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Le lezioncine che non aiutano il Mezzogiorno

Acquisizione a schermo intero 10082015 103756.bmpIl discorso di verità sul Mezzogiorno che Renzi non ha fatto e avrebbe dovuto fare, secondo uno dei maggiori editorialisti italiani, Ernesto Galli della Loggia, suona più o meno così: «Signori della deputazione meridionale, quello che ci vuole al Sud è più legalità, più sicurezza, più autorità, in una parola più Stato. Ma elemento essenziale di uno Stato è il popolo, sono i cittadini – quasi mi scappa: i sudditi – e i cittadini del Mezzogiorno d’Italia, guardateli:  non sono brutti sporchi e cattivi, ma accettano purtroppo di vivere sotto standard di civiltà ancora troppo distanti da quelli propri di uno Stato moderno. Dovreste chiederci prefetti di ferro, e invece ci chiedete solo più spesa pubblica, cioè di buttare via i soldi, o magari di ingrassare solo voi e le vostre clientele».

L’avete già sentita? L’avete già sentita. Ma non è questo il limite principale della lezioncina che Galli della Loggia impartisce al Sud e a Matteo Renzi – e al Sud per il tramite di quella che impartisce a Renzi. Il limite vero sta nell’ordine del discorso, nello scambio di premesse e conseguenze, nel «non sequitur» tra la moralistica lezione inflitta al Sud, e la ricostruzione storica sulle infelici sorti dello Stato nazionale.

Su cui Galli della Loggia riflette invero da tempo, e con buone ragioni: è vero, infatti, che l’Italia soffre di una fragile statualità: è vero che per tutto il corso della sua storia il Mezzogiorno è stato il banco di prova dello Stato italiano e dei suoi leader politici; è vero che della questione meridionale sono impregnate tutte le culture politiche del Novecento italiano; è vero, infine, che il ripristino del senso dello Stato è un fattore essenziale per lo sviluppo e la crescita del Paese (non solo del Sud). Ma Galli della Loggia non nasconde neanche un’altra, ancor più grande verità: che il declino dell’Italia, il quale data almeno dagli anni Novanta, dipende da fattori politici generali, nazionali e sovranazionali, di cui sarebbe però arduo dire che il Mezzogiorno porta la responsabilità. Se mai, ne paga, e duramente, le conseguenze. Siccome è Galli stesso a dirlo, a denunciare l’irrilevanza del Mezzogiorno nella più generale «dissoluzione» dello Stato italiano, davvero non si capisce perché se la prenda allora con lo scarso senso civico dei meridionali, l’evasione fiscale e il clientelismo, scambiando se mai l’effetto con la causa. (A non dire che, purtroppo, problemi di legalità, evasione e corruzione non sono poi così sconosciuti al di sopra del Garigliano). Come infatti stanno insieme l’inadeguatezza dello Stato italiano e il divario fra Nord e Sud del Paese? Un rapporto vi è senz’altro, ma tra le molte cose che si possono dire a questo proposito una è difficile a dirsi: che quel divario sia la causa di quella debolezza.

Un altro paio di cose bisogna invece dirle, per non semplificarsi troppo il quadro sia storico che politico. La prima: che una lettura in chiave esclusivamente etico-politica dei problemi del Mezzogiorno è stata già data, e, se è consentito dirlo, se ne è già vista la sua insufficienza. Si è già detto, ad esempio, che il Sud soffre di scarso capitale sociale, che è malato di familismo amorale, che è scollato dallo Stato e dai doveri  di cittadinanza che esso impone, o dovrebbe imporre. Il guaio è che però le virtù opposte a questi vizi non crescono da sole: non solo non albergano nella natura umana ma neppure le si riesce a suscitare semplicemente con i moniti degli editorialisti. Non si vuol con ciò sostituire una spiegazione monocausale all’altra: non si vuole dire cioè che basta ristabilire i flussi di spesa pubblica per prosciugare le sacche di illegalità e far così ripartire il Mezzogiorno, ma viene difficile immaginare che, all’opposto, chiudere i rubinetti della spesa e non fare l’Alta Velocità avvicini il Sud al resto d’Italia e di Europa.

