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Un futuro per il Sud

 

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M. Pistoletto, Venere degli stracci (1967)

Idiozie, stupidaggini, follie. Non usa mezzi termini, Adriano Giannola, per bollare la proposta di una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione italiana, avanzata in Puglia dal gruppo consiliare dei Cinquestelle e sostenuta con voto quasi unanime, compreso quello del Presidente Emiliano. Ma a fargli scuotere il capo non è tanto il merito della proposta, quanto il fatto che il dibattito sulle ragioni del Sud devii verso questioni del tutto anacronistiche, lontane dai problemi veri del Mezzogiorno. Ha una voce sottile ma ferma, che a volte sembra alzarsi come quella di un profeta inascoltato. E parla piano ma senza mai smarrire il filo del ragionamento:

«Si tenta di spiegare il divario Nord/Sud recriminando sulle ingiustizie passate. Il problema è invece rivendicare oggi – con molta determinazione, con argomenti e con buon senso – un ruolo diverso per il Mezzogiorno. C’è un cortocircuito che viene da lontano, almeno dagli anni Novanta, alimentato quasi ad arte da politiche sbagliate. E che oggi si manifesta nel modo più deteriore con queste scorciatoie verso nulla. Queste celebrazioni di nulla».

Nulla, beninteso, cioè priva di significato e persino controproducente è la piega presa da questo meridionalismo recriminatorio che veste i panni nostalgici di un improbabile revival neoborbonico. Non lo è certo una lettura attenta e non agiografica della storia d’Italia:

«Basta prendere Cavour. Cavour muore al momento dell’Unità. E muore raccomandandosi al Re – così racconta la nipote – perché l’Italia del Settentrione è fatta “ma mancano i napoletani”. Intende naturalmente il Regno delle due Sicilie. E si raccomanda proprio al Re, che lo va a trovare nelle sue ultime ore: «Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In vent’anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio. Ve lo raccomando”. Insomma: mi sembra che avesse le idee chiare».

Le aveva, certamente. E aveva qualche ragione anche di dire che “non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani”.

«Ma lo stato d’assedio ci fu. Massimo D’Azeglio, sempre nell’agosto del 1861, su un giornale francese scrisse: “La questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendente soprattutto dai napoletani, a meno che non si voglia, per la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato […]. Anche a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per instaurare un governo eletto dal suffragio universale. Ma occorrono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volere la nostra presenza. […] Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni e i principi e trovare il mezzo per sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci vogliono”. E poi conclude: “Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate invece che con gli argomenti”. In realtà si rispose con le archibugiate e con lo stato d’assedio. Quindi che ci sia stata una guerra civile – anche interna al Mezzogiorno, tra quelli che erano a favore e quelli che erano contro l’unificazione – è fuor di dubbio».

L’uso del concetto di guerra civile a proposito del brigantaggio postunitario è ben presente nel dibattito storiografico degli ultimi decenni (per esempio nei lavori di Salvatore Lupo). Ma il punto, per Giannola, non riguarda affatto la ricerca storica:

«In quegli anni, esattamente in quegli stessi anni, c’è stata la guerra civile negli Stati Uniti. Non mi sembra che lì si ponga una questione del Sud e del Nord negli stessi termini che da noi. Negli USA ci sono stati quattro anni di guerre civili, massacri enormi perpetrati da battaglioni con l’uniforme. Il Nord ha vinto, il Sud ha perso. Ma gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. E certo non stanno a discutere di fare la giornata per le vittime della Secessione.

Che senso ha allora scoprire da noi che c’è stata una guerra civile? I briganti non erano soltanto dei briganti: e allora? Dopo vent’anni di stupidità assoluta in cui il localismo l’ha fatta da padrona – questo il vero dramma – siamo a discutere di cosa? Di quali idiozie? Che cosa pensiamo di rivendicare, con ciò? Bisogna invece fare i conti con la realtà. Non è così che si sostiene la causa del Sud».

