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Una sanzione non fa primavera

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La destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo non è ancora operativa. Dopo l’assemblea plenaria di ieri, dovrà essere il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa a dar seguito al parere espresso dall’adunanza generale. Ma ormai il percorso è tracciato ed è assai improbabile che un pronunciamento quasi unanime venga disatteso. D’altra parte, a prescindere da futuri risvolti giudiziari, il caso di un alto magistrato che si occupava della lunghezza delle minigonne delle borsiste della propria scuola, o del quoziente di intelligenza dei di loro fidanzati, era così abnorme, e così poco consono alla funzione magistratuale, che subito era parsa inevitabile la massima sanzione disciplinare.

Ma per un organo di autogoverno che fa pulizia al proprio interno ce n’è un altro che invece fa finta di nulla. E intanto incassa. È accaduto infatti, lo ha raccontato “Il dubbio” la scorsa settimana, che nell’ultima legge di stabilità, fra un comma e l’altro della legge, venisse infilata una norma piccola piccola, che coi conti dello Stato non c’entra assolutamente nulla, ma che al Consiglio Superiore della Magistratura non sarà affatto dispiaciuta. La norma dice che il membro togato che termina il suo servizio a Palazzo dei Marescialli può finire immediatamente a capo di qualche Procura (o assumere qualche prestigioso incarico extra-giurisdizionale). Prima era previsto un intervallo di due anni, poi di uno soltanto, adesso nessuno. Così il do ut des è più rapido ed efficace: io aiuto te a entrare al Csm; tu ti mostri subito riconoscente con me, nominandomi alla guida di un ufficio. Se c’è un modo per rafforzare il controllo sulle funzioni apicali, e di riservarli a una cerchia ristretta in grado di assicurare una gestione corporativa  del potere in seno alla magistratura, beh: la norma approvata è precisamente quel modo. Ne rappresenta anzi lo stadio supremo.

Permettetemi di dire: capisco lo scandalo, ma delle due notizie la seconda avrebbe meritato molta più attenzione della prima. Ed è molto più grave. Perché il caso Bellomo è il caso di un uomo che aveva evidentemente perso qualunque senso del proprio ruolo. Fa scalpore, produce articoli e commenti, ma rimane una vicenda individuale, circoscritta al ridicolo superomismo del personaggio, che inevitabilmente si conclude con il suo allontanamento dai ranghi della Magistratura. Nel caso invece della norma piccola piccola che il Parlamento ha votato, non si sa se in piena consapevolezza o in modo colpevolmente distratto, siamo dinanzi all’ultima pennellata su un quadro istituzionale sempre più sbilanciato a favore di un soggetto, la magistratura, sempre meno contenuta nel suo ordine. La magistratura, ma certo è più corretto dire, in particolare, certe sue espressioni organizzate. Sta di fatto che, ora, può accadere che un membro del Csm si chiuda dietro di sé la porta di Palazzo dei Marescialli per vedersi aperta immediatamente la porta di qualche ministero, o vedersi affidata la direzione di qualche importante ufficio. Come se non accadesse già dell’altro: magistrati che si mettono a fare politica negli stessi territori dove hanno esercitato le loro funzioni, o che non disdegnano di assumere addirittura la guida di un partito (che qualche volta fondano a proprio uso personale). Ora è la volta di Pietro Grasso, ma arriva buon ultimo dopo i vari Di Pietro, Ingroia, De Magistris.

E come non chiedersi quanto opportuno sia che dal vertice dell’Autorità Nazionale Antimafia si arrivi rapidamente in Parlamento? Non c’è forse il rischio che l’istituzione né venga svilita, risolvendosi (al di là delle intenzioni soggettive, sicuramente nobilissime) in una sorta di passerella per il successivo ingresso in politica? Eppure, stando alle voci raccolte dai giornali, per Franco Roberti si starebbe profilando in queste ore una candidatura al Senato. Come se trascorrere nel giro di poche settimane dai vertici dell’Antimafia ai palcoscenici della politica nazionale fosse il più logico degli approdi possibili.