La seconda cosa è su Matteo Renzi, perché la lezioncina di Galli riguarda in realtà soprattutto lui. Che si vede singolarmente accusato non solo di un registro linguistico non all’altezza della cosa – il che si può capire: che un accademico non ami gli hashtag e i tweet ci sta (benché ci stia per l’appunto solo in una certa idea dell’Accademia) – ma anche di non avere la minima contezza di quel riordino dello Stato, a partire dal suo ruolo di direzione degli affari pubblici, che è invece assolutamente indispensabile al Paese. Ora, perché l’accusa è singolare? Perché Renzi si vede spesso e volentieri accusato del contrario: di avere messo le scuole in mano ai presidi; di aver rafforzato con il Jobs Act la parte datoriale a scapito delle organizzazione sindacali, di voler squilibrare gli equilibri costituzionali a vantaggio dell’esecutivo (e su Napoli, di scavalcare con prepotenza i poteri locali). C’è sicuramente una parte di strumentalità anche in queste accuse, ed è legittimo che le soluzioni individuate piacciano di più o di meno, ma dire che non vi è interesse per la riforma delle strutture amministrative e di governo (peraltro: a pochi giorni di distanza dall’approvazione della legge delega sulla pubblica amministrazione, che ne ridisegna in profondità i lineamenti)  sembra dipendere da un mero pregiudizio. E così son due, i pregiudizi: uno sul Sud e uno su Renzi. Troppi, per un discorso di verità.

(Il Mattino, 10 agosto 2015)

La pesca a strascico del pesce rancido

imagesA sorpresa, tra le carte dell’inchiesta sulla Cpl Concordia, che mesi dopo avrebbe portato all’arresto del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, spunta una telefonata fra Matteo Renzi e il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi. Che spunti a sorpresa lo dice lo stesso giornale che la pubblica, il Fatto quotidiano. A sorpresa, nel senso che non si capisce cosa c’entri con quell’inchiesta il giudizio che Matteo Renzi rende sull’allora premier Enrico Letta. Non si capisce perché c’è, in realtà, molto poco da capire: infatti l’una cosa non ha assolutamente nulla a che vedere con l’altra. Però la sorpresa non finisce qui: non è sorprendente solamente che in quelle carte finiscano simili conversazioni; è sorprendente pure il fatto stesso che spuntino fuori. L’unica cosa che non si può dire davvero sorprendente è proprio il giudizio di Renzi: che non ama Letta (ricambiato) e lo considera un incapace. In breve, pensa già alla sua sostituzione. Siamo nel gennaio 2014, e di lì a poco il sindaco di Firenze prenderà effettivamente il posto del premier, ma, intercettazioni o no, le modalità piuttosto brusche in cui il passaggio di consegne avviene non lasciano dubbio ad alcuno: fra i due non corre buon sangue. Sicché le parole di Renzi al generale Adinolfi tutto sono meno che sorprendenti. Ci piace leggerle, tuttavia, per quella gioia maligna di cui spesso si alimenta la nostra maniera di seguire, da spettatori, lo spettacolo dei potenti, ma di fatto non dicono nulla che l’opinione pubblica non sapesse già. Non ci si può invece non stupire di quel che capita nel nostro paese: che intercettazioni non solo prive di qualunque rilievo penale, ma prive anche di qualunque attinenza coi fatti e le circostanze oggetto di indagine, finiscano prima nei faldoni dell’inchiesta, poi sulle prime pagine dei giornali. Succede insomma che se io indago su Tizio (in questo caso Tizio è il generale Adinolfi) posso tirare dentro chiunque abbia a che fare con Tizio, a prescindere non solo dalla rilevanza per l’indagine, a prescindere anche dal non avere l’indagine seguito alcuno, a prescindere dalla pertinenza fra i fatti oggetto d’indagine e tutto ciò che nel frattempo emerge, a prescindere da qualunque rispetto della privacy, della riservatezza o della sfera della libertà personale. A prescindere da tutto.

In questa circostanza, che ha del clamoroso, accade che la Cassazione ordini di trasferire  l’inchiesta da Napoli (dove era stata condotta dai magistrati Borrelli e Woodcock) a Modena (dove ha sede la Concordia), e che conversazioni, peraltro intercettate nell’ambito di un altro procedimento su Adinolfi (nel frattempo prosciolto da ogni accusa), vengano – oplà! – allegate agli atti trasmessi a Modena, e per questa via rese così di dominio pubblico. Si chiama strascico, perché, proprio come nella pesca a strascico, in questo modo si può tirar dentro la propria rete qualunque cosa, specie marine protette e specie non protette. Solo che la pesca a strascico è vietata; le intercettazioni a strascico invece no, e anzi sono tanto più praticate quanto più è pregiato il pesce che si vuole acchiappare.

