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Basta con l’antimafia da talk show

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Le persone oneste, a Palermo, sono più di trecento. Molte di più. Sono più di trecento le persone che vogliono la verità sulle bombe della mafia e sugli attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono di più, molte di più, le persone che vogliono liberare la Sicilia e l’Italia intera dalla morsa della criminalità organizzata.

Ma ieri, a Palermo, dinanzi al palco allestito dalle Agende Rosse di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso, erano poche centinaia.

Qualcosa, dunque, non va. Se si perde un pezzo di città, o addirittura la città intera di Palermo, delle due l’una: o si deve concludere che quella città è per sempre perduta alla legalità e irredimibile e irredenta, o, con uno spirito di autocritica necessario, si ammette che bisogna oramai cominciare da un’altra parte, in un altro modo. Sarebbe infatti molto miope giudicare una città intera e la sua volontà di lottare contro le mafie dal grado di partecipazione alla manifestazione di ieri,  e in generale dal grado di adesione alle iniziative che un pezzo di società civile – sempre più ristretto, sempre più involuto, sempre più autoreferenziale – organizza per tenere la propria intransigente posizione di paladini dell’antimafia. Tra l’una cosa e l’altra, tra Palermo e l’antimafia militante, bisogna stare dalla parte di Palermo.

Vi sono state polemiche, in questi giorni, sul significato delle commemorazioni. I figli di Paolo Borsellino hanno detto che avrebbero disertato le cerimonie ufficiali (poi Manfredi ha invece deciso di esserci, per rispetto al Capo dello Stato, innanzi al quale ha pronunciato parole di esemplare dignità); Lucia Borsellino ha polemizzato aspramente con una certa maniera di declinare l’impegno antimafia, dimettendosi con grande compostezza dalla giunta Crocetta (solo dopo è scoppiato lo scandalo della frase ignobile del medico Tutino, e il mistero dell’intercettazione mai agli atti da cui però sarebbe stata prelevata).

Ma non sono solo le polemiche, i veleni, le insinuazioni e le mezze verità ad allontanare i cittadini. È, piuttosto, quell’antimafia esibita come divisa o come bandiera ad avere stancato, ad aver perduto senso, ad essere percepita come una sovrastruttura inutile, che alimenta solo se stessa ma non modifica né la coscienza del paese, né le pratiche di vita quotidiane. È l’antimafia come pulpito, non come attività investigativa, o come contrasto giudiziario, o come impegno formativo, o come pungolo civile, è l’antimafia come accompagnamento sempre uguale allo spartito infinito delle inchieste, come ruminazione discorsiva continua e continuamente alimentata, a tenere lontana una fetta sempre più consistente della società dalle liturgie cerimoniali. Una messa in latino per gente che vuole ormai parlare un’altra lingua.

Una parte di quel discorso funziona forse ancora: però solo come spettacolo, come denuncia ad uso delle telecamere e a beneficio dei talk show: ci si può sedere e ascoltare, e magari frequentare pure le repliche, ma quanto alla propria, diretta partecipazione, quando questa viene richiesta come una forma di intransigente militanza non solo civile, ma anche morale e soprattutto politica, quella no: quella è un’altra cosa, quella consente per esempio a Ingroia di raccogliere pochi punti percentuali alle elezioni politiche, come è accaduto nelle scorse elezioni, ma non si va oltre. E soprattutto non cambia nulla: non il pulpito, su cui salgono sempre gli stessi professionisti, e neppure quello che c’è sotto di esso.

È accaduto ieri a Palermo, era già accaduto anche in Campania, nei mesi scorsi. Una società che rifiuta certi riti non è necessariamente formata da atei e senza Dio: magari è solo stufa del bigottismo ipocrita che si respira in alcune sacrestie.

(Il Mattino, 20 luglio 2015)

Parole ignobili ma la libertà così è a rischio

dohosuh2Una frase abietta, odiosa, spregevole ha costretto Rosario Crocetta a sospendersi dalle funzioni di Presidente della Regione Sicilia. E tutto il Paese a chiederne le dimissioni. La frase non appartiene a lui, ma al suo medico personale, Matteo Tutino, di recente arrestato, che all’amico governatore dice – senza che il governatore abbia una reazione e accenni una replica, un dubbio, un distinguo – che Lucia Borsellino, la figlia del giudice Paolo Borsellino ammazzato dalla mafia ventitré anni fa, «va fermata, fatta fuori. Come suo padre». Lucia Borsellino si è dimessa  da qualche giorno da assessore della giunta Crocetta, dopo l’arresto di Tutino; la frase incriminata risale invece, almeno secondo il settimanale L’Espresso, che l’ha divulgata, al 2013 (secondo i giornalisti che firmano il pezzo risale invece a «pochi mesi fa»). Per il procuratore capo di Palermo, infine, quella frase non è agli atti, non risulta trascritta nell’ambito del procedimento che ha portato all’arresto del primario: semplicemente non c’è, non esiste.