Le cause generali di questo stato di cose sono state raccontate fino alla nausea, e assommano tutte alla debolezza di una politica in prolungato deficit di autorevolezza. Così va avanti da anni. E ora che l’antipolitica non disdegna di scegliere fra i magistrati i suoi eroi, figurandoseli al governo del Paese, va anche peggio. Ma non è una buona ragione per rassegnarsi, o per soprassedere. Anzi, forse è un motivo in più per chiedersi e chiedere dove, come e quando si troveranno le forze per ripensare daccapo i rapporti fra politica e magistratura, per riformare il Csm, e magari per mettere mano a quella separazione delle carriere. Che per ora è solo una battaglia simbolica dell’avvocatura, ma che un Paese che volesse davvero cambiare dovrebbe avere il coraggio di cominciare almeno a discutere.

(Il Mattino, 11 gennaio 2018)

La magistratura malata di correntite

 

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R. Morris, Three Rulers (1963)

La nomina del procuratore della Repubblica di Napoli – una buona notizia, dopo mesi di supplenza – sta suscitando un vespaio di polemiche. Il voto al CSM, che ha scelto a maggioranza Giovanni Melillo – non è piaciuto a “Unità per la Costituzione”, che dopo essersi espressa compattamente, in seno al Consiglio, a favore di Federico Cafiero de Raho, ha diramato un lungo comunicato per esprimere la propria insoddisfazione per la linea adottata dall’organo di autogoverno della magistratura.
Nessuno dei motivi ripresi nel comunicato – due, essenzialmente:  la maggiore anzianità in servizio di Cafiero de Raho, e la vicinanza di Melillo al governo, avendo avuto un legame fiduciario con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, di cui è stato Capo di Gabinetto fino a poco tempo fa – è in realtà rimasto fuori dalle considerazioni svolte nella discussione al CSM. Tuttavia i vertici di “Unità per la Costituzione”, insoddisfatti e per nulla persuasi, hanno voluto ribadirli. E, nel ribadirli, hanno:
ricordato le qualità di Cafiero de Raho che, a loro dire, lo rendevano preferibile per il ruolo di procuratore; mostrato apprezzamento per la “compattezza” dei propri rappresentanti in seno al Consiglio; preso atto della scelta diversa operata non solo dai membri laici del CSM ma anche dai “prorogati componenti di diritto”, che è un modo obliquo e reticente per dire che la nomina di Melillo è stata, per Unicost, voluta dalla politica, e dai magistrati che devono ringraziare la politica per essere ancora in carica; espresso, infine, perplessità, per la scelta di quei membri togati che hanno preferito Melillo a De Raho (nonostante, è il poco gentile sottinteso, la toga che portano).
Il comunicato termina con un augurio di buon lavoro al nuovo procuratore, che dopo tutto quel che si è letto fin lì, suona puramente di circostanza.
Ora, è chiaro che dopo la spaccatura del CSM, Melillo dovrà lavorare per stabilire un clima di collaborazione, di fiducia e di rispetto reciproco, il che è peraltro indispensabile per il buon funzionamento di qualunque struttura complessa. È chiaro pure che le sfide di un territorio come quello napoletano “pervaso da potenti organizzazioni criminali” – come scrive Unicost nell’ultimo rigo del suo comunicato – richiedono anzitutto unità di intenti, e le polemiche non sono certo il miglior viatico per il nuovo Capo della Procura. Ma il commento critico che Unicost non ha saputo evitare di dettare fa soprattutto questo effetto, di ricordare anche al più distratto dei suoi lettori qual è il peso delle correnti in magistratura e quali sono le logiche con cui si muovono.
Gli esponenti di Unicost nel CSM si sono mostrati compatti, e il  Presidente e il Segretario del loro partito esprimono grande apprezzamento, proprio come il capo di una corrente democristiana d’antan poteva congratularsi con i propri esponenti all’indomani di un voto in Parlamento. Tutto il fulcro del ragionamento ruota intorno all’imparzialità che il magistrato deve assicurare: non solo essere, ma anche apparire imparziale. E Melillo, per via dell’incarico a via Arenula, non avrebbe questo fondamentale requisito. La qual cosa, ovviamente, non viene detta così: chiara e tonda; ma lasciata intendere, come nel più tradizionale teatrino delle dichiarazioni che i politici rilasciano a margine di un congresso, o di una riunione di direzione. Dopodiché, però, più della rivendicazione della necessaria distanza dalla politica, quel che si sente distintamente, nelle parole usate dalla corrente, è non una rivendicazione di indipendenza ma una rivendicazione di appartenenza, uno spirito di corpo: i miei e i tuoi, gli amici egli avversari, quelli che stanno con me e quelli che stanno con gli altri, o si fanno comprare dagli altri.
Non è mai troppo tardi per accorgersi della politicizzazione della magistratura e della sua degenerazione correntizia, naturalmente. Ma quando (e se) ce ne si accorge, più che prendersela con il prescelto della corrente avversa, sarebbe bene che si provasse a mettere mano seriamente a una riforma dell’istituzione. E invece l’unica riforma che, in materia di giustizia, non ha fatto nessun passo, né in avanti né indietro, né in bene né in male, è la riforma del CSM. Per forza: il governo ha deciso di aspettare l’autoriforma. Campa cavallo. Così il Consiglio Superiore della Magistratura può limitarsi a emanare serissime e più stringenti circolari, per esempio in materia di incarichi, per poi applicarle, disapplicarle o diversamente applicarle a seconda delle esigenze. E, sempre a seconda delle esigenze, o meglio degli interessi in gioco, troverà quelli che ne lamentano l’applicazione, quelli che ne lamentano la disapplicazione, e quelli che ne lamentano la diversa applicazione. In un festival dell’ipocrisia, per cui stavolta sobbalza Unicost, la prossima volta si inalbera Area, e la volta ancora dopo chissà chi.
Non è, come si vede, questione di come possa lavorare Melillo a Napoli e di quale clima troverà in Procura, ma, purtroppo, di come funziona la giustizia italiana.
(Il Mattino, 1° agosto 2017)

