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Se la vendetta sfida la civiltà

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Quanto peggiorerebbe la nostra vita se la risposta al terrorismo di matrice islamista fosse anch’essa di natura terroristica? Non più soltanto livelli di sicurezza più elevati o proclamazioni dello stato di emergenza, leggi antiterrorismo e inasprimenti di pene, ma un’escalation di terrorismo islamofobo, diretta contro la comunità musulmana?  Da ieri questa eventualità, terribile e angosciosa, si è fatta possibile. Ieri un uomo, Darren Osborne, ha lanciato il suo veicolo contro una folla formata da fedeli musulmani, in una zona a nord di Londra, Finsbury Park. Il furgone ha mietuto una vittima, e fatto una decina di feriti, alcuni dei quali gravi. Odio, risentimento e spirito di vendetta. Ma cosa accadrebbe, se questi sentimenti e stati d’animo si diffondessero come un virus tra la popolazione? Cosa accadrebbe se la risposta al camioncino lanciato sul London Bridge, qualche settimana fa, o all’autocarro che fa strage sulla promenade des Anglais di Nizza, lo scorso anno, fossero altre automobili, lanciate questa volta contro fedeli all’uscita di una moschea? Quasi nelle stesse ore in cui Londra veniva nuovamente insanguinata, a Parigi, sugli Champs-Elysées, un uomo ha provato a farsi esplodere lanciandosi con la sua auto, piena di bombole del gas, contro una camionetta della polizia: l’attentato è fallito e il conducente è morto, ma in Francia è scattato nuovamente l’allarme. Nel giro di ventiquattro ore, siti di informazione e giornali hanno registrato i fatti come un bollettino di guerra: a Londra un inglese di mezza età ha attaccato la folla di fedeli musulmani, durante il Ramadan, mentre a Parigi, un cittadino francese radicalizzato, noto peraltro ai servizi di intelligence, gettava un’altra volta nel terrore la capitale: metropolitana chiusa, area transennata, colonne di mezzi della polizia, sirene e agenti. A Parigi un atto terroristico compiuto probabilmente nello spirito della jihad armata; a Londra, un atto terroristico compiuto invece contro i musulmani. Nello stesso arco di tempo, nel cuore dell’Europa.

Ora, la ragione fondamentale dell’essere europei, per tutta la seconda metà del Novecento, è stata la pace. Non vi è significato più forte e più riconoscibile nell’ideale europeista di questo legame che l’Europa, dopo gli orrori delle guerre mondiali, ha saputo conquistare con la pace, la democrazia, il diritto. Noi europei siamo quelli che hanno messo da parte odi e rivalità nazionali e religiose, ostilità politiche e ambizioni di potenza ed egemonia sul continente, per costruire insieme condizioni di vita e ordinamenti collettivi fondati sulla pace. Abbiamo vissuto la caduta del Muro di Berlino come un passo decisivo nella costruzione della casa europea perché l’89 significava la fine della guerra fredda che aveva diviso l’Europa in due blocchi. E abbiamo patito le contraddizioni di una costruzione politica ancora insufficiente quando si sono incendiati i Balcani, e nuovi conflitti si sono riaperti nel cuore del continente. Infine, sappiamo ormai riconoscere, dopo i processi di decolonizzazione seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, i germi pericolosi che a lungo hanno allignato nell’idea del “buon europeo”. Come possiamo ora pensare che il futuro dell’Unione, il suo destino e il suo senso, si disperda tra paure, scoppi di violenza, focolai di terrore?

Eppure il crinale lungo il quale ci muoviamo è estremamente sottile. Darren Osborne, per ora, è solo un nome balzato drammaticamente agli onori della cronaca per una violenza stupida e insensata. Ma il senso delle cose non si decide mai una volta per tutte. Un gesto isolato, un episodio circoscritto non cambia il corso degli eventi. La vita scorre uguale. Ma noi oggi non sappiamo affatto se tale resterà. Non lo possiamo sapere. Non sappiamo se altrove non vi sia chi non pensi di fare altrettanto. Non sappiamo neppure se non vi sia chi soffia sul fuoco, chi magari cerca di esasperare le opinioni pubbliche dei paesi europei, di suscitare sentimenti di frustrazione della popolazione di fronte al diffondersi endemico di attentati terroristici, per far precipitare tutto in una spirale sempre più intensa di violenza. Darren Osborne non avrà fatto troppi calcoli e probabilmente non ha nessuno dietro di sé. Un atto individuale non ha ancora un significato collettivo. Ma se in futuro qualcuno proverà a fare invece qualche calcolo, a spostare gli equilibri politici del continente – e non solo – usando le ragioni del conflitto, i meccanismi della ritorsione, il contrappasso della vendetta?

