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Il brutto clima e le decisioni da prendere

Nauman

B. Nauman, Body Pressure (1974)

Ho l’impressione che occorra affrontare una domanda preliminare per mettere un po’ di riflessione sui fatti intorno ai quali si arroventano le polemiche di questi giorni. Parlo naturalmente della questione migratoria, che si presenta ora sotto l’aspetto degli sbarchi, ora sotto quello degli sgomberi, ora nei rapporti con l’Unione europea, ora nelle responsabilità dei sindaci. Nulla e nessuno ne viene risparmiato, se a Pistoia il vescovo deve mandare il suo vicario generale a concelebrare la messa con don Massimo Biancalani, dopo l’annunciata partecipazione di «militanti forzanuovisti» di estrema destra, preoccupati di vigilare de visu sull’effettiva dottrina professata dal sacerdote pro-migranti. È sicuramente un episodio, ma un episodio indicativo di un clima parecchio invelenito, in cui qualunque gesto di accoglienza o di integrazione viene considerato complice di una sconsiderata politica immigrazionista che mina alle radici, in un irresistibile climax, prima l’ordine pubblico e la sicurezza, poi il benessere degli italiani, infine l’identità della Nazione e i suoi fondamenti storici, etici e spirituali. Ma è vero altresì che qualunque iniziativa presa dal Viminale o dalle Prefetture, per il solo fatto che a muoversi sono le forze dell’ordine, diviene espressione di intolleranza e di autoritarismo. Ogni volta che la polizia usa un idrante c’è qualcuno che cita Pinochet. Lo sgombero dello stabile di via Curtatone non è stato certo un capolavoro di efficienza – come del resto non lo sono stati gli anni in cui l’edificio è rimasto occupato nell’indifferenza generale – ma la polizia che interviene non assume, per il solo fatto di intervenire, l’aspetto di una falange fascista. Solidarietà e accoglienza non si fanno gettando per strada i rifugiati, ma non si fanno nemmeno stipandoli per anni in un palazzo in cui gli operatori sociali non riescono nemmeno a entrare.

Clima invelenito, polemiche surriscaldate dal lucro politico che sulla questione migranti è possibile realizzare facilmente, per cui i soldi spesi per le politiche di integrazione sono tolti agli italiani che se la passano male e i migranti sono quelli che stanno tutti in alberghi a quattro stelle (e ora don Biancalari li porta pure in piscina). Ma sono polemiche complicate anche dalle astratte posizioni di principio che rifiutano di guardare di volta in volta, nella concretezza delle situazioni reali, cosa mai da quei principi principia. Cioè succede davvero. È stato così con il codice Minniti, che addirittura per taluni non sarebbe figlio di una cultura democratica, anche se le politiche messe in campo dal governo ci hanno risparmiato un’estate di immani tragedie in mare: non solo meno sbarchi, ma anche meno morti nelle acque del Mediterraneo.

Qual è allora la domanda preliminare? Eccola: cosa significa essere cittadini? Questa domanda ha sicuramente un risvolto teorico, e chiama in causa secoli e secoli di riflessione filosofico-politica, accompagnando praticamente tutto il corso della storia umana. Ma ha poi anche un lato sociologico, pratico, che riguarda la maniera in cui gli italiani si sentono cittadini. Attenzione: non cosa significa essere italiani, ma cosa per gli italiani significa essere cittadini. E cioè: cosa ritengono che essi debbano alla condizione della cittadinanza, quali diritti e quali doveri sono ad essa legati, chi sono disponibili a considerare cittadini alla loro stessa stregua, quali formazioni simboliche sono coinvolte nel modo in cui essi si sentono cittadini, in che modo si sentono effettivamente accumunati da questa condizione, e così via. Ho il timore che anche nel dibattito sul cosiddetto ius soli (che dovrebbe riprendere a settembre, ma chissà) questa domanda non sia stata seriamente presa in considerazione. Eppure è lì la chiave: prima ancora di capire chi siano i migranti, cosa dobbiamo o non dobbiamo loro in termini morali, giuridici o politici, noi dovremmo sapere chi siamo noi, quale comunità politica formiamo in quanto cittadini di una democrazia costituzionale. Ho paura infatti che la dimensione normativa connessa all’idea della cittadinanza sia per noi italiani veramente troppo gracile, e finisca spesso per essere completamente schiacciata dal peso degli umori e dei sentimenti. E, certo, anche dei pregiudizi e delle ideologie. Solo così si spiega perché ogni appello alla legge, in questo Paese, suona invariabilmente di destra. Ma si spiega pure perché troppo spesso alla destra slitti la frizione, dimenticandosi che essere italiani significa esserlo come cittadini, dentro un quadro costituzionale di diritti e di garanzie, a sua volta inserito ormai in una cornice di diritto europeo e internazionale che è parte altrettanto irrinunciabile della nostra cittadinanza. Così ci sono quelli che rifiutano anche solo l’idea che si possa mettere fine a un’occupazione illegale, e quegli altri che se sentono parlare di diritto del mare o di protezione internazionale gridano subito alla sovranità violata. Gli uni e gli altri non fanno che agitare bandiere. Gli uni in nome di un umanitarismo di fatto inconcludente condannano lo Stato italiano (e dunque loro stessi) all’impotenza; gli altri in nome di un malinteso sovranismo perpetuano condizioni di emarginazione, esclusione e conflitto, riducendo gli spazi di libertà e di democrazia (e quindi i loro stessi spazi). Le politiche di integrazione non si fanno né in un modo né nell’altro, ovviamente. Però vanno fatte. E siccome sono politiche, cioè cose che richiedono tempo perché dispieghino i loro effetti – soprattutto innanzi a fenomeni di lunga portata come le migrazioni in corso – bisogna che ci sia una cultura preparata a sostenerle. Malauguratamente, a volte, i luoghi dove ospitare i rifugiati non sono l’unica cosa che manca. E la cultura: non c’è prefetto, purtroppo, che possa requisirla da qualche parte.