In quelle carte c’è così finita pure un’altra conversazione, che tira in ballo Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, all’epoca dei fatti Presidente della Repubblica. A Roma comanda lui, si dicono in sostanza gli interlocutori, che pensano quindi di agire sul padre attraverso il figlio. Di nuovo: rilevanza penale? Nessuna. Pertinenza? Nessuna. Legame con inchieste in corso? Nessuno. Si tratta solo di strascico a tutto andare, col quale si buttano fuori opinioni espresse nel corso di una chiacchierata privata, non diversamente da come può capitare a chiunque di parlar male o bene di un amico, di un collega che non si sopporta, di un altro che ha fatto carriera e di un altro ancora che va a letto con tutta la città. Di opinioni così, infarcite di luoghi comuni, dicerie, confidenze, non importa se fondate o meno, sono piene le nostre conversazioni, in cui per fortuna non dobbiamo morderci la lingua. Finché almeno qualcuno non ci intercetti.

Ma c’è tuttavia in quelle carte qualcosa che l’opinione pubblica debba sapere, e che faccia notizia? Non c’è materia giudiziaria, questo è assodato; c’è almeno materia giornalistica? Chi ha pubblicato lo scambio di opinioni pensa di sì, perché evidentemente ritiene non faccia differenza se e come quelle opinioni siano espresse. Basta che i pesci siano grossi. Così, carpite o meno, dette di volata o pensate seriamente, cambia poco. E invece cambia tanto, anzi cambia tutto, perché la maggior parte delle cose che diciamo in privato non saremmo disposti a sostenerle in pubblico, se ne dovessimo difendere per davvero la veridicità.

Ma perché questa elementare distinzione fra il dire tanto per dire e il sostenere quel che si dice, e cioè l’impegno con la verità, che sta all’origine della civiltà occidentale, è venuta completamente meno, e sui giornali anche la voce più incontrollata viene riportata e fa notizia indipendentemente non solo dal suo valore di verità, ma anche dall’essere stata proferita o meno in spirito di verità? Perché ad esempio dobbiamo perdere la libertà e il diritto di dire oggi tutto il contrario di quel che pensavamo ieri: almeno al bar, almeno tra amici, almeno quando stiamo per i cavoli nostri? Non è barbarie, questa: condurre il dibattito pubblico sulla scorta di atti di indagine sottratti al loro corso, dove non hanno potuto avere alcun seguito, ma utilizzabili ancora nello spazio mediatico per menare fendenti contro l’uno o l’altro? Qualcuno ha detto che la libertà di opinione è la libertà di mentire, più fondamentale, in una democrazia liberale, persino dell’ottavo comandamento. Ma se quella libertà viene conculcata sotto l’impero delle intercettazioni, è lecito o no, di grazia, chiedersi chi comanda davvero, e con quale legittimità?

(Il Mattino, 11 luglio 2015)

Il leader alla sfida dei valori

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Siccome le elezioni regionali non sono andate come si immaginava che sarebbero andate, in Direzione ieri sera erano in molti che attendevano Renzi al varco. Ma come dovevano andare, le elezioni, perché la Direzione nazionale del Pd festeggiasse a champagne? Davvero qualcuno pensava che il Pd veleggiasse ancora, bello e felice, intorno al 40 per cento, o che il Pd avrebbe fatto cappotto? Davvero si pensava che non ci sarebbe stato un calo in elezioni di mid-term, finita cioè la luna di miele dei primi mesi di governo e con tutte le querimonie della minoranza interna? E le amministrazioni regionali godevano forse di così ampio credito e fiducia, da non lasciar temere un calo di affluenza?