Però c’è un partito che sostiene che il Sud si è caricato con l’unificazione di un enorme fardello. Che l’unità d’Italia ha penalizzato l’economia meridionale. Che al momento dell’unificazione il divario fra le diverse aree del Paese non era così ampio com’è stato in seguito:

«In questa diatriba tocca andarci coi piedi di piombo perché è vero che, quale che fosse prima dell’unificazione (ed io penso che c’era ma non era così enorme), il divario Nord/Sud peggiora. Comincia anzi a peggiorare vent’anni dopo l’Unità, per tutta una serie di motivi che la storiografia ha saputo indagare. Ma in generale è vero: connettere il Nord al Sud (i grandi lavori, le ferrovie), in un quadro di politica liberale, fece aumentare il divario perché era più facile concentrare risorse nella parte più sviluppata del Paese. Paradossalmente, l’infrastrutturazione ruppe le barriere per dir così naturali favorendo la concentrazione al Nord.

Ma dal punto di vista sociale (età media, mortalità infantile, analfabetismo) il Mezzogiorno ebbe invece un recupero incredibile. Quindi stiamo attenti perciò a dire che il Mezzogiorno ha pagato economicamente e socialmente. È molto più complesso. Certo, a un certo punto le convenienze di mercato avvantaggiarono il Nord. Ma la differenza di fondo che mi interessa è che allora il Mediterraneo contava molto, molto poco, mentre oggi conta molto di più».

Giannola vuole venire ai giorni nostri, al presente. Al modo in cui ricostruire le ragioni di un nuovo meridionalismo. Alle sfide che l’Italia, non solo il Mezzogiorno, ha dinanzi. Ai nuovi scenari geopolitici che si aprono oggi per il nostro Paese:

«Vogliamo collocare l’Italia in Europa? Vogliamo capire per il Sud cosa significhi questa nuova collocazione? Il baricentro cambia, si va verso Sud. Possiamo essere la sponda del Mediterraneo ora che il nostro mare torna ad essere fondamentale via di commercio. Se l’Italia ha un minimo di consapevolezza e di visione è il momento che il Mezzogiorno abbia il suo ruolo. Queste sono le condizioni da discutere, non è di guerra civile e di Risorgimento che dobbiamo parlare. Costruiamo su queste basi il ragionamento sul Paese, sul Nord e sul Sud. In questi anni non siamo stati vittime, ma (mi perdoni la parola) cretini, perché abbiamo rinunciato a una strategia, perché abbiamo accettato tante idiozie ben vestite sul piano culturale, perché abbiamo smantellato l’unica cosa seria che abbiamo fatto dall’Unità in poi, l’intervento straordinario».

Su cui però il giudizio comune non è così univocamente lusinghiero.

«Dal ‘57 al ‘73-’74, checché se ne dica, è avvenuto questo: con trasferimenti molto contenuti il Sud è cresciuto più del Nord, il divario del reddito pro capite è diminuito di ben dieci punti.

Quel disegno è stato in seguito abbandonato e addirittura demonizzato. Dalla crisi petrolifera in poi si è persa la capacità strategica di destinare risorse allo sviluppo. E i trasferimenti, anche maggiori rispetto agli anni passati, sono diventati solo uno strumento di assistenzialismo improduttivo. Non a caso se sono quelli gli anni in cui nascono le Regioni e i poteri decentrati.

Ma la questione italiana è di nuovo la questione del Paese intero. I segnali ci sono perché il Mezzogiorno torni ad essere centrale: non per idealità, ma per interesse nazionale. Come è stato del resto all’indomani della seconda guerra mondiale, con la riforma agraria e l’intervento per il Mezzogiorno, che insieme posero le basi del miracolo economico».

A me però colpisce il fatto che nel Mezzogiorno prosegue invece lo smottamento dei temi su cui si fonda la legittimazione dello Stato nazionale. Come se dalla disgregazione del tessuto nazionale il Sud avesse da guadagnarci e non da perderci.

