprirà il capitolo della legge di stabilità, e su quella si può star certi che Mdp si smarcherà rumorosamente, lasciando che il governo cerchi i voti che dovessero mancare non a sinistra, ma in altri settori del Parlamento.

Gentiloni non è il mediocre capitano MacWhirr, il protagonista di «Tifone» di Joseph Conrad, «normale, indifferente, impassibile», di poche parole e di ancor meno emozioni, «disdegnato dal destino o dagli oceani», a cui la vita non aveva mai riservato prove estreme prima che si imbattesse nella tempesta perfetta (ma «come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Però come lui, dopo aver navigato per sette mesi in acque relativamente tranquille, deve affrontare «la forza disgregatrice di un gran vento» che, come diceva Conrad, «isola l’uomo dai propri simili».

Gentiloni e il suo governo non sono isolati: godono anzi dell’appoggio pieno della maggioranza. Ma il vento comincia a soffiare. Lo si è già visto alla direzione di Mdp, dove è parsa nettamente prevalere la volontà di prendere le distanze dal governo, ma ancor più lo si vedrà all’approssimarsi della scadenza elettorale. Per la neonata formazione di D’Alema e Bersani, infatti, c’è un solo modo di prendere voti: pescarli fra tutti coloro che, a sinistra, non vogliono più saperne del Pd di Renzi. In politica tutto è possibile, e dunque: dopo le elezioni si vedrà. Ma prima delle elezioni una posizione del genere è incompatibile con la permanenza al governo: scampate le elezioni anticipate, alle quali Mdp non è pronta, è molto probabile che si consumerà il distacco.

Sul significato di questo passaggio c’è però da dire qualcosa di più di quello che le cronache suggeriscono. Contano i posizionamenti suggeriti da una legge elettorale proporzionale, che spinge ad accentuare le differenze in prossimità del voto, e contano pure – è inutile fingere che non sia così – i rancori personali. Ma è sicuramente in gioco anche qualcosa di più. Vorrei dire: una diversa definizione del profilo di una forza di sinistra, che aspira al governo del Paese. Quando il Pd nacque, si sprecarono gli scetticismi sulla fusione a freddo e sul cattivo amalgama. La parte di ragione che vi era, in quegli esercizi di diffidenza, non stava tanto nelle distanze che ancora segnavano i rapporti fra i Ds e la Margherita, sul piano della cultura politica e dei quadri dirigenti, quanto in ciò, che la collocazione di una nuova forza politica discende piuttosto dagli «oggetti» a cui si applica: dai temi o dalle sfide su cui è chiamata a misurarsi. Quegli oggetti furono sottratti al Pd dalla rovinosa sconfitta alle elezioni del 2008. Fu quindi facile dedicarsi piuttosto, dall’opposizione, alla lotta politica interna (che portò in rapida successione da Veltroni a Franceschini, da Bersani a Renzi). Quando arrivò la prima prova di governo, essa fu condotta sotto lo stigma della necessità: con Monti e poi, in buona misura, anche con Letta. Solo con Renzi tutto è cambiato, e il fatto che lo abbia sgradevolmente ricordato al suo predecessore non riguarda solo la scarsa simpatia fra i due. Renzi aveva effettivamente una legittimazione politica molto più ampia di quella di cui godeva Letta. Forte del consenso ottenuto nelle primarie, aveva il compito di raddrizzare la barca, ma anche quello di definire la fisionomia del partito intorno a una vera sfida di governo: dalle riforme istituzionali al jobs act, passando per le altre misure in tema di politiche scolastiche o di politica economica. La rottamazione (giusta o sbagliata che fosse) è stata il mezzo, non il fine.