Napoli, la Procura scoperta e i giochini delle correnti

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Dal momento in cui il procuratore Colangelo ha lasciato la Procura di Napoli sono trascorsi 148 giorni, circa cinque mesi. L’ufficio statistico del Csm, che ha analizzato l’attività del Consiglio mettendola a confronto con quella svolta nelle precedenti consiliature, non troverebbe questo numero elevato, tutt’altro. I tempi medi che intercorrono tra l’apertura della pratica e la delibera di conferimento dell’incarico ammontano infatti a 295 giorni. E sono pure in calo, visto che nella consiliatura precedente erano 344: quasi un anno. Il ritardo, dunque, non è affatto anomalo. E però lo stesso Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, mentre faceva presente a questo giornale, lo scorso 29 marzo, che la pratica è spinosa, che il Csm ha da smaltire un numero eccezionale di nomine, e che la sua produttività è stata comunque superiore a quella degli anni passati, formulava comunque l’auspicio che la sede della procura più grande d’Italia potesse avere un procuratore presto, «prima dell’estate».

Ora, se si riferiva all’inizio dell’estate astronomica, l’auspicio non si è realizzato perché l’estate è cominciata puntuale – il 21 giugno, alle 4,24, ora del solstizio – e il procuratore a Napoli non c’è ancora. Se invece intendeva riferirsi alla conclusione della stagione, allora mancano ancora poco meno di tre mesi: ma davvero la Procura di Napoli può attendere altri tre mesi senza la nomina del suo vertice?

A leggere le pagine dei giornali su inchieste scottanti, fughe di notizie clamorose, avvisi di garanzia mai spiccati prima, intercettazioni e manipolazioni, c’è da dubitarne. Naturalmente nessuno mette in discussione la serietà, l’impegno e le capacità del procuratore aggiunto, Nunzio Fragliasso, che sta reggendo la Procura in questi mesi. Ma la complessità di un ufficio gravato da una enorme mole di lavoro, con molte inchieste delicate per le mani, esposto anche a polemiche e sollecitazioni le più diverse, esige che si proceda con la massima sollecitudine. Tanto più che si tratta di indicare una figura istituzionale di assoluto rilievo, a cui spettano non solo grandi responsabilità ma anche una cifra simbolica ragguardevole, soprattutto in una città come Napoli.