«Vediamo allora cosa succederebbe se tornassimo a prima dell’Unità. Checché se ne dica, il Sud riceve dal Nord il 25% delle sue risorse. Non si tratta di carità: l’Italia è uno Stato nazionale e non uno Stato confederale. Vi sono diritti di cittadinanza (la scuola, la sanità) che è giusto – ed è soprattutto efficiente – che le risorse vadano a garantirli in modo uguale a Palermo come in Val d’Aosta. Poi in realtà essi non sono garantiti per cui il Mezzogiorno ha molti crediti, ma certo non per i torti subiti nel passato. Ma se fossimo indipendenti sarebbe un dramma. L’impatto sarebbe immediatamente negativo in termini di trasferimenti di risorse verso Nord e di enormi conseguenze sociali ed economiche».

E allora torniamo all’oggi. Come giudica il lavoro di quest’ultima legislatura?

«Oggi è un momento propizio. Il governo Renzi lanciò il cosiddetto Masterplan per il Sud. Certo, l’iniziativa aveva anche una finalità propagandistica, ma ha consentito di recuperare un minimo di direzione. Oggi il Ministro della Coesione territoriale e Mezzogiorno ha voce in capitolo per indicare priorità. Può addirittura arrivare a dire che almeno il 34% degli investimenti pubblici deve essere fatto nel Mezzogiorno, altrimenti salta il Paese. È una novità non da poco. E non è assistenza, è esattamente il contrario.

Penso, ancora, alle zone economiche speciali. Sono strumenti che dovrebbero diventare immediatamente preda delle Regioni, perché le facciano, perché si coordinino in un disegno nazionale. Rifare i porti di Napoli o di Taranto non è un problema di Napoli o di Taranto ma dell’intero Paese. Un problema di intercettare i flussi di merci che provengono dalla Cina e di sfruttare i vantaggi enormi che ci derivano dalla nostra posizione di perno del Mediterraneo. Mi lasci dire: l’Italia è uscita dal Medioevo grazie alle Repubbliche marinare: dovremmo ricordarcene. Se però facciamo scappare i cinesi in Grecia, nel Pireo, per via di incredibili lungaggini burocratiche, e intanto parliamo della Giornata della memoria, ci rendiamo colpevoli di un fallimento strategico».

Non sarebbe l’unico fallimento strategico, nella storia del Sud d’Italia. Una cesura si è senz’altro prodotta negli anni Settanta, come prima ricordava. Ma un’altra cesura più recente cade con la fine della prima repubblica, quando la questione meridionale viene soppiantata dalla questione settentrionale agitata anzitutto dalla Lega.

«Quegli anni sono anche gli anni in cui finisce formalmente l’intervento straordinario. E coincidono con la prima grande crisi finanziaria europea. Noi siamo stati cacciati dal SME e abbiamo fatto una svalutazione del 40% in un solo anno, che ha rimesso in moto l’economia del Nord, distrutta dal tentativo di entrare nella cosiddetta banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Il Sud non era esportatore e quindi non ha beneficiato della svalutazione, ma soprattutto fu oggetto della prima illegale spending review. Delibere già emanate e formalmente valide per contributi a quindicimila imprese vengono cancellate, con una scia di fallimenti e contenziosi che trascinò con sé la crisi del banco di Napoli. Fu questa la causa strutturale, non la mala gestio. L’economia del Sud fu bloccata. Quel periodo fu un periodo di crisi acutissima dell’economia del Mezzogiorno, da cui si pretese velleitariamente di uscire con la nuova programmazione e i patti territoriali. Una pura idiozia. Aver segregato il Mezzogiorno nei fondi strutturali, peraltro sostitutivi e non aggiuntivi, ha significato farne una riserva indiana, dal ’98 in poi».