Non sarebbe una guerra giusta, così come quella islamica non è una guerra santa, almeno ai nostri occhi. Sarebbe piuttosto una guerra strisciante, tenuta dentro i confini slabbrati della pace ma all’ombra di conflitti sempre più cruenti, e endemici, e globali. Una guerra in cui precipiterebbe e andrebbe in frantumi l’ideale stesso della modernità, e il suo corredo di valori, abitudini, stili di vita, nato e coltivato in questa parte del mondo. Cosa ci guadagneremmo, allora? A cosa potremmo mettere fine, e cosa invece si prolungherebbe indefinitamente se ci lasciassimo trascinare sul piano che gli attacchi terroristici ogni volta propongono: il numero delle vittime, le modalità dell’attentato, la cultura e l’identità religiosa come motivo di scontro? Non sarebbe questa ritornata barbarie la fine stessa del sogno europeo come lo abbiamo coltivato negli ultimi decenni?

(Il Mattino, 20 giugno 2017)

Se la caduta di Corbyn spegne la fiammata ideologica a sinistra

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Il voto largamente maggioritario con il quale i parlamentari laburisti inglesi hanno espresso la sfiducia verso il loro leader, Jeremy Corbyn, ha forse un significato che va oltre la crisi profondissima del Labour, e investe l’orizzonte stesso del socialismo europeo. Corbyn ha già detto che non lascerà: nonostante i 176 voti a lui sfavorevoli (contro 44 a favore), nonostante le dimissioni in massa dal governo ombra, nonostante l’opinione pubblica progressista lo accusi di aver condotto una compagna molto blanda a favore del “Remain”. Sostiene di avere ancora dalla sua la base e i sindacati, e non c’è norma nel partito che lo possa costringere a dimettersi. Ma, anche così, la rappresentazione che il Labour offre, di un partito spaccato fra militanti ed eletti, è di per sé la più inequivocabile immagine di un fallimento strategico.

Dopo gli anni di Blair, il Labour ha virato a sinistra, prima con Ed Miliband poi, ancor più nettamente, con Jeremy Corbyn. Questa svolta è stata da taluni giudicata necessaria, per ritrovare l’anima di un partito svenduta da Tony Blair con la guerra in Iraq, da altri invece giudicata puramente difensiva, nostalgicamente ripiegata su posizioni da vecchio Labour. Per i primi, è finalmente la riscoperta del tema dell’ineguaglianza, smarrito a sinistra dietro le false luci dell’opportunità e del merito individuale; per gli altri, si tratta in realtà della solita ricetta statalista, ormai improponibile nell’epoca della globalizzazione dei mercati. Di sicuro, pezzi del programma di Corbyn – come la rinazionalizzazione delle ferrovie – avrebbero trovato in Bruxelles un fortissimo ostacolo, e questo spiega la tiepidezza, la riluttanza e l’ambiguità in cui Corbyn si è mantenuto durante tutta la campagna elettorale. Incertezza e indecisione in politica non pagano, e ora Corbyn rischia di perdere la leadership del partito.

Ma il punto di crisi è più generale, e davvero strategico. E tocca i laburisti inglesi quanto i socialisti francesi o quelli spagnoli: si può immaginare una politica di sinistra dentro la cornice dell’Unione? O, in alternativa, si deve piuttosto accompagnare, o addirittura favorire un processo destituente, di controllato smantellamento dell’architettura europea, per cercare nella dimensione nazionale, sovranista,, la risposta alla crisi sociale? In una prospettiva storica, sembra di essere ritornati a cent’anni fa (senza che per fortuna spirino venti di guerra). Ma il nodo è in certo modo lo stesso. Cent’anni fa, ad una fase di crescente espansione globale dei commerci seguì una violenta fiammata nazionalista, e anche allora i partiti socialisti non ressero la prova: rinunciarono alla dimensione internazionalista e misero innanzi la causa nazionale. E si divisero, aprendo la strada a un lungo ciclo di sconfitte, che in fondo verrà interrotto solo dopo la seconda guerra mondiale, con la ricostruzione e il sogno democratico e federalista dell’unità europea.