Lo smacco del 4 dicembre ha rimesso clamorosamente in discussione il percorso fin lì seguito da Renzi, ma proprio per questo egli è obbligato a riprendere la questione di cosa sia il partito democratico a partire, nuovamente, dagli «oggetti» su cui il Pd deve riuscire a dire la sua. E questa volta non si tratta di sceglierli, perché sono già lì, dati dalla linee divisorie che tracciano nell’opinione pubblica e negli schieramenti politici: anzitutto il tema dei migranti, quindi il tema della costruzione di un nuovo europeismo (nell’epoca segnata, con Trump, dal declino della forza ‘ordinatrice’ americana). Non c’è molto altro, nell’agenda dei prossimi mesi. Ma è abbastanza non solo per definire la rotta del partito democratico, ma anche per far sobbalzare la nave del governo.

«Sta arrivando del maltempo», pensò laconicamente MacWhirr all’approssimarsi del tifone. Ma, si abbatta o no sull’esecutivo, la bufera sarà comunque, per il Pd, la prova di cosa significhi essere di sinistra aspirando, insieme, alla guida del Paese. Perché l’altra strada, quella di essere, anzi sentirsi di sinistra al riparo da ogni burrasca, cioè indipendentemente dalle responsabilità di governo, si vede già cosa consente: che a dibattere ciarlieri sul futuro del mondo, della sinistra, del lavoro, si presentino quattro o cinque distinte formazioni, con l’unico collante (se mai verrà usato) dall’antirenzismo.

(Il Mattino, 13 luglio 2017)

La nuova sinistra alla prova dell’ambizione

ImmaginePrima c’è il voto, poi c’è la maggioranza, poi c’è il governo: questa è la fisiologia. Ma nell’emergenza in cui vive ormai da anni il sistema politico e istituzionale italiano, emergenza che ha raggiunto il culmine pochi mesi fa, con la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, la sequenza sembra essersi invertita, più per necessità che per scelta:  si individua così anzitutto quella personalità che, per indiscusso prestigio, è in grado di formare un governo e di raccogliere una maggioranza in Parlamento; si sottopone soltanto poi il suo operato al corpo elettorale (che in verità non sempre ha mostrato di gradire). Anche la spinta e l’impeto che sta conducendo Matteo Renzi alla guida del governo non proviene direttamente dal voto popolare, benché sia sostenuta dal grande consenso riscosso dal sindaco di Firenze nelle primarie del dicembre scorso: nei modi e nelle forme, il passaggio di consegne che in questi giorni si sta consumando non ci riporta dunque ancora dentro lo schema naturale delle cose.

Renzi ne è ben consapevole e, ieri, in Direzione, non ha nascosto la difficoltà. Difficoltà che però è, o è stata sin qui, nelle cose: nella incapacità delle forze politiche di riformare la legge elettorale, nelle forti pulsioni populiste e anti-sistema dei grillini, che sottraggono al gioco parlamentare più di un quarto dei voti espressi; nell’anomalia di larghe intese che non hanno retto ai pesanti strascichi giudiziari della seconda Repubblica; nella crisi economica, sociale e finanziaria che ha condotto il governo su un sentiero apparso obbligato, e tuttavia impervio e non percorribile ancora a lungo. Questo quadro non è affatto alle nostre spalle: in particolare, la Direzione del partito democratico di ieri non ha affatto chiarito quali nuove strade prenderà l’attività di governo, né ha potuto delineare la fisionomia di una nuova maggioranza a sostegno del primo governo a guida Renzi.