Ora, non c’è bisogno di chissà quale retroscena per comprendere le ragioni per cui si temono ulteriormente slittamenti, oltre la prossima riunione della Commissione deputata, fissata per il 6 luglio, e, a quel punto, ben oltre il solleone agostano. Quelle ragioni stanno infatti nelle parole molto franche e molto trasparenti usate dallo stesso Legnini, nella citata intervista napoletana: «Tutti sappiamo che la scelta del Capo di un ufficio è il frutto della coniugazione di valutazioni di merito con il voto in Commissione e in Plenum, essendo il Csm un organo elettivo e democratico». Manca la parola “politico”, ma è chiaro che dove c’è democrazia e dove ci sono elezioni c’è, legittimamente, la politica. Con questo Csm, c’è poco da fare: questo è il metodo. Altre volte Legnini ha spiegato, parlando del lavoro del Csm in materia di nomine, che bisogna riconoscere il cambiamento in atto: «è in corso un eccezionale ricambio alla guida degli uffici, che ridisegnerà il volto del sistema giudiziario italiano, con magistrati scelti per incarichi di vertice in base al merito».  Ma per esplorare i meriti dei principali candidati in lizza, non ci vogliono tutti questi mesi. Indipendenza e professionalità non sono in discussione: il punto forte del curriculum di Federico Cafiero de Raho è la sua esperienza investigativa; il punto forte del curriculum di Giovanni Melillo è la competenza in materia di organizzazione degli uffici. Questa essendo la materia della decisione, si tratta appunto di decidere. Se non si vuole dare l’impressione che la «coniugazione di valutazione di merito» passi del tutto in secondo piano rispetto al coniuge con cui la si deve coniugare, cioè alla composizione degli equilibri fra le correnti, bisogna allora estrarre senza indugi dal pacchetto delle nomine la procura di Napoli e procedere, con una piena assunzione di responsabilità da parte del Csm.

Anche perché se non c’è oggi un vuoto di direzione, c’è sicuramente bisogno di un cambiamento di direzione rispetto a situazioni consolidate, a modalità di lavoro e a linee di azione giustificate più dall’abitudine che dai risultati. E più dalla ricaduta nel dibattito pubblico che da quella nelle dinamiche processuali in aula.

Il progetto di innovazione portato avanti nei mesi scorsi dalla procura di Napoli, e i cambiamenti radicali che saranno comportati dalla piena digitalizzazione dei fascicoli penali, impongono un ripensamento degli assetti operativi, organizzativi e tecnologici degli uffici. La lentezza della giustizia non è infatti solo un problema normativo, ma è anche un problema organizzativo: a Napoli, e in tutta Italia. Certo però che se, per far maturare il «frutto della coniugazione» ci vuole così tanto tempo, allora non c’è innovazione né organizzazione che tenga: si rischia di rimane chissà quanto sotto l’albero del Csm col braccio teso, ad aspettare.

(Il Mattino, 29 giugno 2017)

Eclisse di Stato: l’unico orizzonte è giudiziario

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In tempi di avvilimento pubblico è impossibile ogni forma di grandezza: è un pensiero di Antonio Gramsci che vale bene per l’epoca nostra, la cui narrazione è più avvilente che mai. L’almanacco quotidiano delle inchieste reca, alla data di oggi: la condanna a sette anni e sei mesi per estorsione, inflitta a Nicola Cosentino, ex sottosegretario al Tesoro e uomo forte del centrodestra in Campania; 69 arresti, tra cui alcuni eccellenti, per appalti truccati, e reati che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta. Il Gip che firma l’ordinanza parla della punta di un iceberg. In quella punta sono addossati l’uno all’altro politici e professionisti, tecnici e imprenditori. Completano la giornata le perquisizioni a Palazzo di Giustizia, nell’ambito dell’inchiesta sull’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e il voto sulla sfiducia (respinta) al ministro Luca Lotti, sempre sul caso Consip. Perfino le pagine sportive avviliscono, con i dirigenti della Juventus convocati dalla Commissione parlamentare Antimafia.

Ebbene, che Paese è questo, che si può raccontare solo in termini di inchieste, scandali, tangenti? Non voglio fare il solito discorso sul garantismo e sul giustizialismo: in questione non è se siano tutti innocenti o tutti colpevoli, ma la domanda su quel che resta della vita pubblica di un Paese quando tutto finisce in coda alla montagna di carte che si riversa sui giornali, le redazioni, i notiziari televisivi. Persino il voto di ieri del Senato sulla riforma del processo penale (che contiene anche inasprimenti di pena a gran voce richiesti su reati come furti e rapine, e la delega al governo su intercettazioni e ordinamento penitenziario) passa non in secondo, ma in terzo o quarto piano, vista la quantità di notizie fornita dalle cronache giudiziarie. E la stessa sorte tocca alla politica estera, col voto in Olanda, alle notizie economiche, col referendum sui voucher, all’udienza del Papa, con le forti parole di solidarietà ai lavoratori licenziati. Tutte notizie relegate nei tagli bassi, solo dopo avere traversato sani e salvi la burrasca dell’attività inquirente.