Oggi, di nuovo, il socialismo europeo è di fronte a un bivio. In realtà, sembrava fino a non molti mesi fa che avesse già imboccato una strada precisa: le ripetute sconfitte della socialdemocrazia tedesca, il declino di Hollande da una parte, e dall’altra la vittoria di Podemos in Spagna e di Siryza in Grecia, i nuovi astri di Corbyn e di Sanders, sembravano andare tutti nella stessa direzione, di un profondo ripensamento ideologico, programmatico e perfino organizzativo.  Tutto sembrava muoversi velocemente: fuori però della difesa cocciuta della cittadella europea, e chi rimaneva dentro appariva vanamente aggrappato ad una nave ormai colata a picco. Ma ora il vento ha cambiato un’altra volta direzione: Sanders perde, Podemos perde, Corbyn viene vigorosamente contestato, e la via alternativa che doveva finalmente cambiare le sorti del vecchio socialismo europeo si sta esaurendo. All’improvviso, si trova iscritta sotto le parole nobili ma assai poco promettenti di Samuel Beckett: fallisci un’altra volta, fallisci ancora, fallisci meglio.

Nel Regno Unito un’alternativa forse c’è, e ha il nome del neo-sindaco di Londra, Sadiq Kahn. Così almeno la pensa Anthony Giddens, che però non è quel che si dice un osservatore imparziale, essendo stato l’intellettuale più vicino a Tony Blair. Ma, al di là dei nomi, resta per i socialisti un nodo da sciogliere: lo spazio europeo è davvero impraticabile per una politica progressista, di crescita e di inclusione sociale? Nel conto non si può non mettere un dato di realtà: la forbice della diseguaglianza si è parecchio allargata, e l’Unione è oggi un posto dove c’è molta meno mobilità sociale che non trenta o quaranta anni fa. Se fallisce oggi la sinistra più radicaleggiante, non si può dire dunque che quella blairista degli anni Novanta sia andata molto meglio.

Però governava. Ed è infatti quella la pietra d’inciampo: la prova delle responsabilità di governo. Lasciamo per una volta il partito democratico e Matteo Renzi fuori dal quadro, e torniamo alla crisi del Labour: Corbyn non è in fondo incappato nella contraddizione di voler ricostruire una sinistra pura e senza compromessi da una parte, pur senza voler assumere  del tutto il profilo di una forza populista, antisistema? È così anche la sua idea di Europa non è viziata da una insanabile forma di dissociazione, fra storia e attualità, interessi e idealità: lontana dalle istanze che il Labour vuole rappresentare, essendo però stata, storicamente, l’unico luogo in cui quelle istanze si sono gradualmente realizzate? La conseguenza è che se non può essere un europeista, dopo il referendum, a guidare i conservatori, non può essere europeista nemmeno il leader dei laburisti. Finché almeno si tratta del molle e impacciato, e quasi vergognoso di sé, europeismo di Jeremy Corbyn.

(Il Mattino, 29 giugno 2016)

La patria dell’integrazione dove l’Islam sposa la laicità

sadiqkhan.jpgLondra ha fatto di me la persona che io sono oggi: così scriveva Sadiq Khan nel libro che la Fabian Society dedicava qualche anno fa a Londra, «come sarà dopo il 2015». Cioè oggi, quando Sadiq Khan, figlio di un autista di bus, pakistano, di fede musulmana, diviene sindaco della città più cosmopolita d’Europa (stando almeno ai primi risultati). Sadiq Khan era il favorito della vigilia, e in termini strettamente politici la cosa, dunque, non può sorprendere. Probabilmente, darà pure qualche scossone al partito laburista, nel quale Sadiq Khan milita. Ma resta un risultato storico, che la prima città europea, la capitale di un impero che meno di un secolo fa toccava i quattro angoli del pianeta, sarà nei prossimi anni guidata da un immigrato non cristiano di origine asiatica.