(Il Mattino, 28 luglio 2017)

L’emergenza che frantuma gli ideali

Mare

Lo scorso anno l’Europa ha adottato un’agenda europea sulla migrazione in cui ha formulato le azioni prioritarie da attuarsi per far fronte l’emergenza. L’emergenza è la seguente: nel corso dell’intero 2014 sono giunti in Europa 282.500 migranti. Nel 2015 hanno tentato di attraversare in maniera irregolare le frontiere esterne dell’Unione Europea 1,83 milioni di persone. Di queste, secondo l’Unicef, il 20% (in lettere: il venti per cento) sono bambini. I numeri si leggono nella articolatissima risoluzione adottata l’aprile scorso dal Parlamento europeo. La quale risoluzione prosegue: menzionando i doveri di solidarietà iscritti nei trattati dell’Unione; ricordando che salvare vite in mare non è solo un dovere morale ma è anche un obbligo giuridico di diritto internazionale; formulando una serie di considerazioni sullo sviluppo di vie sicure e legali per l’accesso dei richiedenti asilo e dei rifugiati. C’è anche dell’altro, nella risoluzione: ci sono i rimpatri, i ricongiungimenti, la tutela dei minori. C’è l’auspicio di un approccio globale alla migrazione, volta a smantellare le reti criminali nella tratta e nel traffico illegale di persone; c’è il richiamo alle decisioni di ricollocazione dei migranti nello spazio interno dell’Unione assunte dal Consiglio europeo per far fronte all’emergenza, con particolare riguardo alla posizione particolarmente esposta in cui si trovano, per motivi geografici, l’Italia e la Grecia; c’è il sostegno operativo ai due paesi del versante meridionale dell’Unione per l’allestimento dei punti di crisi (gli «hotspot»); c’è l’invito a rivedere il regolamento di Dublino che stabilisce sì i criteri per la determinazione dello Stato europeo competente all’esame della domanda di protezione internazionale, e alla concessione dell’asilo, ma che non era stato concepito per affrontare il problema della ripartizione delle responsabilità fra tutti gli Stati dell’Unione. C’è praticamente tutto: c’è il diritto internazionale ma pure quello penale, c’è la cooperazione coi Paesi terzi, di origine e di transito dei migranti, e ci sono  le cause profonde, di carattere geopolitico, che impongono l’azione diplomatica, il coinvolgimento degli organismi internazionali, risorse finanziarie per contribuire a ricostruire i paesi in situazioni di «guerra, povertà, corruzione, fame e mancanza di opportunità». C’è, infine, persino la sottolineatura che il mantenimento dello spazio Schengen – l’Europa senza frontiere interne – è subordinato alla gestione efficace delle frontiere esterne dell’Unione, e non è quindi una cosa che possa essere data per scontata. Anche se subito dopo è espressa la preoccupazione che la chiusura temporaneo di frontiere interne da parte di alcuni Stati membri rischia di mettere in pericolo una delle maggiori conquiste dell’integrazione europea. Insomma: c’è il GAMM, l’Approccio Globale per la Migrazione e la Mobilità, e tutto quello che sta dentro il GAMM.

Dopodiché, essendoci tutto questo, ci sono i sindaci. I sindaci delle città italiane, piccole e grandi, che in buon numero sono pure in campagna elettorale, e a cui riesce difficile partecipare a una gara di solidarietà che temono abbia per loro un costo in termini di consenso. È forse miope – senza forse: lo è senz’altro – avere una così corta vista e ragionare su come affrontare un problema epocale, di così ampie proporzioni, in considerazione del prossimo 5 giugno. Ma di simili miopie, e di egoismi e di paure, insicurezze – a volte legittime, altre volte no –, di interessi poco lungimiranti e pure però di difficoltà obiettive, legate a mancanza di strutture, di mezzi, di disponibilità finanziarie, anche di tutte queste cose è fatto lo spazio Schengen. Cose che, peraltro, non se ne andranno con il 5 di giugno. Allora: deve sicuramente crescere in tutti il livello di consapevolezza della sfida, altrimenti non ce la si fa. Ma deve compiere uno straordinario salto di qualità pure la risposta organizzativa: la risposta pratica, concreta, operativa. Perché i barconi continuano a prendere il mare. Oltre la linea dell’orizzonte che noi vediamo da qui si continua a combattere, e a morire.  Facciamo allora che le affermazioni di diritto non si risolvano in petizioni di principio. E che fra le risoluzioni in dozzine di pagine del Parlamento e l’assessore del comune che deve trovare dalla sera alla mattina strutture di accoglienze idonee, qualcosa ci sia, che leghi piccoli interessi e grandi ideali, e il breve e il lungo periodo, e le paure di perdere tutto e la prospettiva di costruire invece qualcosa. Quella cosa c’era, si chiamava politica. Sarebbe bello dimostrare che serve ancora.

(Il Mattino, 27 maggio 2016)