A suo tempo, Gramsci diceva che i grandi giornali redigono la cronaca giudiziaria secondo gli schemi e le attrattive del romanzo d’appendice. I lettori, evidentemente, si appassionano. Ma quali altre passioni civili e politiche restano, quando non vi sono altre carte da leggere, quando sfogliare un giornale significa leggere le migliaia di pagine che accompagnano le ordinanze di custodia cautelare?

Di nuovo: il punto non è se i quotidiani facciano bene o male, e neppure se non debba essere denunciato il solito circuito mediatico-giudiziario: queste riflessioni le abbiamo già proposte molte altre volte, e sono comunque impari rispetto alla mole delle inchieste in corso. Lasciamo pur dire che non bisogna prendersela con chi racconta i fatti, ma con chi li commette. Resta però il dato che il fiume in piena della giudiziaria travolge ogni altra possibilità di discorso pubblico, e rende consunte e inservibili tutte le categorie con le quali si pensava di poter leggere il mondo.

Sempre Gramsci: «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura». Gramsci continuava spiegando che no, non si tratta di uno scherzo, ma oggi: come potremmo noi continuare? È più facile, molto più facile, che qualcuno scriva sul suo blog che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come collusi o inquisiti, e che, pur essendo un comico di professione, aggiunga che non si tratta affatto di uno scherzo o di una caricatura, ma del discorso ormai egemone nella società.

Così è. Il populismo imperante si nutre di questa opinione diffusa, di questo luogo comune – alla lettera: è il luogo nel quale tutti siamo – di questa maligna intelligenza delle cose e della realtà. E fornisce la chiave d’interpretazione presso che esclusiva degli eventi politici, economici o sociali: perché il declino dell’Italia? Perché i politici rubano. Perché la Juventus vince lo scudetto? Perché la Juventus ruba. Perché non c’è lavoro? Perché gli immigrati ce lo rubano. Ruberanno pure tutti quanti, ma purtroppo non basta affatto arrestare, espellere o squalificare tutti, per avere la crescita, il lavoro o lo scudetto.

Quello che invece si ottiene, è un drammatico impoverimento dello spazio pubblico, e l’eclisse di ogni idea di grandezza associata alla vita dello Stato, alla politica e alle istituzioni. Proprio come diceva Gramsci. Che in fondo variava, in una prospettiva storica, una vecchia frase, ripreso in tanta letteratura moderna, da Montaigne a Hegel: che nessuno è eroe agli occhi del proprio cameriere. L’adagio non contiene la sdegnata protesta aristocratica nei confronti del punto di vista basso e volgare del popolino. Né è la «casta» degli eroi che si lamenta perché i camerieri origliano, intercettano e diffondono. Quel che è in gioco, è se mai la necessità di non perdere del tutto la memoria della grandezza che la politica ha mantenuto per tutto il Novecento. E che, se non fornisce eroi, procura almeno il senso dei compiti ai quali si è chiamati quando la storia del mondo si rimette in moto, come sta prepotentemente accadendo in questi anni. Proprio mentre l’Italia, consumata nel suo spirito pubblico, scivola purtroppo sempre più ai margini.

(Il Mattino, 16 marzo 2017)

Il romanzo del partito delle toghe

Acquisizione a schermo intero 09052016 110551.bmpNel racconto ordinario degli ultimi venticinque anni di vita pubblica italiana ci sono essenzialmente due cose: l’inchiesta Mani Pulite e Silvio Berlusconi. Da un paio di anni si è aperto un terzo tempo, legato all’ascesa di Matteo Renzi: prima alla guida del Pd, poi alla guida del Paese.

Si tratta naturalmente di un racconto parziale. Qualunque elettore di centrosinistra si preoccuperà di aggiungere che no, c’è stato anche l’Ulivo (e la sinistra al governo, e il primo capo di governo ex-comunista). Ma in quel racconto ordinario – che non ha doveri di accuratezza storiografica – queste cose figurano come intermezzi rispetto ai due elementi assiali, determinanti l’uno nella destrutturazione del campo politico, l’altro nella sua successiva riconfigurazione. Ma soprattutto l’uno e l’altro evento sono fra di loro legati, nel discorso pubblico, dalla centralità che vi ha avuto il conflitto con la magistratura. Cosicché è difficile sottrarsi alla domanda, se non stia accadendo la stessa cosa oggi: mentre un nuovo assetto politico prova a consolidarsi attorno alle riforme di Renzi (e alla madre di tutte: la riforma costituzionale), si acutizzano i motivi di tensione con le toghe. E così prende di nuovo forma una narrazione imperniata principalmente sui temi della legalità e della giustizia da una parte, della corruzione e dell’inquinamento della politica dall’altra.

