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Gomorra, la dimensione unica del male

gomorra-mania-serie-326948«Adesso ti portiamo alle Vele», e Claudio Giovannesi – ultimo arrivato nella squadra di registi arruolati per la seconda serie di Gomorra, che comincia questa sera – monta sul pulmino a nove posti e si fa il suo primo giro dalle parti di Scampia. Lì, tra quei palazzi e quelle strade, dove un tempo dominava incontrastato il boss Pietro Savastano, nuove alleanze si fanno e si disfano, e lì gli autori di Gomorra, a dieci anni di distanza dall’uscita del libro di Roberto Saviano, tornano a raccontare la geometrica potenza del Sistema.

Gomorra-la serie, giunta alla seconda stagione, è un prodotto di grandissima qualità, e una delle ragioni del suo successo è sicuramente nella cura meticolosa con la quale la realtà napoletana viene rappresentata. Non solo il crimine organizzato e i suoi efferati delitti, ma proprio la città, i quartieri, gli spazi: i muri e i cortili, gli svincoli e le reti di recinzione, gli appartamenti dove i camorristi vivono e i capannoni abbandonati dove versano la benzina per bruciare auto e corpi, dopo l’ultimoomicidio.

Non c’è nulla, in questo racconto crudele e disperato della città, che debba essere tolto per ragioni ideologiche o morali, e davvero non si capirebbe l’ennesima polemica sui panni sporchi che si lavano in famiglia. L’idea di Saviano, condivisa con gli sceneggiatori della serie, era, fin dall’inizio, che non doveva esserci il bene. Non doveva, perché non poteva. Nel corso della conferenza stampa di presentazione dei primi due episodi della serie, Saviano ha molto insistito sull’ambizione di mostrare anzitutto i meccanismi di funzionamento del potere. E il potere è il male. Saviano ha parlato di meccanismi, volendo con ciò intendere che il cuore della narrazione è nelle dinamiche del potere – le stesse ovunque – liberate da qualsiasi patina di mediazione, da qualsiasi imbellettamento o edulcoramento. Ed è così che si vedono in Gomorra, nude come le mani che uccidono, quando a finire un uomo non sono invece i colpi sparati in testa, a bruciapelo. È così che la vicenda criminale aiuta a rappresentarle. Nel book distribuito per la stampa Saviano scrive: «La testa di un boss ragiona esattamente come quella di un amministratore delegato o del direttore di un supermercato o di un Primo Ministro: il potere ha un’unica dimensione e ha sempre la stessa logica». In conferenza stampa ha poi aggiunto che, certo, il racconto parte da Napoli, ma non con l’obiettivo di raccontare Napoli al mondo, bensì con quello di raccontare il mondo – o meglio: l’unica dimensione su cui si regge la struttura del mondo – a partire da Napoli. Così sarebbe persino sbagliato dire che è una serie «napoletana», benché venga difficile immaginarla recitata in un’altra lingua. Eppure il mercato estero la compra, accettando nei sottotitoli un linguaggio omologato.

Evidentemente, l’idea di fondo è abbastanza robusto per costruisci sopra le dodici puntate della fiction. Se poi basti anche a stringere davvero, in un unico plesso, l’essenza del potere è altra faccenda, e ci torneremo. Ma intanto la serie funziona, secondo tutti i crismi delle migliori produzioni internazionali. Pietro Savastano, il vecchio boss fuggito dal carcere di massima sicurezza, cerca di riprendersi il suo pezzo di città. Il figlio Genny è anche lui tornato. Lo avevamo lasciato in fin di vita al termine della prima serie; a distanza di un anno da quei fatti è in combutta coi cartelli sudamericani della droga edè deciso anche lui a vendicarsi dei traditori, di Salvatore Conte, di Ciro Di Marzio e degli altri scissionisti che hanno stretto un’alleanza fondata sulla spartizione delle piazze di spaccio.

Il gioco principale è fra di loro: il padre, il figlio, l’amico (che tradisce), il rivale (che si allea col traditore).Le loro vite sono fatte di tre cose, di tre cose soltanto. Essi uccidono, ed è essenziale che sappiano farlo con assoluta spietatezza. Comunicano, ma lo fanno sempre con il massimo risparmio di parole, al telefono o di persona. Infine si spostano, in grosse auto dai finestrini quasi sempre alzati, o su potenti moto. Tutte e tre queste azioni comportano delle rinunce, ma quella che colpisce di più è la rinuncia all’aria aperta. La Napoli di Gomorra è una città claustrofobica: si vive in spazi limitati, anche quando si hanno a disposizione ville o lussuose camere d’albergo. Ma i personaggi escono da un appartamento ed entrano in un’auto, oppure scendono dall’auto, salgono le scale e di nuovo sono in un appartamento. O in qualche cantiere abbandonato. Molto raramente si avventurano nello spazio aperto. Per Saviano, la serie ha fra l’altro il pregio di raccontare come si assegna un appalto, o come si tiene una piazza di spaccio, o come si truccano le elezioni. Ma ancor meglio racconta che cos’è l’impero della violenza e dell’illegalità questa impossibilità di attraversare liberamente un luogo, di andare da un lato all’altro della strada senza temere un agguato.