E tuttavia, tutto ciò detto e riconosciuto, ieri si è affermato un dato politicamente assai rilevante, che si farebbe un gran torto a sottovalutare, per esempio riducendo tutta la partita in corso a uno scontro tra persone. Renzi ha fatto bene a non smentire la sua «smisurata ambizione politica»: quale paese infatti vorrebbe essere guidato da uomini, forze, partiti, privi di ambizioni? Ma con un voto molto largo e convinto, che ha superato i confini della maggioranza congressuale, riducendo a poco più di una decina i contrari, il Pd ha accettato di condividere per intero quella ambizione, scartando soluzioni raccogliticce di scarsa tenuta, o improvvisi precipizi elettorali. Si è assunto con ciò il peso di una scommessa politica piena, che non si cela più sotto i velami strani di algidi governi tecnici, ma porta per la prima volta il suo leader alla più alta responsabilità di governo. Finora l’impresa era riuscita solo al centrodestra, con Berlusconi. Ora, dall’altra parte, è Renzi a provarci: è un fatto del tutto inedito nella storia del centrosinistra italiano. Che peraltro lo obbliga a dare la più difficile delle prove: quella dimostrazione di compattezza che neanche il centrodestra al governo ha saputo dare (rompendosi più volte: con la Lega, con Casini, con Fini, e via elencando).

Naturalmente, nessuno può dire se la scommessa sarà vinta o persa. Un fattore di rischio è sicuramente rappresentato da un’altra inversione con cui la sfida di Renzi dovrà misurarsi: finora, i rapidi progressi fatti sul terreno delle riforme istituzionali sono risultati inversamente proporzionali all’efficacia dell’azione di governo. Può darsi ora che accada il contrario: che la crescita della caratura politica dell’Esecutivo smorzi l’interesse di Forza Italia per le riforme, e dunque rallenti l’intero processo. Rischia cioè di cambiare il pedale su cui Renzi è chiamato a spingere di più.

Per la verità: non è detto che sia un male. Nessuno onestamente si augura che si fermi la riforma del titolo V o quella del bicameralismo, i due punti principali dell’intesa raggiunta da Renzi con Berlusconi. Ma, di regola, i governi si giudicano anzitutto sul terreno economico e sociale, ed è su questo terreno che Matteo Renzi, da domani, sarà giudicato.

E forse passerà per questa via anche un certo qual ritorno alla fisiologia dei rapporti politici. Con un governo nel pieno della sua forza politica, l’esercizio a fisarmonica dei poteri della Presidenza della Repubblica potrà lentamente ridursi, e questo potrà essere, anche per il Presidente Napolitano, un motivo di apprezzamento del nuovo corso.

(Il Mattino, 14 febbraio 2014)

Se il segretario si gioca tutto

ImmagineSe non fosse per il titolo, che si potrebbe prestare a equivoci e ironie, il film di queste giornate potrebbe essere raccontato alla maniera del primo Kubrick, quello di «Rapina a mano armata». Un colpo all’ippodromo, raccontato da punti di vista ogni volta diversi, con flash-back sincronici che costringono lo spettatore a rivedere più volte la stessa azione, da angolature e con sottolineature differenti. È quello di cui il cronista avrebbe bisogno, per muovere nello stesso, complicato scenario il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il segretario del partito democratico, più gli altri attori politici (il centrodestra di Alfano, i frammento del centro montiano, la minoranza Pd) relegati per il momento nel ruolo di comprimari, ma – come accade nel film – non per questo meno decisivi per la riuscita del colpo.

Il colpo è il nuovo governo. Allo stato, tutto o quasi sembra spingere in direzione di un incarico a Matteo Renzi. Le ipotesi alternative – il rimpasto, un nuovo governo Letta, il precipizio delle elezioni – non si sono ancora definitivamente consumate, ma appaiono ormai delle subordinate rispetto al piano principale, che prevede l’arrivo del sindaco di Firenze a palazzo Chigi. In verità, non si tratta di uno sbocco naturale dell’impasse che si è creato. Fino a qualche settimana fa, la doppia velocità dimostrata da Renzi nell’incardinare il processo di riforme, a cominciare dalla legge elettorale, sembrava legata essenzialmente alla distanza dall’attività di governo. Di qui in avanti, con Renzi al posto di Letta, non sarebbe più così, e anche se la maggioranza sul terreno delle riforme istituzionali continuerebbe a non coincidere con la maggioranza di governo, l’attore che proverebbe a incassare la parte più grossa del bottino delle riforme sarebbe d’ora innanzi soltanto uno e il medesimo: il Pd di Matteo Renzi. La vera questione è dunque se, con il passaggio delle consegne, il processo innescato da Renzi conoscerà un’accelerazione o non piuttosto un freno, da parte di chi (in primo luogo Berlusconi) aveva sin qui immaginato un diverso modo di partecipare all’impresa.