Le dichiarazioni rilasciate a più riprese da Piercamillo Davigo, neo-Presidente dell’Anm, o da ultimo quelle attribuite al membro togato del CSM, Piegiorgio Morosini, hanno avuto anzitutto questo significato. Prima ancora di riguardare punti di merito, esse hanno rilanciato il genere letterario di maggior successo in questi anni, quello nel quale la magistratura fa la parte del protagonista buono, mentre la politica ha il ruolo dell’antagonista cattivo.

Ora, a ben vedere né gli anni di Tangentopoli né quelli del berlusconismo possono essere ricondotti sotto quest’unico canone. Un conto è la vulgata, un altro è la realtà storica. Per quanto forti siano stati nei primi anni Novanta gli scossoni dell’inchieste del pool di Mani Pulite, la caduta del Muro, la fine dell’ordine internazionale fondato sui due blocchi – americano e sovietico – e infine la nuova realtà europea (con i relativi vincoli economico-finanziari) sono stati almeno altrettanto decisivi, perché l’Italia voltasse pagina. Lo stesso dicasi per il berlusconismo: gli appassionati del genere letterario di cui sopra lo racconteranno magari come un improvviso bubbone di illegalità, ma lo spostamento di orizzonte prodottosi con l’egemonia del Cavaliere intorno ai temi di una possibile agenda liberale del Paese – certo mescolati con dose abbondanti di moderatismo, leghismo e populismo –è stato ben più significativo dei problemi di legge e pubblica moralità nei quali è più volte inciampato Berlusconi, ogni volta tirandosi dietro polemiche al calor bianco con le cosiddette toghe rosse.

Però quel racconto resiste, anzi si cronicizza, e rimane così la sceneggiatura di gran lunga più sfruttata non solo per raccontare quel tempo, ma anche per interpretare la stagione corrente.

La qual cosa certamente non giova alla politica, e giova invece a tutti gli altri poteri che prendono maggiore forza dalla debolezza delle istituzioni rappresentative. Non c’è ovviamente bisogno di immaginare complotti orditi da chissà chi. Perché quando si tratta di trame occulte, è facile cominciare ipotizzando piccoli interessi di bottega per poi finire col tirar dentro i servizi segreti, la Cia e il Mossad. Oppure gli immancabili poteri forti, tipo la DeutscheBank su cui indaga nientemeno che la procura di Trani. Molto più banalmente, è ragionevole ritenere che più leggero si fa il peso della volontà politica, la quale sempre meno riesce ad essere davvero sovrana, e più corpi e organi dello Stato se ne vanno per proprio conto, «iuxta propria natura». Ampliando i propri spazi d’intervento, acquisendo di fatto un ruolo politico, soddisfacendo pure a qualche più prosaica esigenza sindacal-corporativa (vedi alle voci: ferie dei magistrati).

In Italia, questa dinamica è stata peraltro preparata da un progressivo smottamento della cultura garantista, che viene da lontano: dall’emergenza terroristica prima, da quella mafiosa poi. L’una e l’altra hanno alimentato la convinzione che prima viene il contrasto e la lotta, poi, se mai, il diritto e le garanzie. Se dunque il fenomeno della corruzione si presenta come la nuova emergenza, il gioco è fatto, e si può riprendere il filo di quella venticinquennale narrazione che alla magistratura continua ad assegnare una decisiva, e a volte debordante,funzione surrogatoria.

E invece: c’è o no un tema di durata ragionevole dei processi? C’è un problema con la diffusione straripante delle intercettazioni? C’è uno squilibrio fra la fase delle indagini, e quella della celebrazione vera ed effettiva dei processi? C’è un’esigenza ordinamentale, anzitutto di riforma del CSM? Ci sono abusi nell’uso della custodia cautelare? E ci sarà sempre bisogno di legislazioni speciali e doppi binari processuali? C’è, infine e soprattutto, spazio per discutere questi punti «sine ira ac studio», senza cioè che si opponga che, poche storie, il problema è la corruzione, e chi suggerisce altri motivi è semplicemente complice, colluso o connivente?

Insomma: il terzo tempo di questa lunghissima transizione oltre i confini della prima Repubblica si accoderà ai primi due, seguendo il medesimo palinsesto, oppure proverà a costruirne uno nuovo?

(Il Mattino, 9 maggio 2016)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)