Fin qui la giornata di ieri, in una ridda di lanci di agenzia, dichiarazioni, comunicati, smentite, richieste di dimissioni, richieste di ispezioni, richieste di elezioni. La gravità di quelle inqualificabili parole spiega da sé come abbiano potuto mettere a rumore l’intero mondo politico, e suscitare un moto di sdegno altissimo: non spiega però perché quelle parole siano finite sul sito del settimanale. Essendo nel frattempo intervenuta la smentita della Procura, la domanda sembra essere solo perché sia uscita una notizia così falsa e infondata. E invece la domanda ci starebbe tutta, anche se quella frase si trovasse effettivamente negli atti segretati di uno dei filoni di indagine su Tutino, come l’Espresso in serata ha, in maniera inquietante, ribadito.

È evidente che è difficile ragionarci su, tanto gravi e pesanti sono quelle parole, tanto immediata e necessaria è la solidarietà a Lucia Borsellino. Però dobbiamo farlo, dobbiamo chiederci ugualmente se è questo che noi vogliamo, se è questo che noi chiediamo alla nostra democrazia, se cioè ci sentiremmo davvero più sicuri, più liberi, più garantiti, se fossero pubblicate tutte le conversazioni, rese note tutte le parole, diffuse tutte le voci che affollano una qualunque conversazione privata: fra un generale e un Presidente del Consiglio – come nel recente caso di Renzi e del generale Adinolfi – così come fra un amministratore e il suo medico, o fra chiunque si trovi a qualunque titolo sotto intercettazione, sia o no ricco o famoso, potente o influente. Di questo infatti si tratta: di una democrazia che rinuncia a porre qualunque intercapedine fra sfera privata e sfera pubblica, che cancella ogni spazio di riservatezza, che sorveglia ogni comunicazione, e che poi affida alla casualità soltanto apparente della fuga di notizie effetti dirompenti, che sconquassano letteralmente le istituzioni.

In nome di cosa? Del diritto a sapere? Ma del diritto a sapere cosa? È chiaro infatti che in questo, come anche in altri casi, non c’è nulla che rilevi da un punto di vista strettamente giuridico: Tutino non è finito agli arresti per tentato omicidio. Le squallide parole riferite – ammesso e dalla Procura non concesso che siano state effettivamente pronunciate – sono dunque pubblicate da un giornale in nome soltanto del diritto a informare e ad essere informati. Ma c’è davvero un diritto a essere informati di cosa passi per la testa di una persona, che in privato, ad amici, oppure tra le mura della propria abitazione confessi per esempio le sue debolezze, o le sue perversioni, o le sue opinioni su questo e quello? C’è un diritto a costringere un uomo a piangere in pubblico, per quello che forse altri ha detto, per un silenzio che forse ha tenuto, per una viltà che forse ha commesso? No, un diritto simile non c’è, non è contemplato dalla Costituzione e non appartiene a una cultura liberale. Non si può giustificare la pubblicazione della ignobile «petit phrase» di Tutino in base al diritto di sapere che genere di persona sia il medico, e che pensi di lui e delle sue supposte infamie Crocetta. In una società liberale, ciascuno ha invece un altro diritto: quello, fondamentale, di essere in privato la persona che vuole essere – cinica oppure beffarda, meschina oppure vile – senza dover temere che l’intrusione di una microspia la strappi ai suoi vizi privati, alle sue abitudini linguistiche e ai suoi scatti d’umore, ai suoi scherzi di cattivo gusto e alle sue espressioni di libidine.

E invece oggi viviamo in questo timore. Certo, noi pensiamo che a una simile esposizione siano condannati solo i personaggi pubblici, i potenti, e ci prendiamo così le nostre piccole, maligne vendette su di loro, per ogni bassezza che ci viene rivelata. Dimentichiamo purtroppo che prima di essere «personaggi» sono «rappresentanti», sono «eletti», e siedono in organi costituzionalmente protetti. Dimentichiamo cioè che l’offesa alla loro libertà snatura la nostra democrazia, forse irreparabilmente. Perché una cosa è certa: per come la conosciamo e l’abbiamo praticata fin qui, l’ultimo dei luoghi in cui è possibile realizzare un ordinamento democratico è una casa perfettamente di vetro, in cui tutti vedono tutto e tutti sanno tutto di tutti. Non si chiamerebbe libertà, non si chiamerebbe democrazia, si chiamerebbe terrore.

