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Il fuoco delle piccole patrie cova ancora sotto la cenere

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J. Mirò, Painting (Barcellona, 1933)

Una buona affluenza in Veneto, decisamente più bassa in Lombardia, dove però non era previsto il quorum. Maroni è stato più prudente di Zaia, ma è chiaro che ha fornito all’elettorato un motivo in meno per andare a votare. E la percentuale raggiunta non permette certo alla Lega di cantare vittoria: a volere più autonomia è meno della metà dei lombardi.

Vi era però un altro, più consistente motivo per non passare per le urne, e stava nel fatto che il percorso verso un regionalismo differenziato, previsto dal titolo quinto della Costituzione, poteva e può essere avviato senza indire alcun referendum. Così ha fatto ad esempio l’Emilia Romagna, che si è accontentata di una delibera del Consiglio Regionale. Ma l’Emilia Romagna è a guida democratica, e dunque non aveva interesse ad accentuare il tema in contrapposizione al governo centrale. Lombardia e Veneto sono invece a guida leghista: sono anzi il cuore dell’originario progetto della Lega, che prevedeva soluzioni federaliste e, ai tempi belli di Bossi, il Senatùr tonitruante, persino la secessione. A un certo punto è stato messo su persino un farlocco Parlamento del Nord, di cui in seguito si sono perse le tracce, per minacciare una proclamazione di indipendenza, che per la verità non c’è mai stata. Divenuto segretario, Matteo Salvini ha compiuto una brusca inversione di rotta in senso nazionalista, mettendo la sordina alle posizioni più estremiste dei leghisti in tema di rottura dell’unità nazionale. È bene però averne memoria, non solo perché viviamo in queste settimane tutta la drammaticità della crisi catalana – che i promotori dei referendum nostrani hanno spergiurato di non voler prendere ad esempio – ma anche perché vàlli a leggere i quesiti proposti: quelli ammessi dalla Consulta sono ben dentro le regole della Costituzione, ma ce n’era anche uno, bocciato dalla Corte, che prevedeva, in aggiunta al maggiore autonomismo, l’indizione di un referendum per l’indipendenza del Veneto. Oggi si parla di tasse, di autonomia fiscale, di minori trasferimenti allo Stato centrale, ma domani chissà: non è mica detto che le cose rimangano dentro i percorsi politici e istituzionali previsti dalla legge. O almeno: non è detto che l’energia politica accumulata su questi temi sia tenuta in riserva e rimanga inutilizzata a lungo. A chi gli faceva osservare che un referendum consultivo non serve a gran che, non vincola nessuno e non produce conseguenze giuridicamente vincolanti, Roberto Maroni ha infatti  risposto così: “Dicono che un voto consultivo come quello di domenica sia inutile? Anche la Brexit è passata atraverso un referendum consultivo, e mi pare che la cosa abbia avuto qualche conseguenza”.

Non ha tutti i torti. Ma forse uno ce l’ha: l’affluenza non esaltante, che fa del sentimento autonomista non il sentimento magioritario, ma quello di una minoranza ben organizzata.

Se il bersaglio più grosso si allontana, non vuol dire però che non si diano effetti più ridotti e più ravvicinati. I primi effetti il referendum li produce all’interno della stessa Lega.  Salvini è saldissimo in sella, avendo portato il partito dai minimi storici toccati nel 2013 a percentuali a due cifre, stando ai sondaggi. Ma la conversione sovranista della Lega ha comunque lasciato scoperto il fianco originale delle rivendicazioni territoriali. Quello è il fianco che Maroni e Zaia, come leader del Nord, si propongono di presidiare, perché il sentimento “nordista” non è affatto estinto e può essere rinfocolato. L’affluenza non è stata così ampia da mettere il vento nelle vele della Lega, ma fa comunque di Maroni, e soprattutto di Zaia, un polo di identificazione del popolo leghista.

Poi ci sono gli effetti all’interno del centrodestra. A Berlusconi sta riuscendo un’altra volta quello che gli è già riuscito in precedenti occasioni: di riunire il centrodestra. Per la Lega, avere proprie bandiere da sventolare significava marcare una posizione distinta e autonoma, e cercare i modi per farla pesare. La Lega nazionalista e di destra, una volta tolta dal tavolo la pretesa di uscire unilateralmente dall’euro, è infatti più facilmente acclimatabile dentro il centrodestra di quanto non lo sia la Lega nordista e separatista delle origini. Ma questo significa anche che, al contrario, più la Lega ha bisogno di non cedere all’abbraccio moderato di Forza Italia, più sarà tentata di rispolverare il refrain dell’autonomia. Il referendum di ieri mantiene il fuoco sotto la cenere e preserva questa possibilità, anche se non la avvicina.

Infine ci sono gli effetti che si producono su tutto lo spettro politico. Una Lega ringalluzzita sarebbe un osso duro per tutti. Basti pensare che se l’Italia ha oggi un pasticciato titolo V della Costituzione, è per via del vento federalista che la Lega ha saputo sollevare, e da cui tutti gli altri partiti si son fatti trascinare. Grazie principalmente alla Lega, la questione meridionale è diventata in questi anni sinonimo di lagna assistenzialista. Né l’argomento della distribuzione delle risorse, delle tasse del Nord che rimangono al Nord, è argomento puramente retorico. Né infine le strutture dello Stato nazionale godono di così buona salute da essere al riparo da scossoni. Che la giornata di ieri non sia stata una grandiosa festa di popolo, in grado di cambiare il clima nel Paese, è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che l’iter avviato si arresterà. Il sì canta vittoria lo stesso. Non riportz un successo eclatanre, ma neanche una sconfitta bruciante. I giochi restano aperti, e sarà compito del prossimo Parlamento chiuderli, per il bene della sua unità, ma anche della indispensabile solidarietà fra Nord d Sud del Paese.