Con questo è esaurito il racconto di Napoli, il racconto del nostro Paese? Ovviamente no. Ma è difficile farne colpa a Saviano o a Sollima. È anzi un fatto positivo che l’Italia entri con le storie di Gomorra nel mercato oggi più promettente, sia dal punto di vista commerciale che da quello artistico. Un mercato che ha cambiato profondamente la televisione, elevandola sullo stesso piano della cinematografia – a giudicare almeno dagli sforzi produttivi e dalle risorse impiegate. Il fatto negativo è se mai che il Paese non riesce ad essere più grande e più ricco delle storie che di esso si raccontano. Anche serie americane come House of Cards, infatti, non regalano certo un quadretto edificante della vita pubblica americana, ma in quel caso è più facile pensare che c’è dell’altro, oltre quello che si vede. Washington è corrotta? Forse, ma resta Washington e mantiene una sua grandezza anche se gli inquilini della Casa Bianca vi ordiscono inconfessabili trame.

In tutte le storie è richiesto allo spettatore una sospensione di incredulità: il che però non vuol dire solo che le storie debbono essere credibili, ma che esse devono la loro credibilità anzitutto a una logica e a una coerenza interna, alla quale lo spettatore può abbandonarsi senza preoccuparsi di doverla mantenere anche dopo, anche a proiezione ultimata. Con Gomorra è un po’ diverso, perché l’esperienza di staccare, di varcare una soglia, lasciando la realtà per godere della sua rappresentazione – ebbene: quell’esperienza è molto più labile. Napoli corrotta e dominata dal Sistema è Napoli, a tutti gli effetti: non arriva altro. Anzi, un pezzo della forza del racconto dipende proprio dalla grande capacità di affermare che non c’è altro.

Così torniamo all’assunto, all’essenza del potere, allo «schifo umano» che c’è e deve essere rappresentato per com’è. Ma potere è insieme Kratos e Bia. Lo insegnava Eschilo, e non per raccontare storie edificanti. Ma mentre Bia è la violenza muta e senza parole, Kratos è invece quella stessa violenza, portata però dentro una cultura, dei costumi, sotto delle leggi. In Gomorra, questa dimensione è completamente assente, al punto che le stesse dinamiche di potere quasi non toccano la sfera pubblica: sono dinamiche assolutamente centripete, piegate verso l’interno, verso il cuore del potere criminale, senza un interesse reale per tutto il resto, neppure – che so – per un poliziotto da corrompere o un magistrato da assassinare. Il che non nuoce certo alla narrazione, che anzi si mantiene compatta e potente, magnifica e feroce, spettacolare ed efferata. Ma se l’obiettivo è anche mostrare che cos’è il potere, allora sia permesso di dire che forse se ne mostra soltanto una metà.

(Il Mattino, 10 maggio 2016)

Sì d'accordo però

Un po’ mi dispiace, forse deluderò qualcuno, ma io sono d’accordo con mons. Betori. Non può essere la coscienza individuale giudice del bene e del male. Il bene e il male sono (semplifico un po’) come l’azzurro del cielo: il cielo è azzurro, qualunque cosa ne pensi la coscienza individuale. (Se qualcuno pensa che invece no, non è così, non potrà giocoforza opporre alla mia opinione alcuna buona ragione).
Già, ma la coscienza individuale può pensare qualunque cosa di qualunque cosa, o nemmeno questo può? Rientra nei suoi diritti, o no? E se anche non si decide in base all’unico criterio della coscienza individuale che questo o quello sia un bene per l’individuo, è l’individuo libero di pensarla come vuole e di farsi del male, o no? Io penso: a volte sì, a volte no. Mio figlio non è libero di farsi del male: glielo impedisco io. C’è allora un momento in cui mio figlio è libero di mandarmi a quel paese, anche quando gli insegno cosa è bene e cosa è male, perché tocca pur sempre a lui, di vedere da sé cosa è bene e cosa è male? C’è per mons. Betori un tal momento, un simile passaggio all’età adulta, qualcosa come un da sé? E di più: per mons. Betori è un bene o un male che ci sia questo momento? Anche in presenza dell’evidenza del bene, non è un bene pure che lo si veda da sé, il bene evidente? Oppure il bene evidente va sempre tutelato dalle erronee scelte che potrebbero essere compiute a partire da sé, di modo che non è bene che ci sia un momento in cui da sé e solo da sé si possa scegliere (anche) il male contro l’evidenza del bene? (E se è un bene che un tal momento ci sia, non è un bene che ci sia anzitutto quando ne va della propria vita intera?).

Secondo me è un bene. Io sono d’accordo con mons. Betori, però ha ragione Roberta De Monticelli.
(Se qualcuno obietta: ma se il bene è evidente, perché non fare bene le leggi, secondo quel bene?, lo invito a considerare che la mia idea che il bene sia evidente è puramente formale, non riguarda cioè qui questo o quel bene. Nel punto in cui lo riguarda, la parentesi finale, la mia considerazione investe invece il piano morale, non propriamente quello giuridico. Per di più, io penso in generale che la pluralità delle proposte etiche e dei piani di vita individuali sia oggettivamente un bene da tutelare il più possibile giuridicamente, e dunque).