Gianfranco Viesti ha scritto sul Mattino che la classe dirigente nazionale non sapendo più parlare agli italiani si piega a sollecitare piuttosto gli egoismi locali…

«Non hanno capacità di analisi e sono incapaci di guardare alla storia. Il Mezzogiorno è il nodo. Nel 1903 De Viti De Marco, un ‘autorità mondiale in materia di finanza pubblica, disse una cosa molto semplice. Finché il Sud rimarrà una specie di colonia, l’Italia non conterà nulla in Europa. Sarà insomma una specie di Olanda, solo con un territorio molto più grande e con una popolazione più numerosa, quindi molto più povera. Se si vuole divenire potenza europea – diceva già nel 1903, io dico: se vogliamo essere leader nell’area euro-mediterranea – occorre darsi da fare. Nonostante il rallentamento mondiale, noi siamo talmente sottodimensionati che abbiamo spazi enormi da recuperare. Abbiamo nuovamente, grazie alla posizione centrale nel Mediterraneo, una rendita di posizione da sfruttare. Ma non siamo ancora in grado di valorizzarla. Ci vorrebbe una grande rigenerazione orientata da due o tre priorità che siano priorità del Paese.

La via d’uscita non è celebrare i drammi della guerra civile. È vero che c’è stata. E che c’è una colpa della retorica risorgimentale. Basta vedere il film di Mario Martone, «Come eravamo», per capire ciò che è stato. Dopodiché però siamo diventati parte di un sistema ed è in questo sistema che dobbiamo operare».

(Il Mattino, 10 agosto 2017)

Il diritto di un codice

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A. Burri, Bianco plastica B5 (1965)

Mettere centomila persone in uno, due stadi di calcio si può fare. Ma se già abbiamo difficoltà ad assicurare la sicurezza di un normale deflusso dagli impianti in occasione di certi eventi sportivi, figuriamoci se quella può mai essere la soluzione per dare accoglienza ai migranti. Mario Calabresi, nel suo editoriale su Repubblica di ieri, voleva dare un’idea delle proporzioni del fenomeno migratorio rispetto alla popolazione italiana complessiva, ma l’immagine che ha scelto non è molto felice. Quella di stipare i migranti in uno stadio sembra anzi un’idea “concentrazionaria” da Paese sudamericano negli anni Settanta, e dimostra che non sempre, quando si parla di accoglienza, si parla davvero e per intero di politiche di accoglienza, di gestione controllata di flussi migratori, di strategie di medio-lungo periodo per fronteggiare un fenomeno che, da qualunque lato lo si guardi, non ha nulla di passeggero. Accoglienza non è salvataggio degli uomini in mare, e nemmeno mero deposito e magazzinaggio di uomini: è tutto quello che viene dopo, e per cui purtroppo il nostro Paese non si è dimostrato, finora, seriamente attrezzato.

Però Calabresi ha ragione su un punto: il problema non sono, non possono essere le Ong. Ragioniamo per ipotesi: se domani mattina dal Mediterraneo scomparissero d’incanto tutte le navi che oggi prestano soccorso in mare, gli arrivi dall’Africa subsahariana, dalle regioni più povere del mondo, dai teatri di guerra africani e del Medio Oriente si arresterebbero? È illusorio crederlo. Piuttosto, la pressione demografica, che si esercita su Paesi gravati spesso da condizioni politiche, economiche e ambientali assai difficili, continuerebbe a spingere uomini, donne e bambini a tentare altre vie e a inventarsi altri mezzi e maniere per lasciare le loro terre in cerca di migliore fortuna. Né si farebbe miglior figura a dire che però, in questo modo, sarebbero risparmiati i porti e le città italiane. Mentre chiediamo all’Europa di impegnarsi in uno sforzo comune e condiviso, e ci rammarichiamo degli egoismi degli altri Paesi (ma – sia detto per inciso – questi altri Paesi non hanno affatto, in generale, una presenza di stranieri inferiore alla nostra, e noi non siamo affatto sotto minaccia di un’invasione), non si può fondare una politica nazionale solo sul modo in cui deviare i flussi verso altre mete, altri porti e altre città. In ogni caso, pure in questa ipotetica disinfestazione del nostro mare, non si riuscirebbe certo ad interrompere, estinguere, troncare la migrazione in corso. Ed è per questa ragione che non si vuol spedire la palla in tribuna quando si chiede invece all’Unione europea di fare fronte comune. Da un lato, l’Europa tutta non sarà più senza stranieri, senza cioè una quota significativa di popolazione extra-europea, il fenomeno è strutturale e la xenofobia non è una soluzione. Dall’altro, l’Europa prima ancora che l’Italia deve anche sapere, e non può fingere di non sapere, che la rotta centrale del Mediterraneo, che porta i migranti in Italia, è anche quella più costosa in termini di vite umane.

