
Jean Paul Riopelle, Pavone (1954)
Non è dato sapere quanto durerà la bonaccia che tiene al largo la nave del governo Gentiloni, ma prima di arrivare nel porto naturale della fine della legislatura il premier dovrà affrontare più di un’insidia. Nei prossimi giorni, sono a tema il decreto banche, su cui i Cinquestelle stanno facendo ostruzionismo in Parlamento, e lo ius soli temperato che il suo partito, il Pd, vuole approvare in via definitiva, nonostante i malumori dei settori centristi della maggioranza. Per tutta l’estate terranno banco gli sbarchi dei migranti, e infine, dopo l’estate, si aprirà il capitolo della legge di stabilità, e su quella si può star certi che Mdp si smarcherà rumorosamente, lasciando che il governo cerchi i voti che dovessero mancare non a sinistra, ma in altri settori del Parlamento.
Gentiloni non è il mediocre capitano MacWhirr, il protagonista di «Tifone» di Joseph Conrad, «normale, indifferente, impassibile», di poche parole e di ancor meno emozioni, «disdegnato dal destino o dagli oceani», a cui la vita non aveva mai riservato prove estreme prima che si imbattesse nella tempesta perfetta (ma «come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Però come lui, dopo aver navigato per sette mesi in acque relativamente tranquille, deve affrontare «la forza disgregatrice di un gran vento» che, come diceva Conrad, «isola l’uomo dai propri simili».
Gentiloni e il suo governo non sono isolati: godono anzi dell’appoggio pieno della maggioranza. Ma il vento comincia a soffiare. Lo si è già visto alla direzione di Mdp, dove è parsa nettamente prevalere la volontà di prendere le distanze dal governo, ma ancor più lo si vedrà all’approssimarsi della scadenza elettorale. Per la neonata formazione di D’Alema e Bersani, infatti, c’è un solo modo di prendere voti: pescarli fra tutti coloro che, a sinistra, non vogliono più saperne del Pd di Renzi. In politica tutto è possibile, e dunque: dopo le elezioni si vedrà. Ma prima delle elezioni una posizione del genere è incompatibile con la permanenza al governo: scampate le elezioni anticipate, alle quali Mdp non è pronta, è molto probabile che si consumerà il distacco.
Sul significato di questo passaggio c’è però da dire qualcosa di più di quello che le cronache suggeriscono. Contano i posizionamenti suggeriti da una legge elettorale proporzionale, che spinge ad accentuare le differenze in prossimità del voto, e contano pure – è inutile fingere che non sia così – i rancori personali. Ma è sicuramente in gioco anche qualcosa di più. Vorrei dire: una diversa definizione del profilo di una forza di sinistra, che aspira al governo del Paese. Quando il Pd nacque, si sprecarono gli scetticismi sulla fusione a freddo e sul cattivo amalgama. La parte di ragione che vi era, in quegli esercizi di diffidenza, non stava tanto nelle distanze che ancora segnavano i rapporti fra i Ds e la Margherita, sul piano della cultura politica e dei quadri dirigenti, quanto in ciò, che la collocazione di una nuova forza politica discende piuttosto dagli «oggetti» a cui si applica: dai temi o dalle sfide su cui è chiamata a misurarsi. Quegli oggetti furono sottratti al Pd dalla rovinosa sconfitta alle elezioni del 2008. Fu quindi facile dedicarsi piuttosto, dall’opposizione, alla lotta politica interna (che portò in rapida successione da Veltroni a Franceschini, da Bersani a Renzi). Quando arrivò la prima prova di governo, essa fu condotta sotto lo stigma della necessità: con Monti e poi, in buona misura, anche con Letta. Solo con Renzi tutto è cambiato, e il fatto che lo abbia sgradevolmente ricordato al suo predecessore non riguarda solo la scarsa simpatia fra i due. Renzi aveva effettivamente una legittimazione politica molto più ampia di quella di cui godeva Letta. Forte del consenso ottenuto nelle primarie, aveva il compito di raddrizzare la barca, ma anche quello di definire la fisionomia del partito intorno a una vera sfida di governo: dalle riforme istituzionali al jobs act, passando per le altre misure in tema di politiche scolastiche o di politica economica. La rottamazione (giusta o sbagliata che fosse) è stata il mezzo, non il fine.
Lo smacco del 4 dicembre ha rimesso clamorosamente in discussione il percorso fin lì seguito da Renzi, ma proprio per questo egli è obbligato a riprendere la questione di cosa sia il partito democratico a partire, nuovamente, dagli «oggetti» su cui il Pd deve riuscire a dire la sua. E questa volta non si tratta di sceglierli, perché sono già lì, dati dalla linee divisorie che tracciano nell’opinione pubblica e negli schieramenti politici: anzitutto il tema dei migranti, quindi il tema della costruzione di un nuovo europeismo (nell’epoca segnata, con Trump, dal declino della forza ‘ordinatrice’ americana). Non c’è molto altro, nell’agenda dei prossimi mesi. Ma è abbastanza non solo per definire la rotta del partito democratico, ma anche per far sobbalzare la nave del governo.
«Sta arrivando del maltempo», pensò laconicamente MacWhirr all’approssimarsi del tifone. Ma, si abbatta o no sull’esecutivo, la bufera sarà comunque, per il Pd, la prova di cosa significhi essere di sinistra aspirando, insieme, alla guida del Paese. Perché l’altra strada, quella di essere, anzi sentirsi di sinistra al riparo da ogni burrasca, cioè indipendentemente dalle responsabilità di governo, si vede già cosa consente: che a dibattere ciarlieri sul futuro del mondo, della sinistra, del lavoro, si presentino quattro o cinque distinte formazioni, con l’unico collante (se mai verrà usato) dall’antirenzismo.
(Il Mattino, 13 luglio 2017)