(Il Mattino, 23 ottobre 2017)

Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

La trita retorica antimeridionale

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Cade oggi l’annuncio della data del referendum per l’autonomia della Regione Lombardia e della Regione Veneto da parte dei due presidenti leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia. Il referendum è solo consultivo, e salta a piè pari quanto stabilito dalla Costituzione vigente, che all’articolo 116 prevede la possibilità che «forme e condizioni particolari di autonomia» siano attribuite alle regioni «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali». Vi è dunque una via costituzionale all’autonomia regionale, che Maroni e Zaia scelgono però apertamente di ignorare, preferendo indire un referendum consultivo privo di valore giuridico e senza effetti immediati. Evidentemente, l’obiettivo non è quello di intavolare una discussione seria, bensì quello di mettere fieno in cascina della Lega, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Da qualche anno, con la segreteria di Matteo Salvini – subentrato a Umberto Bossi dopo la sconfitta del centrodestra nelle elezioni del 2013 – i toni regionalisti della Lega si sono un poco attenuati: non perché Salvini fosse un campione dell’unità nazionale e avesse un debole per il Mezzogiorno d’Italia, ma semplicemente perché, dopo qualche legislatura trascorsa al governo, la predicazione contro Roma ladrona aveva inevitabilmente perso mordente, e credibilità. Messa dunque la sordina al federalismo e anzi al separatismo delle origini, la retorica populista che fornisce il principale impasto ideologico del leghismo ha dovuto dirigersi altrove, preferendo indirizzarsi contro Bruxelles e verso l’euro, contro l’Islam e contro i migranti. Sono stati questi i nuovi bersagli polemici mirando ai quali la Lega di Salvini ha potuto rifarsi la verginità: l’Unione europea è divenuto il nuovo mostro centralista che minaccia l’autonomia dei popoli, ed il musulmano che sbarca sulle coste della Penisola è divenuto, al posto del meridionale imbroglione, il nuovo nemico che attenta alla sicurezza e alla prosperità delle valli padane. Il vessillo della sovranità nazionale è stato di conseguenza issato contro la globalizzazione, contro le élites tecnocratiche che governano l’Unione, contro i flussi migratori che rubano il lavoro agli italiani.

Gratta gratta però, la preoccupazione è sempre la stessa, e sotto elezioni torna a farsi sentire: come far pagare meno tasse alle regioni più ricche d’Italia, come rifiutare qualunque forma di perequazione a vantaggio delle meno sviluppate regioni del Mezzogiorno, come soddisfare gli egoismi localisti dell’elettorato tradizionale della Lega, come sottrarsi a ogni logica di solidarietà nazionale. Dietro la proposta di Maroni e Zaia c’è insomma il solito refrain: gli altri sono parassiti. Parassiti sono le burocrazie sovranazionali, parassita è lo Stato centrale, parassiti sono i partiti, parassiti le amministrazioni pubbliche, parassita e improduttivo è, ovviamente, il Sud. Che l’iniziativa sia poco più che simbolica non cambia la sostanza: del resto, dall’ampolla piena dell’acqua del Po alle camicie verdi, la storia della Lega è piena di simboli più o meno posticci, con i quali cementare una discutibilissima identità etnica, e inventare un fantomatico popolo del Nord. Né è mancato un referendum dopo il quale il partito di Bossi proclamò formalmente, già dieci anni fa, l’indipendenza della Padania, mai riconosciuta – come puntigliosamente recita Wikipedia – da alcuno Stato sovrano.

Il fatto è che però i simboli non sono mai inerti, politicamente parlando. E anche in questo caso, sotto le fitte nebbie della demagogia, si nasconde lo zampino della politica. Maroni e Zaia vogliono spostare l’attenzione da quello che è stato fatto (o non è stato fatto) a quello che ora promettono di fare. Avrebbero potuto chiedere fin dal giorno del loro insediamento di discutere di autonomia regionale, ai sensi dell’art. 116: ma sarebbe stato un percorso faticoso, lungo, irto di ostacoli, in cui soprattutto il gioco del dare e dell’avere non è detto che avrebbe loro giovato. È molto più comodo, invece, limitarsi ad agitare il panno, e appellarsi al popolo con una consultazione diretta (che una volta di più si rivela uno strumento di manipolazione della democrazia), la quale certifichi simbolicamente quanto siano pronti a mollare la zavorra inutile del resto del Paese. La vecchia idea che il tessuto produttivo del Nord si difende se si sottrae il contribuente padano alle ingiustizie fiscali di Roma e alle politiche assistenzialiste sbilanciate a favore del Sud si innesta però sopra un dato politico reale: la prevalenza nell’opinione pubblica di sentimenti di chiusura e di diffidenza, di paure e incertezze che rendono la risposta populista terribilmente efficace nell’orientare gli umori dell’elettorato. Ed è su questo terreno che la Lega torna a competere, in una deriva che, di qui alle elezioni politiche, rischia di tradursi in una pericolosa escalation.

(Il Mattino, 21 aprile 2017)