Ma una politica nazionale ci vuole. E accogliere tutti non è una politica: questa è una proposizione “grammaticale”, un’istruzione sull’uso della parola “politica”. Che comporta sempre una qualche correlazione fra fini e mezzi, fra possibilità e realtà, fra fatti e parole. E, certo, anche fra quello che siamo e quello che vogliamo essere. Ora, è comprensibile che un’organizzazione non governativa, in ossequio ai propri principi (che trovano fondamento in norme e convenzioni sovranazionali), agisca secondo finalità strettamente umanitariee e provi a salvare il maggior numero di persone. Ma lo è altrettanto che uno Stato, nelle proprie politiche, tenga conto delle conseguenze di quell’agire. Che denunci l’effetto perverso per cui all’aumentare delle possibilità di salvataggio in mare dei migranti aumenta anche il numero di imbarcazioni che gli scafisti mettono in acqua, lucrando sulla disperazione dei migranti e sulla buona fede dei soccorritori. Ma se non si può chiedere alle Ong di spezzare un simile circolo vizioso, non vuol dire che lo Stato italiano non debba cercare di spezzarlo. Il codice Minniti è un tentativo del genere. Si tratta peraltro di un codice di autodisciplina (che quindi viene liberamente sottoscritto), prova a dare regole comuni alle azioni di salvataggio in mare, e prevede, in certi casi, presenza di polizia giudiziaria: non per militarizzare le Ong, ma per la conduzione di attività di indagine sul traffico di esseri umani.

Entro questi limiti, il tentativo ha senso. Non lo ha più, ed anzi prende un senso perfino sinistro, se ad esso si affida una sorta di prova muscolare con cui dimostrare che non vogliamo più stranieri sull’italico suolo. Non sono troppi, gli stranieri, e non sono nemmeno pochi: sono invece fatti entrare nel peggiore dei modi possibili. Per mani clandestine, a rischio della loro stessa vita, in balia di mercanti senza scrupoli. Ammassati nei barconi, ammassati nei centri di accoglienza, ammassati nelle periferie delle nostre città. E chissà: magari in futuro in uno stadio. Masse, insomma: che perciò fanno numero, e fanno paura. Ma se chiudere ogni via è impossibile, oltre che ingiusto, aprirne di regolari, e controllate, è, invece, una strada percorribile. E per farlo bisogna, credo, aprire un poco anche le nostre menti.

(Il Mattino, 9 agosto 2017)