L’operazione presenta cioè dei rischi. Certo, Renzi può investire un capitale di fiducia e di consenso e una credibilità ancora intatta, e genererebbe di sicuro aspettative anche maggiori di quelle sin qui riposte sul governo Letta. Se l’operazione avrà successo, e dunque col senno di poi, si potrà anzi disegnare una sequenza Monti-Letta, partorita dall’emergenza dapprima finanziaria, quindi, dopo febbraio, anche politica, che la vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe finalmente interrotto, creando l’energia politica necessaria per fissare un nuovo inizio.

Ma un nuovo inizio di solito coincide con nuove elezioni: Renzi lo sa benissimo. Scegliere di prendere le redini del governo per manifesta insufficienza del dicastero che lo ha preceduto non procura ancora una piena legittimazione (oltre a rinfocolare tensioni nello stesso Pd). O meglio: in una democrazia parlamentare – qual è ancora l’Italia – non ci sarebbe bisogno di altro. Ma tutto il progetto politico di Renzi contiene una torsione politica rispetto a quella forma, che attende ancora di compiersi: riuscirà il Sindaco a portarla a compimento da Palazzo Chigi? Di sicuro, le forze parlamentari su cui può contare sono le medesime che sostenevano Letta (salvo forse qualche piccolo aggiustamento): e allora?

Resta dalla postazione di Palazzo Chigi una valvola con cui Renzi potrebbe provare a regolare i processi: quella delle elezioni. A ogni intoppo, a ogni ritardo, a ogni involuzione del corso politico nei meandri di Montecitorio Renzi potrà mettere sul tavolo un’impazienza, un’urgenza, un senso delle cose da fare nuovo, imputando alla palude parlamentare tutte le colpe. È una scommessa: se tutto filerà liscio, Renzi e il Pd incasseranno un risultato storico. Se la corsa si inceppa, qualcuno si ricorderà più o meno amaramente delle parole del Sindaco: le elezioni convengono più a me che all’Italia.

(Non so se la metafora del film di Kubrick, colpo a parte, abbia funzionato. Quel che so è che nel film nessuno dei componenti della banda che assalta l’ippodromo conosce il piano completo dell’azione, il che è un guaio).

(L’Unità, 12 febbraio 2014)

Se si batte il tempo insieme

ImmagineMa il governo: che fine fa? L’accordo raggiunto da Renzi con Berlusconi sulla legge elettorale non risolve il problema, ma anzi lo pone. E non si tratta di alimentare nuovamente sospetti sulle reali intenzioni di Renzi. Il segretario ha tagliato corto: mi accusavate di voler far cadere il governo per andare subito alle elezioni, e magari avrei pure avuto il mio tornaconto, e invece sono venuto a patti con Berlusconi per fare le riforme di cui si parla vanamente da vent’anni. Per fare la riforma istituzionale e per fare la riforma elettorale: non solo l’una o solo l’altra. E le riforme richiedono tempo. E dunque il governo deve durare almeno un altro annetto: se il disegno riformatore si compie, non c’è motivo di buttarlo giù.  Naturalmente, rimane ancora una subordinata: il percorso avviato si inceppa, e la situazione precipita subito verso le elezioni. Ma sta il fatto che per quanto forte sia l’accelerazione impressa in queste settimane, il percorso tracciato da Renzi «di persona personalmente» – come dice Agatino Catarella, l’agente del commissario Montalbano – deve pur sempre dispiegarsi in un arco temporale che il segretario vuole certo, definito, ma che, ribadiamolo, prende il suo tempo.