In verità, ieri sera Renzi non è sembrato particolarmente interessato all’analisi del voto, quanto piuttosto all’analisi del mese di maggio. Perché il Pd ha trascorso il mese di maggio ha ragionare di sé, piuttosto che delle cose fatte dal governo. Così sul piano dell’analisi del voto, il premier si è limitato a contare le regioni che il Pd ha messo in fila, mentre come conseguenza del maggio delle polemiche interne ha tirato una linea assai netta: l’unità del partito non vale la paralisi. Naturalmente non si è sottratto alla ricerca del punto di sintesi, su quei terreni sui quali può ancora essere trovata, la scuola e il Senato, cioè le riforme che devono passare per le forche caudine di Palazzo Madama. Ma, sia vero o no quello che Renzi ha sostenuto, che cioè i numeri ci sono e le si potrebbe approvare anche domani mattina, certamente è vero il punto politico che ha difeso. E cioè: il governo Letta si era dato un orizzonte temporale limitato, per superare lo stallo seguito al voto e alla «non vittoria» di Bersani; il governo Renzi ha motivo di concludere la legislatura e arrivare al 2018 solo se è in grado di fare le riforme, e non se tiene dentro tutto e tutti, per non scontentare nessuno. Perché per Renzi, se da una parte c’è Grillo («rabbia, rabbia, rabbia») e dall’altra c’é Salvini (e di nuovo solo «rabbia rabbia rabbia») Il Pd è necessariamente chiamato ad investire sull’aazione di governo. Non c’è altra strada, che non sia, a sinistra, quella minoritaria di Landini e della sua fumosa coalizione sociale.

Stanno strette le scarpe, alla minoranza del Pd? Pazienza. In cima alle preoccupazioni di Renzi non sta l’unità del Pd. Era ancora nel vero Renzi, quando aggiungeva che le riforme fatte finora – Jobs Act, legge elettorale – piaccia o no, sono frutto di un’accelerazione: gentile eufemismo per dire che è andato avanti nonostante i «frenatori» interni.

Non basta. Ieri Renzi non ha avuto paura di annunciare la volontà di cambiare i connotati del Pd anche su questioni fondanti, per un partito di sinistra, come l’immigrazione e il giustizialismo. Su quest’ultimo punto ha forse pronunciato l’eresia maggiore: il giustizialismo è di destra, ha detto. Sarà anche l’effetto di qualche opportunità del momento (leggi: De Luca e la legge Severino), ma resta che una roba così netta e così chiara ha sicuramente il valore di una ridefinizione del quadro valoriale di riferimento del partito. Se e come Renzi la porterà avanti vale sicuramente più di tutte le beghe interne.

Su Repubblica, Ilvo Diamanti, ha proposto un’analisi del voto abbastanza paradossale: nelle ex regioni rosse, l’elettore che vota il Pd lo vota nonostante Renzi. Nelle regioni forza-leghiste, l’elettore che vota Renzi lo vota nonostante il Pd. Insomma: Renzi e il Pd, nell’analisi di Diamanti, non possono coincidere. Come però si ottiene questo risultato? Immaginando che l’elettore non cambi: quello di sinistra resta di sinistra, e non riesce a farsi piacere la novità di Renzi; quello di centro-destra potrà anche farselo piacere, ma allora gli continuerà a spiacere il Pd. In un caso e nell’altro, in base a questa analisi col voto non si esprime mai una volontà di cambiare: di cambiare opinione o di cambiare il Paese. Tra rottamazione prima e strappi nel partito poi, è innegabile invece che Renzi qualcosa la stia cambiando nella carta d’identità della sinistra italiana. E se ha ragione lui, allora rimane un’ultima possibilità, non tanto a Ilvo Diamanti quanto alla minoranza che lo ascoltava ieri, un po’ intimorita da tanta baldanza: quella, prima o poi, di cambiare analisi.

(Il Mattino, 9 giugno 2015)

Andare oltre l’ondata moralistica

Acquisizione a schermo intero 23052015 131949.bmpI luoghi, i gesti, le strette di mano. A otto giorni dal voto, la contemporanea presenza di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi in Campania, a sostegno dei rispettivi candidati, Vincenzo De Luca e Stefano Caldoro, viene seguita dall’opinione pubblica metro dopo metro, fotogramma dopo fotogramma. La politica è fatta di parole e di programmi, ma anche di volti, di presenze, di incontri, di sale gremite e di microfoni, visite e atti simbolici, dichiarazioni e silenzi. E, contrariamente a quel che si dice, lamentando la piega personalistica della politica contemporanea, i leader non calamitano l’attenzione solo su di loro, a detrimento di tutto il resto, ma contribuiscono anzi a restituire il senso di un confronto politico al voto di fine mese, fin qui oscurato dal rimpallo delle polemiche sugli impresentabili, sulla legge Severino e tutto il resto. Naturalmente il tema della moralità della politica esiste, così come d’altra parte esiste l’esigenza di misurare gli schieramenti in lizza sulla base dei programmi, e dell’idea complessiva di sviluppo della Regione che propongono.

