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Se la transizione archivia anche l’utopia liberale

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Insieme con Giorgia Meloni, candidata a sindaco di Roma, c’è Matteo Salvini. I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti, ha spiegato Berlusconi, cercando di ridimensionare il significato della rottura che ha mandato il frantumi il centrodestra. Ma è singolare: il primo passo compiuto da Berlusconi, quando scese in campo più di vent’anni fa, fu quello di dichiarare che, fosse stato cittadino della capitale, avrebbe votato per Gianfranco Fini, che si era allora candidato contro Francesco Rutelli non come leader di Alleanza Nazionale, ma come segretario del Msi, il partito di Giorgio Almirante. Tutto è insomma cominciato con lo sdoganamento della destra missina, e tutto sembra, agli occhi immalinconiti di Berlusconi, che ritorni da quelle parti.

Non è così. Non si tratta di un ritorno di fiamma. Si tratta invece della fine del centrodestra come lo abbiamo conosciuto finora. Molte sono le ragioni, ma ve ne sono tre che sembrano pesare più di tutte.

Una è senz’altro l’appannamento della leadership di Berlusconi. Complice l’età, complici le disavventure giudiziarie e l’impossibilità di candidarsi, la stella del Cavaliere è ormai irrimediabilmente declinata. E a gridare che il re è nudo in questi mesi sono stati in molti: da Bondi a Fitto a Verdini, per rimanere solo nei dintorni dell’ultima legislatura.

Un’altra ragione è la consunzione del cemento ideologico del blocco di centrodestra costruito da Berlusconi: l’argine contro la sinistra illiberale. All’inizio il Cavaliere parlava volentieri di comunisti, ma anche quando ha dovuto aggiornare il vocabolario, gli è bastato mettere un ex- o un post- a fianco della parola comunista, per tirarla ancora per le lunghe, e comunque per dipingere il centrosinistra come una roba vecchia, fatta di rottami della storia. Poi è arrivato Renzi, e quella retorica non ha avuto più nemmeno un minimo di parvenza. Renzi, bisogna che il centrodestra impari a contrastarlo in un’altra maniera. Comunque lo si giudichi, con lui non si può più dire che «son sempre gli stessi».

La terza ragione è la più rilevante, se si guarda al nostro Paese in un’ottica internazionale. Non c’è solo il miliardario populista Trump, che in America sconquassa, con la sua corsa vincente alle primarie, i tradizionali confini dell’old party repubblicano. Ci sono pure, anzi soprattutto, i nazionalismi e i populismi che si affermano in Europa. Ve ne sono di specie diversa: in Grecia come in Austria, in Ungheria come in Polonia, in Olanda come in Gran Bretagna. A Matteo Salvini piace molto la destra lepenista d’Oltralpe, alla quale pare proprio volersi ispirare. Ma in giro per l’Europa di modelli del genere ce ne sono diversi. Per questo tipo di destra: diffidente nei confronti dell’Europa, diffidente nei confronti dell’immigrazione, diffidente nei confronti dell’establishment, Berlusconi non funziona più. Forza Italia aveva infatti tenuto dentro di sé più di un’anima: c’era l’insofferenza nei confronti della politica politicante; c’era l’accentuazione del leaderismo, c’era una qualche forma di richiamo ai valori tradizionali. Ma c’erano anche tratti liberali, e una dimensione di apertura nei confronti del futuro, della modernità, delle forze sane dell’economia e della società che era parte essenziale del messaggio di Berlusconi. Ecco, forse il tratto più vistoso nel passaggio che si sta consumando nel centrodestra riguarda proprio la coloritura morale della nuova destra di Salvini e Meloni. Complice la crisi delle istituzioni economiche e l’impasse dell’Unione Europea, complici i venti di guerra nel Medioriente e in tutta l’area del Mediterraneo, destra oggi significa molto più paura che speranza.

Una politica della paura non è detto che non sia vincente. Di sicuro, i margini di manovra si vanno restringendo, in Europa, per le posizioni moderate dei popolari e dei conservatori. Se ne accorge la Merkel, che perde le elezioni nei Länder a favore di forze euroscettiche e nazionaliste, e se ne accorge Cameron in Gran Bretagna, anche lì a causa di crescenti spinte nazionaliste. Il fatto è che però la mossa del leader leghista, che silura i candidati di Forza Italia a Roma come a Torino impone al centrodestra di passare attraverso il lavacro di una sconfitta alle amministrative che si fa di ora in ora più probabile. Si tratta, insomma, di un percorso ad ostacoli. È presto per dire se Salvini ha fatto bene i suoi calcoli, o se in fondo sta solo dando una mano al centrosinistra, che i suoi grattacapi al livello locale ce li ha ma che a confronto col big bang del centrodestra finiscono con l’essere improvvisamente ridimensionati. A meno che non benefici di questa grandissima confusione sotto il cielo il Movimento Cinquestelle. E allora, l’azzeramento del sistema politico italiano come l’abbiamo conosciuto finora si sarà finalmente completato.