Di qui la domanda: nel frattempo, il governo cosa  fa? Con tutta l’attenzione mediatica che si sposta sulla segreteria del partito democratico, con l’avvio dei lavori parlamentari intorno alla legge elettorale, quali margini di azione restano al governo? Quali possibili risultati?Letta sarà anche bravissimo in politica estera, come ha detto qualche sera fa il leader del Pd: parla inglese, riceve regine e va in missione a Bruxelles; ma non è ancora il ministro degli Esteri di un governo a guida Renzi. E dunque? Delle due l’una: o il governo prova a vivacchiare nel cortile di casa nostra, galleggiando sugli umori parlamentari che variamente circoleranno in questi mesi, come un corpo quasi estraneo alla vera partita politica in corso; oppure si accorcia drasticamente la distanza fra il partito e il governo. La prima ipotesi si scontra però, innanzitutto, contro la dichiarata volontà di Letta di non rimanere a far la guardia al bidone. Il Presidente del Consiglio ha sempre detto che non sarebbe restato a Palazzo Chigi a qualunque costo, e il costo, per il paese, di uno stiracchiamento lungo un anno non sarebbe affatto un costo qualunque. In secondo luogo, sta il versante economico e sociale dell’azione di governo, quel piano di riforme a cui Renzi stesso ha alluso con il Jobs Act, rimasto però, per il momento, allo stadio di una serie di titoli. Può Renzi decidere di vivere quest’anno pericolosamente, sempre sotto i riflettori, mentre il governo a guida Pd sbriga solo l’ordinaria amministrazione? Può funzionare, per tutto il tempo che ci separa dalle prossime elezioni, o il Pd (e, va da sé, il paese) pagherebbe un prezzo assai alto per una simile condotta? Resta l’altra ipotesi, l’accorciamento delle distanze. Che difficilmente può spingersi fino all’identificazione: l’idea che Renzi possa guidare fin d’ora un nuovo governo di scopo, per un breve termine, convince poco anche come semplice suggestione. Ma il «rimpasto», concepito non per soddisfare questo o quell’appetito, spostare Tizio o promuovere Sempronio, ma per saldare i bulloni dell’esecutivo e consentire anche ad esso una corsa più spedita non è più un’evenienza improbabile. Perché, certo, Renzi è così tanto il nuovo che anche Enrico Letta sta rapidamente scivolando tra i vecchi, ma uno spettacolo del genere non tiene il cartellone per un anno intero. E non è detto che lo sketch non consumi anche il primattore, alla lunga. L’uno è rock, e l’altro è lento, direbbe Celentano. Ma allora o non ce la fanno proprio a stare insieme, oppure provano davvero a battere il tempo insieme. Almeno per un po’. 

(L’Unità, 24 gennaio 2014)

I democratici separati in casa e divisi su tutto

ImmagineLa presa di distanza del Presidente del Consiglio dal documento di «blindatura» del governo preparato dal fedelissimo Francesco Boccia si può tradurre anche così: nel variopinto gioco dell’oca in cui il partito democratico è impegnato da diverse settimane, in vista del congresso, il presidente della commissione Bilancio, onorevole Francesco Boccia, deve tornare alla casella di partenza. La via da percorrere è ancora lunga, e, a quanto pare, disseminata di piccole trappole e sottilissimi tranelli (finché qualcuno non fa saltare per aria l’intero tabellone). Boccia ci ha provato, ma le perplessità hanno di gran lunga superato le adesioni, e così Letta ha tolto il documento dal tavolo.