Ma c’è anche una partita politica che il fuoco di sbarramento dell’indignazione ha finora impedito di delineare. Lo sanno molto bene sia Renzi che Berlusconi: su entrambi grava l’onere di comporre e unire le forze, contrastando le piccole e grandi tendenze centrifughe manifestatesi nei rispettivi schieramenti.

Berlusconi è più indietro: l’ultima diaspora degli uomini di Raffaele Fitto dimostra che il processo di ricomposizione, sia o non il Cavaliere a guidarlo a livello nazionale, non è ancora cominciato. Ma c’è una necessità di sistema alla quale prima o poi il centrodestra non potrà non corrispondere, perché la nuova legge elettorale, l’Italicum, assegna un premio di maggioranza al partito, non alla coalizione. E, dunque, in ordine sparso alle prossime politiche, con rimasugli e spezzoni, partitini e liste personali non potrà certo andare.

Ora, proprio in Campania il centrodestra mostra una compattezza che altrove non ha, a riprova del valore politico di questo voto. Con l’unica, in fondo marginale eccezione di De Mita, passato armi e bagagli con De Luca, Caldoro ha saputo tenere insieme la maggioranza che lo ha sostenuto in questi anni, compreso quel Nuovo Centrodestra che a Roma è invece alleato con Renzi: non era affatto scontato. Il progetto che il Cavaliere ha preso a coltivare, una sorta di partito repubblicano sul modello americano, qui trova subito una cartina di tornasole e una base di consenso piuttosto larga.

Quanto a Renzi, quel che è fatto finora mostra se non altro la sua determinazione nel costruire un partito dai connotati profondamente mutati. Altri lo chiamano partito della nazione, come se fosse soltanto un indistinto spazio onniaccogliente. In realtà Renzi ha semplicemente dimostrato di non temere l’opposizione che gli viene da sinistra, dall’interno e dall’esterno del Pd, e la piccola, modesta diaspora che il Pd sta subendo, priva com’è di di apprezzabili effetti politici, gli sta dando ragione. Ha fatto il jobs act, la legge elettorale e sta facendo la riforma della scuola: ha cioè manomesso la costituency tradizionale del partito di sinistra. Se, dopo tutto ciò, i sismografi registrano solo un Civati che se ne va, vuol dire proprio che non ha sbagliato i conti.

Da dove potrebbero venire allora le scosse maggiori? Dall’astensione, o dal risultato dei Cinquestelle. Cioè da quei comportamenti elettorali che traggono indubbio vantaggio dalla colorazione moralistica della campagna elettorale. È, questa, una mera constatazione politologica, che naturalmente non assolve nessuno dai suoi obblighi: dinanzi alla legge o dinanzi alla coscienza. Le liste dubbie, i candidati impresentabili, le ineleggibilità a norme di legge (a meno di ricorsi e sospensioni) non dovrebbero nemmeno essere della partita. Lo sono, e sollevano (un po’ ad arte, un po’ no) ondate di indignazione. Ma quando poi l’onda si ritira rimane il problema di ciò che lascia dopo il suo passaggio. Ieri Renzi ha affermato che non basta la repressione: la camorra la si combatte anzitutto con il lavoro. Affermazione sensata e del tutto condivisibile. Si può proporre allora una analogia, e chiedere con cosa si battono collusioni e connivenze della classe dirigente locale, se cioè non sia proprio la costruzione di un genuino terreno politico di confronto ad essere in ogni senso decisiva. Anche sul piano della moralità della politica. Ma allora, per sterrare il terreno, ci vuole molto di più della polemica sulle liste. Se Berlusconi e Renzi sono venuti per promuovere questo lavoro, allora sono entrambi i benvenuti.

(Il Mattino, 23 maggio 2015)