(Il Mattino, 17 marzo 2016)

Il vero volto del Carroccio

ImageL’incontro fra il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, e la leader del Front National, Marine Le Pen, fuga ogni dubbio: le contestazioni all’indirizzo del ministro Cecile Kyenge non possono essere derubricate alla voce folclore padano, ma definiscono una piattaforma  politica. Anti-euro, ma soprattutto anti-immigrazione e xenofoba. Roberto Maroni, che è stato ministro dell’interno ed è attualmente presidente della regione Lombardia, prova, con massicce dosi di ipocrisia, a negare che vi sia del razzismo nelle posizioni della Lega: si tratta solo di critiche, dice, come se si potesse criticare il colore della pelle o la semplice presenza di un ministro di colore nel governo italiano. In attesa dunque di conoscere la definizione di razzismo di Roberto Maroni o di Flavio Tosi, cioè del volto gentile della Lega, e di capire come possa essere ristretta a tal punto da non includervi gli apprezzamenti riservati al ministro per la «negritudine», occorre comunque prendere atto del nuovo corso impresso con decisione alla Lega dal segretario Matteo Salvini. Il quale Salvini, a proposito della pubblicazione da parte del giornale La Padania, dell’agenda di appuntamenti del ministro per l’integrazione, ha a sua volta negato che l’iniziativa avesse un significato intimidatorio: «mica abbiamo scritto di andarla a picchiare», ha dichiarato, lasciando nel lettore il dubbio se stesse negando o più sottilmente denegando, così di fatto indicando il possibile passo successivo nell’escalation di attacchi indirizzati al ministro.

Che forse sono effettivamente destinati ad aumentare con l’inizio della campagna per le Europee. Ma questo non significa che bastino i timori o le aspettative per il voto di giugno del neo-segretario, chiamato a rilanciare la Lega dopo la fine dell’era Bossi e l’interregno di Maroni, per ridimensionare le preoccupazioni che simili atteggiamenti suscitano. È vero infatti che la Lega non ha mai mancato di alzare i toni, in simili circostanze, ma è vero anche che il passaggio dal populismo becero al razzismo dichiarato nell’avversione nei confronti dell’«altro», del «diverso», dello «straniero», non è così lontano dall’essere compiuto. E c’è il rischio che ben prima dei dirigenti politici, che scherzano con la materia cercando di lucrare a fini elettorali, sia l’elettorato della Lega a far propri comportamenti razzisti violenti e discriminatori. Francamente, non è un azzardo che possiamo permetterci.

E invece Salvini incontra Marine Le Pen, e la Padania fa l’elenco dei luoghi dove appostarsi per incontrare Cecile Kyenge. E il partito e il giornale della Lega accampano la libertà di opinione, la libertà di stampa, e mandano alti lai contro la censura e gridano al sequestro preventivo: non hanno mica detto che occorre impartire una punizione esemplare a questi stranieri che insozzano il suolo patrio, loro. E così, sempre non dicendo questo o quello, fomentano l’odio, alimentano l’intolleranza, minacciano la democrazia.

Quel che invece è da dire con forza è che c’è certamente un’Italia moderna, civile, aperta, rispettosa ed anzi amante delle differenze, che è pronta per un dibattito maturo e sereno sui temi dell’integrazione e per introdurre finalmente nella legislazione italiana una legge avanzata sullo ius soli, che allinei il paese alle più significative esperienze dei paesi occidentali. Questo è da dire, e da fare. Non minimizzare o prendere sotto gamba, perché la diffusione di movimenti razzisti e xenofobi nell’Europa di oggi, nonostante le terribili lezioni del passato, è un dato di realtà, che va contrastato con la massima fermezza. Finché infatti i venti di crisi continueranno a soffiare, sappiamo purtroppo – per la terribile esperienza che ha conosciuto l’Europa nel Novecento – che la risposta progressista non è affatto scontata, ma va anzi conquistata e difesa. E dunque: Matteo Salvini incontri pure Marine Le Pen; noi però non facciamo mancare al paese l’incontro con i socialisti e democratici europei.

(L’Unità, 16 gennaio 2014)