Ma la chiave di lettura del florilegio di dichiarazioni che ha spinto ai margini del gioco l’iniziativa dello zelante Boccia va cercata in una parola del vocabolario psicanalitico: denegazione. Che è sì una negazione, ma è una negazione che afferma. La negazione serve anzi proprio per far affiorare nel dibattito pubblico il contenuto proibito, che altrimenti, senza la clausola negativa, non potrebbe essere affermato. Così, con  Napolitano nella veste del censore superegoico, sullo scacchiere del Pd trapelano le pulsioni non apertamente confessabili dei suoi protagonisti. Renzi vuole andare al governo, e non vuole più aspettare. Ma i renziani possono dirlo solo in forma «denegativa»: essi «non» vogliono la caduta di Letta. Grazie alla negazione, il contenuto libidico, però, tracima. Dopodiché a Renzi non è ancora venuto il tiro che manda a casa Letta e consente a lui di raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che ben difficilmente accetterà di saltare un turno. I renziani si muovono così, in vista del congresso, allo scopo di incrinare tutto quello che può cristallizzare la situazione politica per un paio di anni, fino all’obiettivo 2015, che rappresenta invece la meta indicata da Letta ufficialmente, fin dal suo insediamento.

Altrove serpeggiano preoccupazioni dissimili, ma che possono essere sottoposte allo stesso trattamento analitico. Quando il più autorevole candidato alla segreteria del Pd, di provenienza diessina, Gianni Cuperlo, dichiara che, sia o no il Pd un partito di sinistra, quel che è certo è che senza sinistra un partito democratico non c’è e non ci può essere, indica un’altra linea di confronto: come si scomporranno e ricomporranno le tradizioni politiche e culturali che han dato vita al Pd? Sono definitivamente rinsecchite o hanno ancora linfa vitale? Buona domanda. Ma applicate ora la regoletta di prima, togliete il «non» e rileggete: le parole di Cuperlo danno forma a un’inquietudine inedita,  che cioè il Pd possa effettivamente avviarsi ad essere un partito senza più una traccia riconoscibile di sinistra. Il che sarebbe peraltro un paradosso, anzi il compimento del paradosso italiano (dopo l’anomalia berlusconiana, sulla destra dello schieramento): la costruzione di un bipolarismo che non si avvicini, ma anzi si allontani il più possibile dalla modalità del confronto politico europeo, che vede di regola confrontarsi partiti socialisti e partiti popolari. Eppure, dentro il corpo del partito democratico una pulsione del genere si avverte. E, come nel caso dell’ambizione di Renzi, così anche in questo caso di mezzo, volente o nolente, c’è il governo: chi infatti, soprattutto tra gli ex-margheritini del Pd, coltiva il desiderio di sbarazzarsi definitivamente di quel che resta della sinistra italiana, fa il tifo per un confronto Letta-Renzi per la leadership del partito che difficilmente lascerebbe immutato il quadro politico attuale.

Accanto alle due principali linee di frattura – quella che passa intorno alla selezione della leadership e quella che investe la cultura politica del partito democratico – altre microfratture rendono complicato lo spostamento delle pedine sullo scacchiere del Pd. A cominciare dall’araba fenice della riforma elettorale: che si faccia ognun lo dice, come far nessun lo sa. Ma è chiaro che, in qualunque direzione si vada, per semplici ritocchi o per organiche revisioni dell’attuale porcellum, una nuova legge elettorale disegnerà un nuovo scenario politico.

E non finisce qui. Perché nel Pd c’è ancora chi, nonostante il deludente esito elettorale (e la pessima figura nell’elezione del presidente della Repubblica), non vuol saltare un giro, e anzi volentieri ripeterebbe la partita di febbraio. E c’è chi, invece, vuole lanciare due volte i dadi: per prendersi in un colpo solo il partito ed il governo. Anche queste diverse ambizioni difficilmente saranno contenute entro gli attuali equilibri.

Per cui, da qualunque parte si guardi l’avvicinarsi del congresso democratico, non si può non registrare l’accumularsi di tensioni, e il governo come un muro di contenimento solcato da piccole crepe che minacciano di allargarsi. Forse, se la situazione non precipita, è perché nessuno ha ancora il coraggio, forza o anche solo la visione di quel che potrà esserci oltre quel muro.

(Il Mattino, 20 agosto 2013)