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Viaggio intorno all’uomo, inseguendo l’etica

Paolozzi

Eduardo Paolozzi, The Philosopher (1957)

«Il tema di questo libro è una pratica di resistenza». Non è vero, dunque, come invece recita il titolo del romanzo di Walter Siti, che resistere non serve a niente. Eugenio Mazzarella, nel suo ultimo saggio su «L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazionne del mondo (Quodlibet, € 20), invita a contrastare, anzitutto con i mezzi intellettuali della riflessione, l’avvento di «un altro uomo; un uomo senza l’uomo che fin qui siamo stati».

Non capita di frequente, soprattutto nel panorama italiano, di imbattersi in un libro che dichiara apertamente di tenere un orientamento «conservatore». C’è una sorta di pudore, o forse di imbarazzo, che circonda questa parola, soprattutto nel campo del pensiero: si incontrano moderati o liberali, ma molto pochi sono quelli che invece si dicono schiettamente conservatori. Qui però non è in gioco una conservazione sul piano della dottrina sociale o politica, ma su un terreno più fondamentale, che è quello che riguarda la stessa specie umana, la sua condizione antropologica che certo non può essere ricondotta a un’immodificabile natura, ma neppure – sostiene Mazzarella – essere travolta dalla totale culturalizzazione – e, ormai, tecnicizzazione e artificializzazione –  del dato naturale. Questo è, appunto, il terreno sul quale Mazzarella prova a offrire argomenti a difesa dell’uomo, dei suoi tradizionali assetti antropologici, del campo dei significati in cui si è finora riconosciuto in quanto uomo.

I fenomeni che vengono presi in considerazione sono molti: riguardano certo la profonda trasformazione degli ordinamenti sociali, sempre più plasmati da una «individualizzazione mercatoria» che non riconosce più alcuna istanza superiore all’individuo e ai suoi desideri, ma chiamano in causa soprattutto la nuova capacità di intervento tecnologico su ciò che una volta era considerato l’invariante biologico della specie homo sapiens sapiens. E coinvolgono, infine, la rivoluzione dei costumi, l’«atomizzazione desiderante» che minaccia di spezzare definitivamente il rapporto fra sessualità e filiazione e di cancellare, insieme al primato dell’unione eterosessuale, la cellula costitutiva della associazione umana, così come l’antropologia culturale (Levi Strauss, in particolare) ha saputo consegnarcela.

Mazzarella chiama dunque «smoralizzazione» del mondo non la crisi dei valori: quel che è minacciato non sono infatti i valori, ma la possibilità stessa che si formi un ethos, un costume collettivo, degli abiti sociali che non possono mai essere il risultato di scelte puramente individuali. Ecco la tesi di fondo del libro, che dall’antropologia di Plessner alla fantascienza di Philip Dick, passando per la grande tradizione del pensiero filosofico (filtrata soprattutto da Kant, Nietzsche e Hiedegger), viene declinata con finezza di analisi e di prospettive: «L’accumunazione sociale non è mai l’ex post, ma l’ex ante dell’agire degli individui».

L’Autore non si nasconde che il terreno sul quale siamo è segnato già da un secolo dalla profezia di Nietzsche sul nichilismo della nostra epoca. E sa che se c’è una cosa alla quale si ribella la volontà di potenza (che del nichilismo costituisce il fondo ontologico) è proprio il peso del passato, l’immutabilità del «così fu»: come potrà allora resistere la posizione, o la presupposizione, di ciò che è «ex ante» (la «previetà comunitaria»), di ciò che viene prima della libertà dell’uomo? Di fronte al rischio di una perdita del mondo e dell’uomo come lo abbiamo conosciuto, Mazzarella non esita a mostrare tutto il suo scetticismo verso le magnifiche sorti e progressive della tecnica e del mercato. E però è pur sempre a una decisione che rimette in ultimo il compito di tenersi stretti a ciò che, come uomini, siamo storicamente divenuti. A una decisione, non a un destino. A una scelta della ragione, certo, ma non ad una qualche necessità, razionale o no che sia. A una forma superiore di conservazione della specie, non però in nome di una sua naturale fissità. È sufficiente? Può bastare? Difficile dirlo. E difficile è anche stabilire se il carattere irreversibile della mutazione che la specie umana starebbe per affrontare sia una minaccia o non anche un’opportunità (o entrambe le cose). Certo è che il libro ha il merito di non rendere banali nessuno degli interrogativi che nel dibattito pubblico affiorano sempre più spesso, in relazioni a questioni dirimenti come le unioni civili o le nuove tecniche di fecondazione artificiale. Questioni che non possono essere affrontate in nome dell’entusiasmo tecnofilico per tutto ciò che è nuovo, e dell’anatema verso tutto ciò che è passato – uomo antiquato compreso –, ma neanche possono essere respinte per la paura tecnofobica verso tutto ciò che comporta cambiamenti, anche radicali. Altrimenti anche i mutamenti indotti dalla Rete, pure quelli capaci di incidere profondamente sulla forma e le condizioni della comunità umana, dovrebbero essere guardati con orrore. Ma che il paesaggio naturale dell’umano stia sempre più finendo sullo sfondo, fin quasi a scomparire, questo è un tema che Mazzarella ha ragione di porre con forza, invitando la politica, non solo la filosofia, a qualche supplemento di riflessione in più.