Che storia è questa? Una storia che della profezia dello scrittore francese Michel Houellebecq,che ha spaventato i buoni europei,ha cambiato tutti i dati. Non si tratta della Francia, infatti, ma della Gran Bretagna. Non è uno Stato in ballo, ma la guida di una città. E soprattutto non è la fine del secolarismo, della laicità, del progressismo, dell’individualismo liberal-democratico, del libertinismo sessuale e del materialismo ateo: che vengono messi in fila uno dopo l’altro, nel libro di Houllebecq, come se fossero la stessa cosa. Lo scrittore francese ha immaginato, nel suo ultimo, discusso romanzo, Sottomissione, che la crisi, in Francia, del gioco politico strutturato sull’opposizione fra la destra e la sinistra tradizionali avrebbe spinto i partiti repubblicani a sostenere un candidato musulmano contro l’avanzata della destra populista e xenofoba. E l’esito finale sarebbe stato prima la vittoria della Fratellanza musulmana, poi l’islamizzazione della società. Di più: questo esito sarebbe stato in fondo accettato dagli stessi francesi, a cui avrebbe infine fatto comodo rinunciare a un po’ di libertà per ripiegare verso porti più sicuri, dopo decenni di relativismo, nichilismo, anarchia.

«OurLondon», scriveva invece il futuro sindaco Sadiq Khan, tre anni fa, raccontando la sua storia di avvocato e politico di successo, e in quella storia non c’è quasi nulla dei timori di Houellebecq sull’immigrazione che cambia il volto della società europea, fino a sfigurarla, a snaturarla (ea svirilizzarla).

La mia storia, la storia delle opportunità che questa città ha concesso alla mia famiglia, a mio padre e ai suoi figli, raccontava Sadiq Khan, è la storia di ciò che Londra è stata (e può ancora essere): una città aperta, tollerante, multiculturale, dove lavorando duro potevi mettere da parte qualche soldo e costruire un futuro per le nuove generazioni. Sadiq insisteva sulle eguaglianze di opportunità, e domandava: nella Londra di oggi, in cui un milione e mezzo di abitanti – sui due milioni e mezzo che fa questa straordinaria metropoli – vive in condizioni di sotto-occupazione, sarebbe stato possibile a mio padre trovare un lavoro sicuro e stabile, e a me studiare?

Il significato del voto di oggi, se sarà davvero Sadiq Khan a succedere all’uscente sindaco conservatore, Boris Johnson, va al di là delle sfide che la città ha davanti, e su cui il futuro sindaco ha costruito il suo successo: in termini di trasporti, welfare, housing sociale, infrastrutture. Questi sono, né più né meno, i problemi di tutte o quasi le grandi città europee. Un sindaco musulmano, nella città che forse, più ancora di Parigi, di Roma o di Berlino dice che cos’è la civiltà occidentale, indica un percorso di integrazione possibile. Niente muri, niente costruzioni di enclave, niente comunità separate, niente divisioni su basi etniche, religiose o razziali. Ma che questo esito abbia un contenuto sociale, parli ai ceti popolari come alla middle class londinese, non è estraneo all’affermazione di Sadiq.

Certo, le cose, lungo il Tamigi, sono molto diverse da quelle che accadono lungo la Senna o lungo il Tevere. Lo sfondo culturale e storico è profondamente diverso e a Londra indiani e pakistani e sudditi di sua Maestà sono arrivati sotto l’orologio di Westminster da molto più tempo. Occidentale, ma anche atlantica, versata sull’elemento marino molto più di quanto non sia terranea l’Europa centro-orientale, agitata da fantasmi xenofobi. Londra ha una vocazione per l’incrocio di popoli e razze molto più accentuata delle altri capitali europee. Ma il multiculturalismo può prendere strade diverse: può generare il modello Londonistan, in cui la tolleranza produce separazione, comunità chiuse e giustapposte, estranee e potenzialmente nemiche. Oppure può condurre a storie come quelle di Sadiq Khan, storie i cui fili di un’identità si intrecciano insieme, e il laburista, l’europeo, il musulmano e il pakistano stanno tutti insieme nel profilo del nuovo sindaco della capitale del regno di Elisabetta.

(Il Mattino e Il Messaggero, 6 maggio 2016)