L’emergenza che frantuma gli ideali

Mare

Lo scorso anno l’Europa ha adottato un’agenda europea sulla migrazione in cui ha formulato le azioni prioritarie da attuarsi per far fronte l’emergenza. L’emergenza è la seguente: nel corso dell’intero 2014 sono giunti in Europa 282.500 migranti. Nel 2015 hanno tentato di attraversare in maniera irregolare le frontiere esterne dell’Unione Europea 1,83 milioni di persone. Di queste, secondo l’Unicef, il 20% (in lettere: il venti per cento) sono bambini. I numeri si leggono nella articolatissima risoluzione adottata l’aprile scorso dal Parlamento europeo. La quale risoluzione prosegue: menzionando i doveri di solidarietà iscritti nei trattati dell’Unione; ricordando che salvare vite in mare non è solo un dovere morale ma è anche un obbligo giuridico di diritto internazionale; formulando una serie di considerazioni sullo sviluppo di vie sicure e legali per l’accesso dei richiedenti asilo e dei rifugiati. C’è anche dell’altro, nella risoluzione: ci sono i rimpatri, i ricongiungimenti, la tutela dei minori. C’è l’auspicio di un approccio globale alla migrazione, volta a smantellare le reti criminali nella tratta e nel traffico illegale di persone; c’è il richiamo alle decisioni di ricollocazione dei migranti nello spazio interno dell’Unione assunte dal Consiglio europeo per far fronte all’emergenza, con particolare riguardo alla posizione particolarmente esposta in cui si trovano, per motivi geografici, l’Italia e la Grecia; c’è il sostegno operativo ai due paesi del versante meridionale dell’Unione per l’allestimento dei punti di crisi (gli «hotspot»); c’è l’invito a rivedere il regolamento di Dublino che stabilisce sì i criteri per la determinazione dello Stato europeo competente all’esame della domanda di protezione internazionale, e alla concessione dell’asilo, ma che non era stato concepito per affrontare il problema della ripartizione delle responsabilità fra tutti gli Stati dell’Unione. C’è praticamente tutto: c’è il diritto internazionale ma pure quello penale, c’è la cooperazione coi Paesi terzi, di origine e di transito dei migranti, e ci sono  le cause profonde, di carattere geopolitico, che impongono l’azione diplomatica, il coinvolgimento degli organismi internazionali, risorse finanziarie per contribuire a ricostruire i paesi in situazioni di «guerra, povertà, corruzione, fame e mancanza di opportunità». C’è, infine, persino la sottolineatura che il mantenimento dello spazio Schengen – l’Europa senza frontiere interne – è subordinato alla gestione efficace delle frontiere esterne dell’Unione, e non è quindi una cosa che possa essere data per scontata. Anche se subito dopo è espressa la preoccupazione che la chiusura temporaneo di frontiere interne da parte di alcuni Stati membri rischia di mettere in pericolo una delle maggiori conquiste dell’integrazione europea. Insomma: c’è il GAMM, l’Approccio Globale per la Migrazione e la Mobilità, e tutto quello che sta dentro il GAMM.

Dopodiché, essendoci tutto questo, ci sono i sindaci. I sindaci delle città italiane, piccole e grandi, che in buon numero sono pure in campagna elettorale, e a cui riesce difficile partecipare a una gara di solidarietà che temono abbia per loro un costo in termini di consenso. È forse miope – senza forse: lo è senz’altro – avere una così corta vista e ragionare su come affrontare un problema epocale, di così ampie proporzioni, in considerazione del prossimo 5 giugno. Ma di simili miopie, e di egoismi e di paure, insicurezze – a volte legittime, altre volte no –, di interessi poco lungimiranti e pure però di difficoltà obiettive, legate a mancanza di strutture, di mezzi, di disponibilità finanziarie, anche di tutte queste cose è fatto lo spazio Schengen. Cose che, peraltro, non se ne andranno con il 5 di giugno. Allora: deve sicuramente crescere in tutti il livello di consapevolezza della sfida, altrimenti non ce la si fa. Ma deve compiere uno straordinario salto di qualità pure la risposta organizzativa: la risposta pratica, concreta, operativa. Perché i barconi continuano a prendere il mare. Oltre la linea dell’orizzonte che noi vediamo da qui si continua a combattere, e a morire.  Facciamo allora che le affermazioni di diritto non si risolvano in petizioni di principio. E che fra le risoluzioni in dozzine di pagine del Parlamento e l’assessore del comune che deve trovare dalla sera alla mattina strutture di accoglienze idonee, qualcosa ci sia, che leghi piccoli interessi e grandi ideali, e il breve e il lungo periodo, e le paure di perdere tutto e la prospettiva di costruire invece qualcosa. Quella cosa c’era, si chiamava politica. Sarebbe bello dimostrare che serve ancora.

(Il Mattino, 27 maggio 2016)