(Il Mattino, 17 luglio 2017)

Le voci del corpo

Come farsi un corpo non nazista? Bella domanda.  Prima di provare a rispondere, però, è forse il caso di chiedersi se davvero il corpo uno se lo fa, o se invece non si trova ad averlo, e c’è poco da fare. La prima domanda si trova in realtà nell’ultimo libro di Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli 2012) e sta insieme al mazzo di domande che invece di chiedere “che cosa?” o “perché” chiedono piuttosto “come?”. Se uno chiede “come?”, “come fare?” è perché si trova già, come diceva Pascal, embarqué, imbarcato, preso cioè in mezzo e chiamato a fare qualcosa, in un modo o nell’altro. Ma appunto: in qual modo? E cosa vorrà mai dire che in qualche modo noi ci facciamo il nostro corpo?

Nulla di particolare. In fondo, è dall’alba dei tempi che l’uomo si fa un corpo. Per Marcel Mauss, il corpo è anzi il primo strumento dell’uomo, “il primo e più naturale oggetto tecnico”. Il che non vuol dire che intratteniamo con esso un rapporto puramente strumentale, ma al contrario che la dimensione della strumentalità non è affatto una dimensione accessoria della nostra esistenza. E, d’altra parte, il corpo delle origini non è forse un corpo tatuato, in qualche modo rifatto? Claude Levi-Strauss ha raccontato, in Tristi tropici, di come gli indigeni si stupissero nel vedere i visi bianchi, lisci e nudi dei primi missionari. Nessun tatuaggio, nessuna iscrizione sui loro volti: come gli animali, essi dovevano pensare.

La nostra credenza nella naturalità del corpo umano appartiene in effetti ad una determinata epoca storica (che forse si sta per chiudere, vista la nuova diffusione del tatuaggio). Un’epoca, prima cristiana poi specificamente moderna, dentro un ben più ampio, anzi sterminato intreccio di pratiche corporee, maniere variopinte e diverse di farsi un corpo.

Con la non piccola complicazione che, ormai, anche se non possiamo prendere e lasciare a nostro piacimento il nostro corpo, o addirittura fabbricarlo come più ci aggrada, possiamo però ben modificarlo geneticamente, ritoccarlo qua e là con iniezioni di botox o con protesi al silicone, allenarlo  e anzi ‘doparlo’ (a proposito, oggi si conclude il primo Giro d’Italia, da un bel po’ di anni in qua, che non vede irrompere i Nas tra le ammiraglie delle squadre: meno male!). E dunque: come ce li facciamo, oggi, i nostri corpi?

Possibilmente in modo non nazista, suggerisce Ronchi, il che lascia intendere che sia ancora in campo un modo nazista di farsi i corpi, un’estetica o piuttosto una cosmetica nazista dei corpi, di cui qualcosa comprendiamo andando con la memoria al cinema di Leni Riefenstahl, al culto della forza, al corpo forgiato dall’esercizio, dalla fatica e dalla sottomissione. Certo, ci piace pensare che, siccome c’è una cesura netta fra i regimi totalitari e i regimi democratici, allora anche sul piano della disciplina dei corpi vi deve essere un’altrettanto netta cesura fra atleti, modelle e attori dei nostri giorni e la vigoria dei corpi nazisti. E forse è davvero così; in ogni caso, non è una differenza da poco se a farsi un corpo sia ciascuno per sé, o se invece sia un omino coi baffi, fattosi Führer, a decidere la salute del corpo di tutti (anzi: della sola razza ariana).

Però un brivido corre ugualmente lungo la schiena, se si pensa alla prepotenza con la quale ai nostri corpi viene più o meno esplicitamente  richiesto di essere sempre più efficienti, sempre più in forma, sempre più in salute, sempre più rispondenti a modelli e imperativi sociali a cui rischiamo di rimanere assoggettati, senza alcuna capacità di distanziazione critica. Un principio di ottimizzazione sembra essersi esteso dall’organizzazione dei sistemi sociali ed economici alla maniera in cui abbiamo il nostro corpo. E non si tratta più di mantenere un certo equilibrio o una sana armonia, ma di stressare il corpo fino a estrarre da lui ogni riserva di energia disponibile e, sempre, il massimo della prestazione. Michel Foucault dava a questo dispositivo il nome di “biopolitica” e per non farci credere che stesse parlando di chissà quale lontanissimo orizzonte teorico spiegava: ecco a voi il neoliberalismo!

Ora, queste analisi portano sempre con sé scenari da incubo. Chi però inforca la bicicletta, va in palestra o si mette a dieta non pensa in realtà né ai film della Riefenstahl né al capo del personale. E certo un abisso separa l’una dall’altro. Ciascuno si fa il suo corpo per e con gli amici, senza bordeggiare derive totalitarie e, dopo tutto, senza neppure rinunciare a una birra. Però i corpi inermi, violentati, oppure offesi di cui parlano o che ci rappresentano la letteratura, l’arte o la religione da un bel po’ di decenni a questa parte qualche allarme lo mandano. A volte, anche nel processo legislativo e nel dibattito pubblico fanno capolino preoccupazioni analoghe.

Forse, la maniera migliore per non ritrovarsi con un corpo nazista è non dimenticare mai che i nostri corpi, comunque li facciamo, parlano anche, e vogliono parlare con la loro voce. E la democrazia rimane il terreno sul quale i corpi possono anche essere l’un l’altro forzosamente intonati, ma dove le voci possono ancora rimanere, fortunatamente, dissonanti.

L’unità, 27 maggio 2012