(Il Mattino e Il Messaggero, 17 luglio 2015)

Se stare dalla parte giusta è come indossare una divisa

luciaborsellino-975x310«Non capisco l’antimafia come categoria»: così dice Lucia Borsellino, nell’intervista rilasciata a «Repubblica», subito dopo avere lasciato la Giunta regionale siciliana. Dimissioni in qualche modo attese, nel senso che il disagio raccontato dalla figlia del giudice Borsellino data ormai da alcuni mesi. Ma non fa per questo meno male ascoltare dalla sua voce la richiesta di non essere coinvolta nelle commemorazioni del 19 luglio, giorno in cui il padre Paolo perse la vita, ventitré anni fa, per un vile attentato mafioso, che fu capace di scuotere le fondamenta stesse della prima Repubblica.

Lucia Borsellino lascia per dissapori, incomprensioni, per un «abbassamento di tensione anche morale» nel governo siciliano; perché si sono persi di vista gli obiettivi, aggiunge ancora. Ma al di là delle specifiche vicende che l’hanno spinta a concludere anzitempo la sua esperienza politica, c’è anche, nelle sue parole, un allarme più generale, che concerne il significato di un impegno vero, rigoroso, intransigente, per la legalità. Lucia Borsellino lo dice con parole misurate e molto sobrie, ma non per questo meno nette. L’antimafia non può essere una categoria, dice, non può essere una sovrastruttura sociale, la divisa che qualcuno indossa e con la quale esercita con lucro economico o politico una professione. A volte può bastare un cognome, Lucia Borsellino lo sa e non lo può consentire. Lo sa perché ha fatto esperienza di cosa significhi essere tirati da una parte o dall’altra in virtù del solo fatto di portare un cognome. Di certo non significa combattere la mafia: non può anzi esserne nemmeno il surrogato. Proprio non funziona, non è così che si fa e in ogni caso non è così che Lucia Borsellino vuole fare.

Se ne va, dunque, ma restano le sue parole e la sua amarezza, e con quelle bisogna fare i conti. Perché invece di andare con la memoria a Sciascia e alla ruvida polemica contro i professionisti dell’Antimafia, che viene richiamata ogni qual volta occorre dire che tutti, anche i più esperti conoscitori di cose di mafia possono sbagliarsi, è forse più sensato allineare qualche altro segnale a fianco di quello mandato da Lucia Borsellino con le sue dimissioni.

Perché di segnali ve ne sono, purtroppo. Cosa infatti si deve pensare della questione di recente sollevata dal Presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, a proposito della gestione dei beni confiscati alle mafie? Il minimo che si deve pretendere, al riguardo, è che allo Stato riesca di amministrare quei beni meglio di quanto non facciano le organizzazioni criminali. Ma va davvero così? No. E sulla materia degli incarichi agli amministratori giudiziari è un eufemismo dire che l’incertezza regna sovrana. Quel che in effetti regna è una gestione opaca, sia nella determinazione dei compensi che negli affidamenti degli incarichi, con risultati che dal punto di vista della redditività del bene lasciano molto a desiderare (altro eufemismo). Ma il rischio che l’Antimafia significhi spartirsi tra pochi la gestione dei beni che lo Stato sottrae alle mafie esiste eccome. Lo ha capito per tempo il ministro Orlando, che ha predisposto un calmiere delle tariffe, ancora però in attesa di un parere del Consiglio di Stato.

Altro, brutto segnale è giunto in queste ore. L’ex componente dell’Antimafia ed ex parlamentare, Lorenzo Diana – molto noto, come recitano le Agenzie, per il suo impegno e la sua lotta contro i clan, tanto da essere citato da Roberto Saviano nel suo «Gomorra» dalla parte giusta – è indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli per concorso esterno in associazione mafiosa, per una storia di appalti alla cooperativa Concordia. Una storia clamorosa, che forse si sgonfierà presto e che in ogni caso non autorizza nessuno a  pronunciare o anche solo insinuare giudizi di colpevolezza. Ma colpisce il commento di Diana: «Mi sembra – ha detto – di essere tra un sogno e Scherzi a parte». Questo commento può significare, purtroppo, due cose: la prima, che l’accusa è talmente improbabile che non ci si può credere; la seconda, che è talmente improbabile che un simbolo della lotta alle mafie sia inquisito che non ci si può credere.

Non è la stessa cosa, perché nel secondo caso quelle parole indicano, volenti o nolenti, proprio ciò che Lucia Borsellino dice di non poter capire: come l’Antimafia sia divenuta una sovrastruttura, cioè una copertura simbolica che abilita alcuni e solo alcuni a sostenere certe parti, accendendo un’ipoteca morale su chiunque provi a metterle in discussione.

Lorenzo Diana ha ricevuto nel 2008 il Premio Borsellino per il suo impegno. Il premio è sicuramente meritato. Sull’uso del cognome vale per tutti l’avviso della figlia Lucia.

(Il Mattino, 4 luglio 2015)